Valter Binaghi, Pastori e contadini
Il pastore luterano Heinz Grasshopper di Stoccarda e monsignor Mario Audisio di Macerata erano diventati col tempo buoni amici. Dal 1997 s’incontravano al Convegno Interconfessionale di Studi Biblici che si teneva ogni anno a Mulhouse, in Alsazia. Nel tempo libero da Relazioni e seminari avevano scoperto di avere tre passioni in comune: il gioco degli scacchi e le discussioni teologiche che sviluppavano con reciproco rispetto e dovizia di argomenti davanti a una bottiglia di Sylvaner, terzo e insostituibile elemento della loro spirituale relazione.
Quella sera, dopo una partita vinta fin troppo facilmente dal tedesco in 15 mosse, fu stappata una seconda bottiglia del pregiato bianco e la discussione cadde, chissà perchè, su uno dei più controversi episodi del Genesi, cui già l’esegeta ebreo Filone di Alessandria aveva dedicato più di uno dei suoi trattati: la storia di Caino e Abele, il dolente fratricidio, o meglio il suo movente.
Il pastore Grasshopper, citando a memoria i versetti del Genesi, riteneva certissimo che proprio in questo punto la Scrittura legittimasse la dottrina luterana del “servo arbitrio”:
Abele divenne pastore di greggi e Caino coltivatore della terra. Qualche tempo dopo, Caino portò come offerta al Signore alcuni prodotti della terra. Abele, a sua volta, portò primogeniti del suo gregge e ne offrì al Signore le parti migliori. Il Signore guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non prestò attenzione a Caino e alla sua offerta. Caino si irritò e rimase col volto abbattuto.
“Ecco qui, monsignore”, concluse Grasshopper, “l’evidenza testuale, pura e semplice. Intimamente corrotto dagli effetti del peccato d’origine, Caino risulta incapace di un sacrificio gradito al Signore”.
“Non sono daccordo, caro amico”, disse l’italiano: “Il testo infatti continua così: Il Signore disse: “Perché ti sei abbattuto? Perché sei tanto scuro in volto? Se agisci bene il tuo volto tornerà sereno, se no, il peccato, che sta accovacciato alla tua porta, vorrà avere il sopravvento su di te. Ma tu devi dominarlo”. Ora, se l’uomo non avesse alternativa al peccato, perchè il Signore rivolgendosi a Caino lo invita ad ‘agire bene’? Io vedo in questo qualcosa di esattamente opposto alla sua interpretazione. Caino ha preferito covare rancore verso Dio e verso il fratello piuttosto che accettare una prova che avrebbe temprato il suo spirito”
Il pastore Grasshopper ascoltò pazientemente il collega, dopo di che scosse il capo gravemente.
“Tutto sta”, disse, “nell’interpretare correttamente quell’espressione: ‘agisci bene’. Come può l’uomo agire bene? Forse che qualcuna delle sue opere può dirsi perfettamente buona, al punto da acquistare agli occhi di Dio un merito assoluto? Dimentichiamo che Uno solo è buono, Uno solo è innocente e costui è il Cristo, concepito senza peccato? Ecco invece in cosa consisteva, per Caino l’agire bene: se avesse riconosciuta come ineliminabile dalla condizione umana la colpa, confidando unicamente nella misericordia di Dio, si sarebbe rassegnato ad attendersi da Lui solo la Grazia, anziché crescere in quella superbia del cuore che prima porta a presumere l’onnipotenza dei propri mezzi, e poi a odiare fino alla morte chi la smentisce, ovvero il povero Abele”
“Ecco, caro Heinz, proprio qui volevo arrivare, ad Abele. Ammettiamo per un momento la vostra lettura: l’uomo è incapace di un sacrificio realmente gradito al Signore, l’uomo non può non peccare. Perchè allora Dio gradì il sacrificio di Abele?”
Per nulla turbato dall’obiezione, il pastore vuotò il suo bicchiere e versò di nuovo un po’ di quel delizioso vino dorato a sé e al collega.
“Probabilmente”, disse, “qui sono le scienze storiche e l’antropologia culturale a dover soccorrere, come già molto spesso è avvenuto, gli sforzi dell’esegeta. La maggiore vicinanza a Dio di Abele si deve indubbiamente al fatto che fu pastore anzichè contadino. Il pastore non ha fissa dimora. Vagando con le sue greggi e avendo come unico riferimento il cielo, si tiene lontano dalle seduzioni delle forme sensibili e dalla presunzione della stabilità, che inducono facilmente il sedentario alla tentazione dell’idolatria. Come è noto, è dalla condizione pastorale che il monoteismo trae le sue origini, mentre tutto l’Antico Testamento mostra come i popoli agricoli del Medio Oriente (Egiziani, Cananei, Babilonesi) costituissero vere e proprie roccaforti del politeismo, che li indusse a vane speculazioni e sacrifici sanguinari, oltre a farne acerrimi nemici del popolo eletto”
“Ma caro amico, la nostra religione non è affatto quel monoteismo iconoclasta, nemico di ogni parvenza sensibile che fu professato dai pastori semiti e che ancora oggi ebrei e musulmani ripropongono. Noi adoriamo il Dio fatto uomo, il Figlio che è perfetta immagine del Padre. E, quanto a questo, mi lasci dire che l’analogia tra il Creatore e la creatura, tra il pensiero e la parola, tra l’intenzione e l’opera, è proprio il risultato più prezioso della cultura contadina. Pensi a quale straordinaria rivelazione spirituale dovette rappresentare, agli albori del Neolitico, la scoperta che il seme è “simbolo” e promessa dell’intera pianta! E ancor più, che dalla morte apparente del seme sotterrato nascerà nuova vita… Tutto questo rimane ben confermato nel Vangelo, le cui parabole sono in gran parte ispirate all’agricoltura: il Seminatore, il buon grano e il loglio…”
“Eppure quella che più di tutte illustra la missione di Nostro Signore è quella del Buon Pastore e della pecorella smarrita… No, mio caro, dissento sulla sua apologia della condizione agricola. Prendiamo l’idea di creazione ex nihilo: essa è completamente aliena dalla mentalità dell’agricoltore, che semmai sperimenta la continuità e la perennità della vita vegetale, ed è fortemente tentato di farne un feticcio. Solo il pastore nomade conosce la lacerazione dell’esodo, la partenza di punto in bianco, lui che assume il rischio dell’ignoto (ricorda Abramo?) può arrivare a concepire l’inizio assoluto, la decisione che crea e non si limita a trasformare…”
La discussione sarebbe andata avanti così per un bel pezzo se dal tavolo vicino non si fosse udito uno strano e breve commento, pronunciato in una lingua straniera ad entrambi, che fece voltare tutti e due i disputanti:
“Yin e Yang”
Seduto al tavolo, riconobbero il giapponese che aveva compitamente assistito al dibattito sorseggiando il suo the in un tale perfetto silenzio che nessuno si era accorto della sua presenza.
Si trattava del professor Teitaro Katasuma dell’Università di Tokyo, invitato per quell’anno al Convegno di Studi Biblici come uditore.
“Può ripetere, per favore?” chiese monsignor Audisio.
“Yin e Yang.” disse il giapponese, con un sorriso luminoso: “In Oriente, sono le due forze che animano l’universo. Come il pieno e il vuoto, il caldo e il freddo, il simile e il dissimile. O, se preferite, il pastore e il contadino. Non è di questo che state parlando?”
“Egregio professore, mi pare di capire cosa intende. Impossibile stabilire una gerarchia. Dunque la nostra sarebbe una discussione inutile”, disse Grasshopper, senza nascondere una certa irritazione.
“Niente è inutile, niente è necessario”, disse tranquillamente il giapponese: “Ma la condizione del Buddha consiste esattamente nell’andare oltre ogni opposizione”
“E non è quello che stiamo facendo? Discutendo, prima o poi la ragione avrà la meglio sul torto”, ribattè il monsignore.
“Non credo proprio. Ogni affermazione ha il suo passato e il suo destino. La sua necessità, il suo diritto di esistere. Non sarà mai soppressa. Volete una prova? State difendendo ognuno la superiorità di uno stile di vita, ma la vostra non è affatto una pacifica disamina: ognuno di voi esalta semplicemente la propria stirpe. Grasshopper quella dei suoi avi Germani, cacciatori e guerrieri nomadi, Audisio quella dei suoi antenati Latini, insediati all’ombra della vite e dell’ulivo.”
I due contendenti furono sinceramente colpiti dalle parole del giapponese. Per un lungo istante tacquero, basiti. Poi l’italiano invitò il professor Katasuma al loro tavolo.
Grasshopper mormorò, parlando più che altro a sé stesso: “La colpa d’origine chiude gli occhi e paralizza il cuore. Che Dio ci liberi quanto prima dalla condizione carnale!”
Audisio commentò: “Se dobbiamo stare a quanto insegnò Gesù, il Dio fatto uomo, non si tratta di uscire dalla condizione carnale, ma di entrarvi giustamente”
Katasuma disse: “Questo vino d’Alsazia ha un colore splendido. Posso averne un bicchiere?”
12 giugno 2013 alle 11:04
La conclusione del prof. Katasuma è in tutto simile a quella che sentii pronunciare dal teologo Hans Holzernkopf, dell’Università di Tubingen, il quale vi giunse per strade proprie, indipendenti da studi su Taoismo e Buddismo. Solo che lo Holzernkopf preferiva il Verdicchio di Jesi 🙂
Ti segnalo un refuso, disanima ==> disamina, e una discordanza (alle mie orecchie): “…non avesse… …lo invita…”.
12 giugno 2013 alle 11:24
Ti ringrazio per la segnalazione del refuso RobySan. La discordanza invece per me non c’è. Si parla di una propensione della condizione umana a peccare e Audisio coglie la contraddizione con l’invito fatto dal Signore a Caino.
12 giugno 2013 alle 13:28
Bisognerebbe capire perchè i due fratelli hanno operato le rispettive scelte. Supponendo che siano avvenute in modo casuale, dal loro punto di vista, Caino impreca perchè il business di Abele “si rivela” più gradito del suo. A questo punto o si lascia andare – perchè “tanto, è tutto già stabilito, ho capito che la Grazia illumina Abele” – o rilancia – perchè “mica mi do vinto? magari ho solo sbagliato business, ci riprovo con la pesca e vedo se frutta di più”, o infine rimane agricoltore e si affida alla Misericordia di Dio, magari godendosi la vita con un buon bicchiere di vino.
Tra le opzioni due e tre credo ci corrano 95 tesi affisse sul portone di una chiesa. La primanon saprei dove e a chi imputarla.