di Valter Binaghi
La settima parte è qui.
b) La teofania nel Verbo
Abbiamo visto che l’ordine cosmico della religione antica ha nell’uomo la sua struttura radiante, comunque si voglia interpretare questo fondamento (ingenua proiezione di un antropomorfismo in gran parte inconscio o consapevolezza della centralità umana nell’universo). Da questo punto di vista, il monoteismo ebraico rappresenta più una sintesi che una rottura. Il libro della Genesi affida all’uomo (creato per ultimo come colui a cui tutto sarà affidato) il compito di custodire ma soprattutto di significare la creazione: “Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome”(133). L’uomo non è semplicemente il custode o il pastore di un gregge che non gli appartiene ma è colui che, nel linguaggio, svela la chiarezza dell’ordine naturale e dunque, nelle iniziali condizioni paradisiache, è in grado di avvertire la presenza del Creatore nel mondo e di dialogare con Lui. Si potrebbe affermare che, nel giardino dell’Eden, non ci sono le condizioni per una conoscenza simbolica, dal momento che non c’è distanza tra ciò che appare e l’Autore che vi appare, oppure che vi è massimamente realizzata la condizione simbolica proprio perchè l’Oggetto della conoscenza è pienamente presente ed evidente nelle immagini che lo manifestano. Abbiamo infatti notato più volte che la polarità del simbolo corre tra il significare altro da sè e il renderlo presente, in un rapporto che non si lascia esaurire nella secca alternativa tra identità e differenza.
Questa condizione svanisce con la Caduta. Il peccato dei progenitori li allontana da Dio perchè la volontà del sommo bene, che Dio aveva dato loro in eredità, si trova lacerata dall’ormai inestirpabile amore di sè che a quella si è opposto. La voce di Dio si ode come il severo annuncio di una pena, ma soprattutto la divisione prodottasi tra lo spirito dell’uomo e la sua natura frantuma a tal punto l’unità della sua visione da rendere inquietante la percezione del suo stesso corpo: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”(134). Ciò che prima appariva uno strumento perfettamente accordato all’armonia universale, ora risuona come una nota stonata, l’integrità del creato che manifestava il suo Autore è perduta per sempre, e con essa l’evidenza della bontà delle cose che da Lui promanano. Ci si vergogna perchè si sa che uno sguardo indagatore o malevolo può posarsi sul corpo in modo rapinoso, ma quello sguardo di cui si è persa la fiducia è, prima di quello dei propri simili, il proprio. Da ora in poi la conoscenza simbolica non sarà più un semplice lasciarsi illuminare dalla potenza di Dio che irradia dal mondo percepito in unità, ma un faticoso percorso in cui si procede per indizi e somiglianze, per ritrovare tra le cose divenute indifferenti un sentiero praticabile. E dal momento che il credente, per quanto intenda restare fedele alla Nuova Alleanza stabilita in Abramo, è perennemente soggetto agli inganni dell’immaginazione e alla passione carnale che lo spinge a cercare un idolo sensibile davanti a cui prostrarsi, l’Ebraismo antico inalbera il vessillo della più rigorosa iconoclastia: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”(135).
E’ in questo contesto che la figura di Cristo irrompe nella storia dell’Ebraismo, rivendicando per sè l’avvento del Dio fatto carne. Lasciando da parte il carattere soprannaturale dell’Evangelio (che non può essere materia di un’indagine storico-culturale sul simbolismo religioso), è importante osservare che, fin dalle origini, la patristica cristiana cerca una continuità piuttosto che una rottura con l’universo della sapienza naturale degli antichi, soprattutto per quanto riguarda i Padri Greci.
Non è forse l’uomo, fin nella sua costituzione fisica, una sorta di miracolo della creazione, di cui finora non si è potuto comprendere il pieno significato? Gregorio di Nissa (IV secolo) fa osservare che la posizione eretta, segno di regalità, è monopolio del solo uomo tra tutti i viventi, e che egli è l’unico tra gli animali a possedere delle mani anzichè zampe. Le mani non hanno solo una funzione espressiva (cosa sarebbe il linguaggio senza il gesto che illustra e interpreta la semplice emissione del suono?) ma soprattutto assolvono a funzioni che negli altri animali sono affidate al viso e alla bocca: “E’ in grazia del linguaggio che la natura ha articolato le mani al nostro corpo. Se, infatti l’uomo fosse privo delle mani, le parti del viso sarebbero come nei quadrupedi, ordinate alla necessità del cibo, la forma del viso sarebbe allungata e attenuata nei pressi delle narici, le labbra sarebbero pronunciate e callose, dure e larghe per la scelta dell’erba; egli avrebbe tra i denti una lingua diversa, molto in carne e capace di lavorare insieme con i denti ciò che sotto i denti viene posto (…) Se dunque le mani non fossero articolate al corpo, come nell’uomo si formerebbe la voce non essendo adatte le parti intorno alla bocca per la necessità del suono? Così l’uomo dovrebbe belare o ululare, oppure gridare come i buoi o come gli asini o emettere muggiti selvaggi”(136). Esplicitando ciò che è già annunciato nel Genesi – Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza – Gregorio sostiene che tutti i beni Dio diede alla natura per liberalità, “ma l’intelligenza e il pensiero non è proprio dire che li donò, ma piuttosto che li partecipò avendo posto nell’immagine l’ordine proprio della sua natura. Ora l’intelligenza sarebbe stata un dono incomunicabile e senza relazioni, se non grazie a qualche inventiva che manifestasse il suo movimento. In grazia di ciò fu necessaria la creazione di un organismo affinchè le parti fonetiche, alla maniera del plettro, attraverso il variare dei suoni traducessero il movimento dall’interno”(137). Come se, fin nella sua costituzione psico-fisica, l’uomo fosse stato creato per quel dialogo perfetto tra la creatura e il Creatore, fondamento e archetipo di ogni dialogo umano, che solo la restaurazione dell’uomo alla sua originaria somiglianza con Dio può ripristinare. Ed ecco che il Cristo, redentore dell’uomo decaduto, risulta in effetti il principio e il fine, l’alfa e l’omega della Creazione. Il principio: perchè solo l’Autore può restaurare l’immagine deturpata. Il fine: perchè in Cristo non solo si redime il gregge disperso dell’umanità, ma si svela il vero significato e il perfetto compimento dell’Opera di Dio. Come scriverà molti secoli dopo un altro grande teologo della Chiesa orientale: “Il cristianesimo è una cristallizzazione della più pura umanità, di un’umanità nella sua forma più pura. Affinchè l’umanità si riveli, Dio dovrà incarnarsi nell’uomo”(138).
Tuttavia, il Vangelo dell’Incarnazione doveva imporsi contro non una ma due formidabili avversioni. Se da un lato vigeva la tradizionale proibizione ebraica al culto di ciò che ha forma sensibile e costituisce per ciò stesso una perversione idolatrica nei confronti della religione del vero Dio, dall’altra dominava gli ambienti colti l’eredità filosofica di provenienza ellenica che, come fa notare Alain Besançon(139), era nata in aperta polemica con l’imaginismo antropomorfico del mito: “se i buoi ed i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato”, scriveva già Senofane di Colofane nel VI secolo a. C. Oltre al Dio dell’Antico Testamento, anche il Dio dei filosofi, il Dio di Aristotele, il motore immobile che è atto puro, è “qualcosa di pensabile, non immaginabile”(140)
Dal V all’VIII secolo, nei monasteri delle chiese orientali era fiorito un fecondo dibattito sulle prime parole che nel Genesi illustrano la particolare corrispondenza tra uomo e Dio, dove si dice che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ma fu solo a partire dal 726 che la tensione iconoclastica della tradizione ebraica (fatta propria dall’Islam in espansione) e la novità cristiana del Dio Incarnato e dunque rappresentabile, esplose con violenza. L’imperatore bizantino Leone III Isaurico, dopo avere sconfitto i musulmani e rinsaldato i confini dell’Impero, fece rimuovere dalla porta principale del suo palazzo l’immagine di Cristo che la sovrastava e la sostituì con il simbolo della croce. Ne nacque una disputa teologica che giunse ad assumere le proporzioni di una guerra civile, tra chi sosteneva la legittimità non solo devozionale ma addirittura liturgica delle icone di Cristo, della Madonna e dei Santi, e chi ne denunciava il carattere teologicamente deviato, per non dire idolatrico. A risolvere la questione fu la dottrina del teologo Giovanni Damasceno (675-749) che finì col prevalere nel Concilio, il quale si pronunciò definitivamente sulla legittimità del culto delle immagini. Secondo Giovanni Damasceno un’icona è una soglia, ” sulla quale l’artista lascia devotamente un’ombra della gloria che ha visto dietro quella soglia. (…) E’ una finestra che si affaccia sull’eternità nella quale il Cristo risorto e sua madre – anche lei assunta in cielo nella carne – sono già nella gloria degli angeli”(141), cosicchè, sebbene il fedele s’inchini davanti a un’ immagine, “questa immagine riflette la vera carne di coloro che sono già stati integrati nell’unione con il corpo di Cristo”(142).
Questa teologia dell’icona è rimasta come un elemento indelebile nel pensiero e nella devozione delle Chiese orientali fino ad oggi, insieme all’accurata preservazione di canoni figurativi e tecniche di esecuzione del dipinto, ma soprattutto all’istruzione del pittore di icone, che è una vera e propria iniziazione alla spiritualità dello sguardo. Poche altre cose come l’icona sono in grado di insegnare a distinguere nettamente tra l’oggettività di ciò che è rivelato e i capricci della fantasticheria umana, ed è certo che nell’icona si adempie in pienezza quella che abbiamo riconosciuro come la funzione primaria del simbolo: non solo rappresentare ma rendere presente ciò che significa, non solo riportare alla mente ma fare esperire ciò che nel simbolo si annuncia come un evento. Dell’icona scrive Pavel Florenskij: “Si riconosce che è superiore a tutto ciò che la circonda, situata in uno spazio tutto suo e nell’eternità. Dinanzi ad essa si placa la passione ardente e la vanità del mondo, essa si situa al di là del mondo, è un mondo qualitativamente superiore che agisce dal suo piano in mezzo a noi”(143). Per questo “il risanamento dell’anima grazie al contatto, tramite l’icona, col mondo spirituale è innanzitutto la rivelazione del potere miracoloso”(144). Meglio di ogni disquisizione teologica, può illustrare il carattere spirituale di quella che può apparire una semplice raffigurazione questo aneddoto, riportato da Ivan Illich: “Una volta ebbi occasione di leggere una relazione di alcuni storici dell’arte sovietici, che avevano trovato un’icona particolarmente bella e preziosa in casa di una donna povera. Gliela volevano espropriare per esporla nel loro museo d’arte e cercarono di giustificarsi con lei chiedendole di immaginare quante migliaia di persone avrebbero potuto guardare questa bellezza nel museo. La donna rispose: un’icona non è fatta per essere veduta, ma per poterci pregare; non ci sta a far niente in un museo”(145)
Nella forme d’arte dell’occidente medioevale, per quanto sottoposte a un severo canone per quanto riguarda l’oggetto e il metodo della rappresentazione, manca del tutto questa pretesa di fare dell’icona un mistico mediatore tra la condizione naturale e quella soprannaturale, anche se il fulcro dell’arte sacra resta pur sempre la sua integrazione all’impianto liturgico, e quindi la sua partecipazione al Mistero della Presenza di Dio nel rito efficace. Nella pittura si afferma ben presto un elemento “pedagogico” (i cicli di affreschi che costituiscono la cosiddetta “Bibbia per gli illetterati”, che illustrano gli episodi dell’Antico e Nuovo Testamento) il quale lascia spazio a una maggiore libertà espressiva fino al crescente trionfo dell’elemento naturalistico, da Giotto in poi.
In effetti, nella cultura dell’Occidente latino è piuttosto la speculazione filosofico-teologica a interpretare l’esigenza di “ricapitolare” l’intero mondo creato nel suo Prototipo, il Verbo fatto Carne, secondo quanto affermato da Paolo: “In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi con ogni sapienza e intelligenza, facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”(146).
La parafrasi più semplice e lineare che il pensatore cristiano trae da questo brano è che la natura e il mondo umano sono stati creati e disposti non solo a causa del Cristo-Verbo, ma anche in vista di lui. Causa esemplare della creazione, il Cristo è la potenza radiante che ne sostiene l’essere ma soprattutto ne guida il divenire, e questo permette di fare chiarezza sui limiti ma anche sulla consapevolezza aurorale che si annunciava nell’ingenuo antropomorfismo del mito, dove già il tempio o edificio cultuale evocava il cosmo e la forma umana insieme, fino a realizzarsi compiutamente nella Chiesa, corpo mistico di Cristo: “Tutt’e tre – il Corpo mistico, il tempio, il cosmo – rappresentano gradi diversi di una complessa e sempre più ampia presa di possesso della creatura da parte della Parola (Verbo) di Dio incarnata. Si tratta di esempi, diversi e sempre analoghi, di una ‘estensione’ mistica, artificiale e cosmica dell’unico archetipo, vale a dire del ‘corpo’ ai suoi molti analogati”(147). Se le cosmologie pre-cristiame intuivano una corrispondenza analogica tra i diversi gradi del reale, e tramite un’analogia proporzionale stabilivano la possibilità di un ordine umano tra le cose, è solo la rivelazione cristiana che permette di comprendere come questa analogia sia sorretta da un principio di creazione che si manifesta nell’universo, e il cui “princeps analogatum” è appunto il Verbo fatto carne. D’altro canto questo rappresenta solo l’aspetto statico della teofania. Ad esso si deve aggiungere un elemento dinamico, per cui nella vicenda umana del Cristo si ricapitola l’intera storia dell’umanità e di ogni singola anima. L’insistenza sul Cristo incarnato anzichè sul Verbo che eternamente procede dal Padre, è d’obbligo: solo in questo modo gli aspetti materiali della creazione possono essere sussunti nell’analogia partecipativa il cui principio è Dio, perchè solo se il Primogenito del creato è carne e sangue l’intera creazione può ricapitolarsi in Lui, rinnovandosi nella sua causa esemplare(148).
Era naturale che la più inaudita delle teologie (“scandalo per i Giudei, follia per i pagani”), non potesse svilupparsi senza equivoci. In ossequio a un platonismo importato senza l’opportuno discernimento, Scoto Eriugena (815-877), autore con il “De divisione naturae” di una ammirevole esposizione della creazione in quanto teofania, giunge a tradurre interamente il Verbo increato nella creazione visibile. Per lui le Idee divine “sono la prima autocreazione di Dio. In esse la natura divina compare contemporaneamente creatrice e creata. E’ creata da se stessa in queste cause primordiali; essa stessa vi si crea, cioè essa comincia ad apparirvi nelle sue teofanie, volendo emergere, per così dire, dal segreto più nascosto della sua natura”(149) e ciò significa che la natura divina è inconoscibile non solo per noi ma anche per se stessa, senza una rivelazione che sia una creazione. “Per conoscersi gli è quindi necessario cominciare ad essere, ciò ch’egli non può fare se non diventando altro da sè”(150). L’ombra del panteismo qui non è altro che la lunga ombra di una filosofia dell’essere cui manca un’elaborazione adeguata, il che accade contro le intenzioni dell’autore il quale, d’altra parte, ci fornisce in questo quadro grandioso le linee portanti dell’esemplarismo e del simbolismo medioevale come lo possiamo ancora oggi attingere dalla teologia e dalle arti figurative delle cattedrali. “Manifestazione di Dio, l’universo cesserebbe di esistere se Dio cessasse di irradiare. Come la produzione degli esseri, la loro stessa sussistenza è un’illuminazione. Ogni cosa è essenzialmente un segno, un simbolo, in cui Dio si fa da noi conoscere”(151). Ogni cosa è un grado diverso di luce e perfezione, e se questo vale per la teofania che si rivela, vale anche per il ritorno a Dio di quella creatura che della creazione è il fulcro, decaduta dalle sue prerogative originarie per non aver corrisposto incondizionatamente all’ordine creato, ma redenta nella Resurrezione di Cristo, in un riscatto finale e universale che per Scoto Eriugena (come già per Origene) non prevede il residuo ineliminabile di un Inferno.
L’esemplarismo non è certo immune da obiezioni filosofiche: la più grave è che, se l’essere delle creature non fosse altro che la loro somiglianza con Dio, nessuna mente umana potrebbe ignorarlo, mentre sappiamo quanto dobbiamo sforzarci di ricordare che proprio questo è il senso della creazione. A rispondere a questa domanda è il campione indiscusso dell’esemplarismo medioevale, il maggior teologo del tredicesimo secolo insieme a Tommaso d’Aquino, vale a dire Bonaventura da Bagnoregio (1217 – 1274). Le cose sono vestigio di Dio in quanto esso è “proiettato sulla materia che le costituisce. Senza dubbio, lontano e debole come è, questo riflesso è ciò che solo conferisce loro l’ordine, la misura, il peso e, in una parola, l’intelligibilità. Ma possiamo, nonostante tutto, non scorgerlo o rifiutare volontariamente di rivolgerci ad esso; allora anche il vestigio che avevamo sotto gli occhi svanisce e ciò che resta è precisamente la natura, di cui la cecità dei filosofi si pasce”(152). E’ questa la linea distintiva tra filosofi cristiani e pagani, per cui Bonaventura condanna senza appello il naturalismo aristotelico, che come avverrà per la scienza moderna è destinato a fermarsi su un oggetto incompleto: “l’errore dei filosofi è precisamente di aver trascurato ciò che faceva della creazione un sistema di segni intelligibili per lasciar sussistere solo un sistema di cose che non lo sono”(153). Ma l’esemplarismo di Bonaventura risulta incomprensibile senza l’esito mistico, delineato nella sua opera più conosciuta: l’ “Itinerarium mentis in Deum”. Se le cose riflettono passivamente la teofania come l’opera svela lo stile dell’artista, a un maggiore livello di partecipazione si pone l’uomo, creato a “immagine e somiglianza” di Dio. A differenza del semplice vestigio, l’immagine presume una rapporto con la propria origine, ossia il dialogo che tra l’anima e Dio intercorre, e per cui l’uomo fu non solo provvisto del linguaggio ma nel linguaggio ebbe in signoria le cose. Tuttavia, il peccato dell’uomo lo ha reso pericolante in questa posizione, spesso disorientato e incapace di cogliere il suo stesso Principio, per quanto la struttura dell’anima umana riveli in sè stessa l’analogia trinitaria (come Agostino aveva dimostrato efficacemente nel “De Trinitate”). E’ il Verbo fatto carne che riporta a sè e al Padre la creatura umana ottenebrata dal peccato, e ancor più svela pienamente la reale opportunità cui l’uomo è chiamato: non semplicemente rapportarsi a Dio ma essere Dio, nel che sta tutta la differenza tra l’immagine e la somiglianza. La sequela di Cristo, il mistico abbandono alla volontà del Padre, può condurre la creatura a superare i confini della natura umana, ma non certo con le sue proprie forze: “E’ proprio allora che Dio viene ancora in suo soccorso: ciò che la creatura non può superare, il Creatore può farglielo superare, non però abbassando verso l’uomo la sua immutabile essenza, ma infondendo nell’anima una qualità creata e tuttavia deiforme”(154). “Questa qualità non può essere nel contempo soprannaturale e partecipabile all’uomo, se non alla condizione di essere simultaneamente creata e trascendente rispetto al resto della natura: essa è la grazia”(155)
La forma “cattolica” medioevale scommette sulla visibilità di Dio nel cosmo e nell’ordine della civitas cristiana, non solo fondandosi sull’analogia proporzionale incentrata nel microcosmo umano, ma sul carattere sacramentale dell’Ecclesia, comunità d’elezione ma dalla vocazione universale, in cui l’obbedienza al Testamento, la presenza reale Eucaristica del Cristo e l’assistenza dello Spirito garantiscono all’arca di non di non deformarsi sotto la furia delle tempeste e di non affondare tra i flutti del tempo. Purtroppo le tendenze iconoclastiche sono presenti non solo fuori dalla Chiesa (nei monoteismi ebraico e islamico, che rifiutano lo scandalo dell’Incarnazione e l’ignominia della croce come espressioni del divino), ma anche in essa, come i movimenti pauperistici e il catarismo dimostrano già nel medioevo, prima di esplodere nell’episodio fatale della Riforma protestante. Qui bisogna vedere non solo la ribellione all’ordine, ma la legittima restaurazione dello spirito contro una scolastica divenuta sistema soffocante, un rito ridotto a mercimonio, una Chiesa che non sa più differenziare il proprio spazio spirituale dal perimetro del potere mondano e ha perduto agli occhi dei molti la propria “forma simbolica”. Comunque sia, il risultato è una ricaduta nel tragico. Con Lutero Dio torna ad essere l’assolutamente Altro, le opere umane sono destituite di ogni valore spirituale e al mondo non è più permesso di tentare l’analogia con la Gerusalemme celeste: esso è consegnato alla brutalità della forza e del capitale o a periodiche furibonde spinte millenaristiche che del cristianesimo possiedono la lettera, non lo spirito. La connessione tra luteranesimo e trionfo della ragione tecnica sta esattamente nel rifiuto di una forma simbolica ed efficace, il cui luogo ermeneutico era fuori dalla soggetività umana: “non potendo più essere scoperta metafisicamente, a partire dall’identità delle cose, la verità dovrà configurarsi come certezza, cioè apprendimento certo dell’oggetto della rappresentazione”(156). E se la soluzione protestante all’angosciosa domanda sulla salvezza verrà trovata nella certezza della predestinazione, la certezza della consistenza oggettiva del mondo risulterà da un richiamo a quella che già fu la tentazione dell’episteme greca, ossia la riduzione del mondo alla sua formula concettuale, che la modernità industriale realizzerà pienamente nella produzione dell’oggetto tecnico. La natura, in quanto ha di lontanamente evocativo e refrattario al concetto scientifico, viene così ad essere progressivamente sostituita dall’universo pastorizzato e inabitabile della “teoria” che si chiude su sè stessa.
L’insignificanza in cui il mondo delle cose, privato del suo carattere esemplare e salvifico precipita, e il carattere puramente interiore cui è consegnata l’esperienza religiosa nel mondo post-protestante è descritta in modo ineccepibile da Romano Guardini: “Nell’epoca moderna l’esperienza religiosa si evolve in un’altra direzione. Dalla fine del Medioevo in poi essa diventa, come s’è detto, sempre più ‘interiore’. Si ritira dalle cose del mondo e dai concreti fatti della vita e si realizza, invece che in questi e in quelle, nelle parole, nei pensieri, nei fatti vissuti dell’anima (…) Si è voluto vedere in ciò un progresso di più elevata religiosità. Ma è ormai chiaro che tale evoluzione nasconde gravi pericoli (…): che la religione venga a perdere o a estromettere il mondo e finisca col diventare mondanamente fragile e vuota; che l’atto religioso si compia ai margini della vita, e addirittura ostacoli la vita, finchè, alla fine, il rifiuto della religione, l’ateismo, è sentito come una liberazione. (…) Se così è, la rarefazione della valenza religiosa non può non compromettere il rapporto col mondo, con gli altri uomini e con la propria stessa vita. Realmente, insieme alla detta rarefazione, si presenta anche una progressiva attenuazione del senso dell’essere. Tutto diviene meno importante. Tutte le forme significanti perdono di forza incisiva. Gli ordini e le norme sono sempre meno capaci di vincolare la coscienza morale. Si raffredda sempre di più il sentire immediato, e si può giungere fino alla totale perdita del senso del reale”(157)
NOTE
133) Genesi, 2, 19
134) Genesi, 3, 7
135) Deuteronomio, 5, 8
136) Gregorio di Nissa, L’uomo, Città Nuova Editrice 1982 pag. 48
137) Ivi, pag. 49
138) Pavel Florenskij, La concezione cristiana del mondo, Pendragon 2011 pag. 152
139) Alain Besançon, L’image interdite. Une histoire intellectuelle de l’iconoclasme, Fayard 1994
140) Ivan Illich, I fiumi a nord del futuro, Quodlibet 2009, pag. 100
141) Ivi, pag. 103
142) Ivi pag. 104
143) Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi 1981 pag. 70
144) Ivi, pag. 71
145) Ivan Illich, op. cit. pag. 104
146) Paolo, Lettera agli Efesini, I, 7-10
147) Cyrill Korvin Krasinski, Microcosmo e macrocosmo nella storia delle religioni, Rusconi 1973 pag. 287
148) Ivi, pag. 308-313
149) Etienne Gilson, La filosofia nel medioevo, La Nuova Italia 1978 pag. 255
150) Ibidem
151) Ivi pag. 257
152) Etienne Gilson, La filosofia di San Bonaventura, Jaca Book 1995 pag. 202-203
153) Ivi, pag. 204
154) Ivi pag. 212
155) Ibidem
156) Marie-Joseph Le Guillou, Il mistero del Padre, Jaca Book 1979 pag. 141
157) Romano Guardini, Scritti filosofici vol. II, Fabbri Editori, pp. 210
Tag: Conoscenza simbolica, Il mondo come teofania, simbolismo medioevale
7 giugno 2013 alle 22:22
dopo il riferimento bibliografico (134) ‘ciò che prima apparEva’
7 giugno 2013 alle 23:11
Corretto. Grazie Manu.
9 giugno 2013 alle 11:03
“Nell’epoca moderna l’esperienza religiosa si evolve in un’altra direzione …Si ritira dalle cose del mondo e dai concreti fatti della vita e si realizza, invece che in questi e in quelle, nelle parole, nei pensieri, nei fatti vissuti dell’anima …ma è ormai chiaro che tale evoluzione nasconde gravi pericoli (…): che la religione venga a perdere o a estromettere il mondo e finisca col diventare mondanamente fragile e vuota; che l’atto religioso si compia ai margini della vita, e addirittura ostacoli la vita, finchè, allafine, il rifiuto della religione, l’ateismo, è sentito come una liberazione…”
In effetti, volendo traguardare il percorso tracciato da R. Guardini con rappresentazioni artistiche (o simboliche?) della Madonna, si passa dalla Maestà di Duccio alla morte della Vergine di Caravaggio. Dopo di che, salvo le paffute madonne di Tiepolo o Solimene, l’arte sacra si estingue in sacrestia, con le anonime espressioni otto novecentesche preconizzate dalla donnetta russa. Voglio dire che a partire dal Goya di inizio secolo XIX l’arte ha bandito il sacro e l’ha fatto nel momentio in cui l’uomo moderno ha realizzato l’impossibilità di comprendere il reale, teorizzandone l’assoluta casualità e bizzarria: dal Monet della cattedrale di Rouen, passando per la destrutturazione cubista, fino alle correnti di fine 900.
Siamo bloccati, esclusivamente obbligati ai gradi di libertà di una trave ipersatica incernierata: Feuerbach- Nietzsche – Freud. Non vedo, intendo dire, traslazioni verticali oppure orizzontali più esaustive, meglio: convincenti, di questi qui (che io non amo affatto).
9 giugno 2013 alle 11:12
C’è un libro che svolge compiutamente questo discorso: E’ “Perdita del centro”, di Hans Sedlmayr (Rusconi). L’edizione cartacea è introvabile ma se cerchi bene ce n’è un pdf scaricabile gratuitamente in Rete. Per me è un libro imprescindibile.
9 giugno 2013 alle 12:24
C’è l’edizione del 2000 di Borla, su IBS e EdizionidelSanto, ma non so se ordinadolo ne rinvengano una copia.
Gironzolando mi sono imbattuto in questa cosa qui, da non perdere. Forse l’hai già letta.
Fai clic per accedere a hans%20sedlmayr%20presentato%20da%20marco%20guzzi.pdf
9 giugno 2013 alle 12:38
Si. E’ un testo che mi sembra si trovi sul sito di Gianfranco Bertagni, ma l’ho scaricato da tempo. Grazie comunque.