Valter Binaghi, La fine dell’infanzia di Guillermo Torres
L’anno scolastico 1934 era terminato da due settimane. Nella grande casa bianca alla periferia di Tucuman, Guillermo Torres trascorreva interminabili pomeriggi in solitudine. Lo stato sociale della famiglia creola cui apparteneva gli impediva di mischiarsi ai monelli di Plaza Hilario Rodriguez e tanto meno fare il bagno nella fontana insieme a loro. D’altro canto, il suo fratello maggiore Esteban era lontano, nel campeggio con gli altri allievi del Collegio militare, mentre sua madre Dona Manuela era impegnata ogni giorno nella canasta o in accese discussioni con le altre Dame di Carità della parrocchia di San Salvador e Santa Marguerita. Così, spesso Guillermo se ne stava sul terrazzo, aguzzando lo sguardo per vedere le barche che solcavano il fiume Salì, o fantasticando sulle mandrie di nubi che attraversavano il cielo.
Nei giorni di calura insopportabile, si rifugiava nella cantina portandovi sottobraccio il grosso tomo del Libro degli Animali, regalatogli dallo zio Sebastian Fuente il giorno della Cresima. Di quel libro, illustrato dal pittore Martin Falierno, lo affascinava non tanto la narrazione delle abitudini delle bestie o il variabile tasso di ferocia dei predatori, ma proprio quella parata di configurazioni imprevedibili e livree inattese, nelle quali si destava il suo gusto tutto estetico per il prodigio della forma. Amava tra i volatili quelli dal piumaggio più regale e spropositato (il quetzal, l’uccello lira, la paradisea e il colibrì), tra i rettili certe lucertole crestate del deserto australiano che sembrano riproporre in miniatura l’arcaico orrore dei dinosauri, tra i mammiferi i felini più meravigliosamente maculati: l’ocelot, il ghepardo delle nevi, la tigre bianca. Quando la solitudine e l’umidità del luogo cominciavano ad opprimerlo, saliva al piano di sopra, nelle cucine, da dove la cuoca se n’era andata per il sonnellino pomeridiano lasciando la sola Faustina ai lavori più umilmente preparatori della cena: sbucciare piselli, spiumare pollame, sgranare pannocchie di mais.
Faustina era una mulatta pingue e ignorante, ma aveva il viso dolcissimo di una madonna india come quelle rozzamente dipinte sugli ex voto della cattedrale. Aveva già quindici anni (quattro più di Guillermo), ma al padrone Don Fernando Torres non piacevano le donne corpulente e l’unico altro maschio adulto della casa, il giardiniere Romario, era quotidianamente impegnato a soddisfare la matura cuoca Maria Asuncion, perciò c’erano buone probabilità che Faustina fosse ancora vergine. Ma non era certo con simili pensieri che Guillermo Torres, ancora del tutto ignaro di cose d’amore e dei turbamenti del sesso, l’andava a trovare, sedendosi al tavolino e prendendosi una parte dei baccelli da aprire. Piuttosto il gusto di una giovane compagnia, e la placida arrendevolezza con cui Faustina accoglieva le sue domande. Per quanto generalmente taciturna con gli altri occupanti della casa (e in specie con la cuoca che la tiranneggiava senza mai strapparle una protesta), con Guillermo Faustina si lasciava andare a riferire chiacchiere del “barrio” e storielle sui suoi strampalati parenti, uno dei quali, si favoleggiava, si era imbarcato con la banda di ladri di bestiame comandata dal terribile Joaquim Pereira, l’orbo assassino.
Scalza e insospettabilmente leggera, Faustina si muoveva nella casa con l’incedere lento di una barca da pesca che scivola sul fiume con l’unica vela gonfia di vento, sussurrando a mezza voce una vecchia canzone sentimentale trasformata in una nenia senza parole. Al suo passaggio, del tutto privo di civetteria, quel corpo coperto solo da una tunichetta bisunta si svelava nella pienezza muliebre, coi sobbalzi dei seni colmi e la vaga lucentezza della pelle olivastra, di frutto maturo. Eppure Guillermo Torres non aveva mai pensato a lei che come a un pezzo poco pregiato dell’arredo domestico fino a quel pomeriggio, quando al richiamo imperioso di Dona Manuela la vide salire le scale, ed ebbe l’impulso irrefrenabile di accostarsi alla ringhiera. Da lì sotto vide le natiche maestose della ragazza improvvisare una danza sconosciuta e subito dopo, quando lei ebbe svoltato sull’altra rampa, alzò lo sguardo. Faustina ignorava l’uso della biancheria intima, e a Guillermo Torres per un istante crudelmente breve apparve la visione della sua totale nudità.
Si ritrasse sveltissimo, come scottato da un getto di fuoco liquido, ma da quel momento il ricordo dell’immagine fugace tormentò le sue notti spingendolo ripetutamente al peccato solitario, e più di tutto fu ossessionato da un unico pensiero: rivederla di nuovo.
Così, ogni pomeriggio, nelle ore più torride in cui tutti dormivano e la sola Faustina sedeva in cucina, Guillermo andava puntualmente a raggiungerla, attendendo smanioso uno scampanio della madre o qualche incombenza che la spingesse di nuovo al piano di sopra, ma quel che agognava tardava ad accadere. Dopo diversi giorni in cui aveva atteso inutilmente, Guillermo, reso allucinato e ardimentoso dalla febbre che si era impadronita di lui, escogitò il più stupido degli strattagemmi per soddisfare il suo desiderio. Fingendo un gesto maldestro, gettò a terra col gomito il mucchietto di baccelli che aveva sul tavolo, e immediatamente si abbassò per raccoglierli.
Come prevedibile, Faustina teneva le cosce leggermente divaricate per il caldo, e l’abituccio era salito ben oltre il punto cruciale per agevolare la visione. Guillermo Torres s’insinuò col capo sotto il tavolo per avere la sua beatitudine, ma ciò che gli accadde fu ben altro dello spettacolo atteso.
C’era un mare verde, al principio del tempo, un oceano sconfinato e tranquillo che un Dio ancora giovane contemplava dall’alto, pregustandone l’immensa freschezza. Lui si era appena svegliato da un sonno immemorabile, e il suo grido rauco d’arsura aveva aperto uno squarcio nell’eternità. Le sue membra esplodevano di un vigore eternamente trattenuto, il suo sesso era un picco incandescente.
Si tuffò ad occhi chiusi, ma anzichè il ristoro delle acque smeraldine ciò che lo accolse fu l’urto non doloroso di un prato umido di rugiada. In quel prato di cui non si vedeva la fine provò a rotolarsi per assorbire quel poco di ristoro dell’erba bagnata, ma nulla poteva soddisfare il suo puntuto desiderio e il giovane Dio cominciava a smaniare.
Improvvisamente, laggiù, apparve una forma bianchissima e sinuosa. Una cerva candida, che appena sentì su di sè il suo sguardo cominciò a galoppare all’impazzata. Anche il Nume adolescente cominciò a correre ed era talmente veloce che i suoi piedi nudi sfioravano appena l’erba, senza affondarvi. Quando stava per raggiungerla, la cerva spiccò un balzo e divenne una colomba nel cielo. Ma anche il Dio, desiderandola con tutto sè stesso, scoprì di saper volare e fu un falco dal becco lucente.
In imprevedibili e innumerevoli metamorgosi i due attraversarono i quattro elementi, lui sempre voglioso e lei fuggitiva, nel fuoco salamandra e lui drago, nell’acqua timido granchio e lui anguilla, e di nuovo in cielo, e in terra, e negli spazi infiniti, l’interminabile rincorsa accendeva di forme luminose i padiglioni del Nulla, e l’universo mondo fu.
Tutte queste infinite metamorfosi (che ancora durano e dureranno, finchè durerà il creato) Guillermo in un istante non vide ma visse, tratto fuori di sè dalla passione febbricitante che a un certo punto gli fece pronunciare parole di fuoco davanti alla vulva rosata di Faustina Ocampo.
Lei sobbalzò e, vistolo lì sotto a un palmo dal suo grembo, gli mollò un solenne ceffone che lo svegliò bruscamente dall’incanto. Rimettendosi a sedere, vide che non c’era traccia d’ira nel volto ragazza, che invece lo ammonì maternamente:
“Don Guillermo, neanche nel barrio ho sentito di queste porcherie”
Il secondogenito dei Torres si alzò confuso e abbandonò la stanza, ma il giorno dopo i due si salutarono senza vergogna, come se niente fosse stato, anche se da allora la giovane domestica cominciò a trattarlo come un padrone e non più come un compagno, ed evitò di restare sola con lui.
Un paio d’anni dopo Faustina risultò gravida per via del giardiniere Romario, che aveva disertato per qualche settimana il letto della cuoca preferendo svezzare la più giovane fantesca. Quando lo seppe Guillermo Torres ebbe uno scatto di rabbia: sapeva che con poca fatica e maggior piacere per la ragazza avrebbe potuto averla lui. Ma il cruccio non durò molto: è vero che il desiderio di Faustina non lo aveva mai abbandonato, ma lui non aveva fatto nulla per soddisfarlo. L’eredità di quell’esperienza straordinaria era stata la rivelazione della vera natura dell’universo in cui viviamo. E’ il desiderio inappagato, e non la soddisfazione, che espande le galassie e le forme viventi in un’avventura infinita. Guillermo sapeva che il pungolo nella carne l’avrebbe accompagnato per l’intera esistenza, inutile cercare di placarlo. Meglio imparare a convivere con l’inevitabile infelicità della condizione umana: essa sola genera l’incessante metamorfosi che chiamiamo vita.
Nonostante la proficua frequentazione di lunghi e tediosi studi giuridici, negli anni seguenti Guillermo non dimenticò la sua visione, anche se non fece nulla per ravvivarla, nemmeno scrivere uno di quei componimenti poetici che gli studenti sogliono inviare alle signorine della buona società (leggendole, rabbrividiscono piacevolmente per l’educata libidine che hanno saputo suscitare nel gentiluomo). Sposò una di queste, la bionda Rosaura Marino, dalla figura leggiadra e il sorriso soave, che gli diede tre figli di cui uno sarebbe divenuto Governatore della Provincia.
La sera, dopo cena, con la scusa del sigaro andava sul terrazzo. Affacciato alla balaustra del cielo, inseguiva parabole di stelle: lui solo riconosceva nelle figure delle costellazioni gli episodi d’estro animale di cui, in quel magico istante ormai lontano, era stato testimone o forse protagonista.
9 giugno 2013 alle 09:44
Una lettura piacevolissima.