La conoscenza simbolica/5

by

di Valter Binaghi

La sesta parte è qui.

7) L’approccio storico-religioso

a) L’ordine del mondo: corpo, società, universo

arte aborigena7Per accedere a quel mondo in cui il simbolismo e l’analogia furono abituali se non esclusivi strumenti di conoscenza – vale a dire il mondo delle società tradizionali, che qualcuno si ostina ancora a definire “primitive” – occorre innanzitutto lasciarsi alle spalle i fenomeni morbosi che abbiamo appena considerato, dove l’immaginario è piegato alle idiosincrasie dettate da una lacerazione interiore, ma anche le seduzioni della fantasia artistica, almeno quella cui la modernità ci ha abituati, che obbedisce unicamente ai capricci o alle ispirazioni di un soggetto individuale in libertà. In effetti, anche la produzione artistica nelle civiltà tradizionali è governata da una cosmologia che permea di sè l’intero campo dello scibile e del praticabile, obbedisce ai canoni di un simbolismo universalmente condiviso e difficilmente è separabile da quella liturgia che la vita pubblica sembra incessantemente celebrare. Per questo l’arte delle società tradizionali è per lo più anonima; l’artista percepisce sè stesso come il veicolo per la manifestazione e la perpetuazione di un ordine che nessuno (lui meno che mai) ha creato e che dà forma, nel senso più autentico e spirituale, alla sua opera: come potrebbe ritenersene l’autore?

Perchè nasca l’orgoglio (e la passione delirante) della firma, bisogna prima che l’individuo moderno si convinca di essere non il custode di un ordine che lo trascende, ma il soggetto di un’azione singolare ed inedita nella storia del mondo. Si tratta di un’epoca nuova nella storia dello spirito umano, non priva di pericoli ma foriera di una propria religiosità: quell’umanesimo che è più l’eredità che la negazione del cristianesimo medioevale e di cui parleremo più avanti.
Alle origini dell’antropologia contemporanea, la propensione a giudicare le culture “primitive” coi parametri della storia occidentale ha portato con sè gravi fraintendimenti. Ad esempio la diatriba tra gli storici delle religioni, che alla fine del XIX secolo ha opposto i teorici di un animismo cosmico come stadio originario della religione a coloro che ritenevano di poter rintracciare un “dio celeste” come forma superiore che quel politeismo apparente avrebbe sottinteso. Nessuno dei due gruppi sembrava rendersi conto che nelle società tradizionali il “sacro” non è isolabile come una porzione delle rappresentazioni o delle attività umane da tutte le altre che sarebbero profane, ma si identifica con l’ordine cosmico, che è insieme ordine sociale, morale, tecnico, religioso: “Il cosmo parla all’uomo e tutti i suoi fenomeni hanno un significato. Sono i simboli di una realtà superiore che la sfera cosmica nasconde e rivela al tempo stesso. Proprio la struttura del cosmo serba all’uomo un messaggio spirituale; una rivelazione che viene quindi dalla stessa fonte della religione”(103)
Un contributo più interessante giunse, all’inizio del XX secolo, dalla scuola sociologica francese, per quanto a sua volta condizionata pesantemente dal pregiudizio positivistico che vedeva in ogni rappresentazione condivisa un mero riflesso della struttura sociale. In un saggio pionieristico e rimasto di fondamentale importanza per la posizione del problema, Durkheim e Mauss esaminavano le concezioni del mondo di alcune società primitive alla luce del concetto di “classificazione”(104).
Dalle ricerche antropologiche sul campo risultava che, tra gli aborigeni australiani, la tribù si divide in due fratrie e ognuna delle due comprende un certo numero di clan totemici oltre ad includere classi matrimoniali che implicano compatibilità o interdizione. La cosa più notevole, però, è che la classificazione delle cose riproduce quella degli uomini: gli animali della terra e gli astri del cielo, il vento e la pioggia, gli oggetti e le tecniche per produrli, appartengono all’una o all’altra fratria, e all’interno di queste all’uno o all’altro clan totemico(105). Per citare un osservatore: “Il selvaggio australiano (…) considera l’universo come la grande tribù ad una delle cui divisioni egli appartiene, e tutte le cose, animate o inanimate, che sono del suo gruppo, sono parti del corpo di cui lui stesso è parte”(106). L’appartenenza a un totem conferisce agli individui poteri sulle cose che a quel totem sono connesse. Per esempio ai membri del totem del tamburo spetta “presiedere la cerimonia che consiste nell’imitare i cani e percuotere il tamburo; spetta a loro fornire gli stregoni incaricati di far moltiplicare le tartarughe, di assicurare la raccolta delle banane, di scoprire gli omicidi seguendo i movimenti della lucertola; spetta loro, infine, imporre il tabù del serpente”(107).
Proseguendo la ricognizione guidata dall’ipotesi di fondo che la cosmologia primitiva ricalchi la struttura sociale totemica, Durkheim e Mauss si spostano dall’Oceania all’America, dove trovano strutture più complesse che gli paiono comunque confermare il loro assunto. Tra gli Zuni (tribù di coltivatori del Nuovo Messico), per esempio, sembra il caso di parlare di una vera e propria “sistemazione dell’universo”(108). Qui il principio sembra la divisione dello spazio in sette regioni (Nord Sud Est Ovest cui si aggiungono il Nadir, lo Zenit e il centro) cui sono assegnate qualità, colori, eventi meterorologici, animali e vegetali, attività culturali e tecniche, il che potrebbe far pensare a una cosmologia in cui è l’ordine del mondo il vero oggetto di ricerca. Ma agli autori basta constatare che questa ripartizione è la stessa di quella dei clan all’interno del pueblo, per riportarne la complessità alla loro teoria sociologica che pone la struttura della tribù come un “princeps analogatum”, di cui l’ordinamento dei diversi livelli di realtà sarebbe una semplice derivazione, cioè una serie di analogati secondari. Pur riconoscendo una parentela “strutturale” tra queste cosmologie primitive e le filosofie della natura di civiltà superiori (India, Cina, Grecia) cui non si può certo negare un’emancipazione dall’ingenua proiezione della mente tribale, Durkheim e Mauss insistono coll’affermare che “la gerarchia logica non è che un altro aspetto della gerarchia sociale e l’unità della conoscenza nient’altro che l’unità stessa della collettività, estesa all’universo”(109). Certo, bisognerà pur spiegare come mai a un certo gruppo sociale si associno elementi vegetali, animali, astrali, proprio quelli e non altri. Se ne uscirà dicendo che sono “stati dell’anima collettiva che hanno dato vita a questi raggruppamenti” e che questi stati sono “manifestamente affettivi. Vi sono affinità sentimentali tra le cose così come tra gli individui, e si classificano proprio in base a queste affinità”(110). Nella (migliore?) tradizione imposta dal loro compatriota Cartesio, tutto ciò che non rientra tra le idee chiare e distinte e rifiuta la rigorosa appartenenza categoriale all’identità o alla differenza viene confinato al livello pre-logico (per non dire sub-umano) dell’emozione pura, luogo dell’indistinto e dell’ingiustificabile. Che invece proprio queste percepite affinità tra cose diverse siano il luogo di una conoscenza “altra” che si tratta di comprendere più che di esorcizzare, e che la sua forma sia quell’analogia di cui gli autori fanno un uso così maldestro, questo appare completamente fuori dalla loro portata. Così il loro saggio, che pure contiene materiale interessantissimo, si risolve in una lunga petizione di principio: la proiezione dell’ordine sociale sul cosmo, che dovrebbe essere dimostrata, risulta il presupposto indiscusso di tutta la trattazione.
Passando dal confronto sincronico tra società cosiddette “primitive” ad un’approccio diacronico, come quello presupposto dallo studio della preistoria, scopriamo che in effetti i modelli di organizzazione dell’esperienza sono fin dalle origini almeno due. Una memoria sintetica e schematica, simile a quelle più sopra esaminate, che André Leroi-Gourhan chiama “mitogramma”, convive fin dall’inizio dell’avventura umana con un’altra rappresentazione della totalità, e cioè la narrazione: la prima sviluppa in una immagine sinottica e spaziale ciò che la seconda declina in una sequenzialità temporale. Esempi della prima sono quelle mappe del mondo che classificano gli esseri o dispiegano i settori in cui essi si muovono, come la tavola degli esagrammi dell’Y King, lo zodiaco, il mandala indo-tibetano, o l’uomo-microcosmo dei maghi rinascimentali, che però rappresentano versioni già molto sofisticate di ciò che in origine è un “mitogramma”, non ancora un sistema enciclopedico.
Secondo Leroi-Gourhan, una rappresentazione radiante dello spazio è caratteristica delle popolazioni agricole, che costruiscono il proprio spazio abitativo intorno al granaio, mentre lo spazio lineare e la sequenzialità che ne deriva sono tipiche di popoli nomadi dediti alla caccia e alla pastorizia, per i quali l’esistenza collettiva si realizza nel seguire la traccia e percorrere lunghi tratti. Sarebbe proprio a questo stile itinerante che si deve la predilezione per la narrazione e in seguito per il linguaggio fonetico; d’altro canto, tra le più antiche raffigurazioni dell’arte preistorica troviamo cerchi concentrici e spirali, dove la sospensione o estraneazione dal ritmo vitale a scopo rappresentativo sembra il valore costantemente perseguito. Diversamente dal linguaggio fonetico che si avvale della successione temporale, i mitogrammi si esprimono nelle tre dimensioni dello spazio, dove “l’ordine del mondo si integra in un sistema di corrispondenze simboliche straordinariamente ricche”(111). In essi si manifesta il tentativo di sottrarre al divenire una forma significante, in grado di prenderne distanza e insieme di rappresentarlo. Un’archivio in cui sistemare ciò che è accaduto e può accadere, le possibilità d’azione, gli ostacoli probabili, ma anche la grande famiglia degli esseri viventi e delle forze elementari. Per quanto alla lunga surclassata dalla scrittura alfabetica, questa modalità di rappresentazione del mondo “resiste alla comparsa della scrittura su cui ha esercitato una notevole influenza, nelle civiltà in cui l’ideografia ha prevalso sulla notazione fonetica” (112), e soggiace latente anche nelle culture contemporanee.
Al di là delle suggestioni esercitate dalla scuola sociologica, il fondamento della ripartizione del cosmo in quello che abbiamo chiamato il “mitogramma”, sta probabilmente nell’orientamento spaziale che ha come centro il corpo umano, e come fasi d’irradiamento la simmetria bilaterale di organi e funzioni, i movimenti di introversione e d’estroversione, la posizione eretta. Per restare in Francia, le ricerche ormai classiche di Gilbert Durand lo hanno portato a riconoscere le strutture antropologiche dell’immaginario in alcuni riflessi dominanti (posturale, copulativo, digestivo)(113).
In un contesto teorico diverso, l’odierna linguistica cognitiva finisce per confermare la tesi quando afferma che “la natura dei nostri corpi e del nostro ambiente fisico e culturale impone una struttura alla nostra esperienza”, a partire dalla quale formiamo categorie o gestalt empiriche. “Tali gestalt definiscono la coerenza della nostra esperienza. Noi comprendiamo la nostra esperienza direttamente quando la vediamo come coerentemente strutturata in termini di gestalt che sono emerse direttamente dall’interazione con e nell’ambiente. Noi comprendiamo l’esperienza metaforicamente quando usiamo una gestalt da un ambito di esperienza per strutturare l’esperienza di un altro ambito”(114)
Il fenomeno è evidentemente rintracciabile in quelle che Durkheim e Mauss definivano “forme primitive di classificazione”, che già si avvalgono di semplici schemi numerici e geometrici. Qui comincia a evidenziarsi quella che appare come la specificità umana rispetto alla natura animale, ovvero l’esteriorizzazione della memoria, che segue (o più probabilmente è contemporanea) a quell’esteriorizzazione dell’organo rappresentata dall’utensile: il suo contenuto è lo schema del cosmo, sviluppato analogicamente da quello della collettività, a sua volta più o meno consciamente ispirato allo schema corporeo. La memoria esteriorizzata nel mitogramma rende possibile non solo la rappresentazione della tradizione collettiva, ma anche la possibilità dell’individuo di riferirsi ad essa in modo creativo, in altre parole il progresso: “Alla nascita, l’individuo si trova di fronte a un corpo di tradizioni proprie della sua etnia e dall’infanzia in poi si stabilisce un dialogo, su vari piani, tra lui e l’organismo sociale. La tradizione è biologicamente indispensabile alla specie umana quanto il condizionamento genetico alle società d’insetti: la sopravvivenza etnica si fonda sulla routine, il dialogo che si stabilisce crea l’equilibrio tra routine e progresso, dove la routine è il simbolo del capitale necessario alla sopravvivenza del gruppo e il progresso l’intervento delle innovazioni individuali per una sopravvivenza sempre migliore”(115)
Spesso nel “mitogramma” è riconoscibile un sistema binario che ordina la realtà per contrari od opposizioni polari, come accade ad esempio tra i presocratici in Grecia o nella dottrina dello Yin-Yang dell’antica Cina. Del pari, anche lo schema dinamico del tempo che si ritrova in ogni narrazione, presume una struttura, questa volta di tipo ternario: una situazione iniziale di quiete, una crisi della presenza cui segue una questua, e un’integrazione finale, che si trovano inscritte nelle esperienze ancestrali della migrazione e della caccia, e modellizzano l’intera esperienza umana. Non è difficile riconoscere la medesima struttura nei miti eroici, nei riti iniziatici, nei percorsi della fiaba e infine nelle vicende del romanzo moderno. Probabilmente contemporanea alla strutturazione binaria e ternaria, la meditazione dell’Unità come coincidentia oppositorum informa l’esperienza religiosa (religio da religare = raccogliere, mettere insieme).
Articolazioni più complesse e largamente utilizzate nascono da questi fattori primari combinati: come il Quaternario, che già nella fisica elementare di Ippocrate combina due per due le qualità elementari (caldo e freddo, secco e umido) per dare origine alla dottrina degli stati della materia (fuoco, terra, aria, acqua) e degli umori-temperamenti (bilioso, nervoso, sanguigno, linfatico). O come il Duodenario astrologico, che combinando i Quattro elementi con il Ternario dinamico, racconta la storia del cosmo e dell’uomo come un romanzo scritto nel cielo.
Sforzandosi di emanciparsi dall’antropomorfismo ingenuo del mito, e cercando di fare delle strutture archetipe un oggetto di pensiero più che uno schema classificatorio, la filosofia creerà in seduito l’universo pastorizzato della teoria, ma l’occhio dell’antropologo non faticherà a riconoscere l’egemonia di schemi primordiali nel dualismo platonico, nelle coppie concettuali aristoteliche, nelle analogie trinitarie del pensiero medioevale, nelle triadi dialettiche hegeliane e persino nel pellegrinaggio inquieto delle filosofie esistenzialiste. Del simbolismo si potrebbe dire ciò che si è detto della natura stessa: “nisi parendo vincitur”. Esso si fonda non tanto su una proliferazione di immagini, ma sulla persistenza, o meglio sulla trascendentalità di ritmi che sono iscritti indelebilmente nella struttura dell’uomo e vengono applicati laddove il fenomeno, almeno da un certo punto di vista, lo consente: “Nel pensiero simbolico numerose forme esistenziali possono essere considerate come analoghe, a patto che siano sottomesse almeno transitoriamente al medesimo ritmo. Tale analogia permane anche quando gli oggetti coordinati ritmicamente appartengono a ordini completamente diversi, poichè l’esperienza simbolica non si fonda sul pensiero concettuale ma si attua essenzialmente per via di una intuizione estetica e immediata”(116). In essa si esprime la corrispondenza, fondata su un’analogia di struttura, tra il microcosmo umano, il mediocosmo sociale e il megacosmo universale. L’enciclopedia onnivora che l’analogia rende possibile non ha semplicemente uno scopo orientativo e descrittivo, ma anche quello di consolidare l’istituzione di una cultura e ipotecarne il futuro, cioè rendere possibile l’acquisizione del nuovo in una struttura capace d’integrarlo.
Per molto tempo questo sistema di corrispondenze universali in cui la funzione simbolica sembra dominare completamente la realtà intrinseca dell’oggetto e l’evocazione simbolica pretende di influire su di esso, è stato attribuito a una qualche speciale caratteristica della mente “primitiva”, volta a volta definita “mentalità pre-logica” o “pensiero magico”. In realtà si taccia di arcaico ciò che non si è più capaci di praticare, anche quando si tratta di un senso raffinatissimo, molto più vicino alla musica che agli stati onirici: “Il ritmo musicale non è un fenomeno puramente intellettuale, bensì una forza psicofisica che trasforma i movimenti corporali in esperienza psichica e viceversa fornisce un contrappeso corporale alla sensibilità spirituale”(117). Come si è già osservato più volte, le corrispondenze analogiche non riguardano fenomeni singoli, ma relazioni caratterizzate dalla medesima proporzionalità (ritmo). Se il dolce, il salato e l’amaro sono gusti diversi per il palato, è possibile che essi abbiano un corrispettivo analogico negli stati sentimentali che indichiamo con gli stessi aggettivi, perchè identico è il ritmo che li sottende. Identità nella differenza (altrimenti l’analogia sarebbe pura sovrapposizione tautologica): “il ritmo è la ripetizione dell’analogo, in quanto ogni giorno non si ripete con precisione la stessa cosa, ma ritorna ciò che è fondamentale con forme sempre nuove”(118). Se abbiamo perduto la facoltà di riconoscere le analogie tra atti del corpo, sentimenti e sostanze minerali e vegetali che consentirono alla remota antichità di identificare corrispondenze dall’altissimo valore terapeutico (si pensi alla straordinaria complessità della medicina cinese o indo-tibetana), possiamo ancora ammirare la disinvoltura con cui il senso poetico dell’artista illumina relazioni segrete tra le cose, con la luce della metafora. Tuttavia, in questo caso come in quello, la sclerosi e la decadenza sono sempre in agguato quando alla percezione “fine” del ritmo si sostituisce l’elucubrazione razionale.
Qualcosa del genere si può notare se si esamina la storia delle pratiche divinatorie. In origine il fenomeno naturale è vissuto come qualcosa che interroga personalmente il soggetto: “La differenza fondamentale fra l’atteggiamento dell’uomo moderno e l’atteggiamento dell’uomo antico nei confronti del mondo circostante è la seguente: per l’uomo moderno, scientifico, il mondo fenomenico è in primo luogo un quid; per l’uomo antico – e anche per il selvaggio – è un ‘Tu'”(119). Prima che subentri l’indifferenza emotiva, facilitata da un controllo sugli eventi, il fenomeno non è il membro di una classe riconducibile a uno schema concettuale, ma è qualcosa che accade qui ed ora proprio a me, e mi provoca a corrispondervi. Per questo l’uomo primitivo non conosce un mondo che sia “inanimato”, ma solo segni e messaggi attraverso i quali le potenze del sacro si rendono manifeste. Ancora oggi, in rari momenti di consapevolezza, riusciamo a cogliere la non-indifferenza degli incontri che si vorrebbero “casuali”, delle coincidenze che danno da pensare, dei sincronismi inattesi, ma sono così rari questi attimi che rubrichiamo queste circostanze nell’ambito delle stranezze del nostro archivio(120). E’ dall’ansia che la coscienza sviluppa circa l’evento che l’interroga e la propria adeguatezza a rispondervi che presumibilmente nasce la pratica della divinazione, la quale si fonda proprio sul sistema cosmologico del mitogramma come “mappa” dei possibili. Nell’universo del mitogramma, in cui tutto trova posto e funzione, il futuro è prevedibile perchè, in qualche misura, tutto è già da sempre accaduto: attraverso il segno che lo rappresenta l’evento è riportato a una casistica che ha un numero finito di combinazioni. Come scrive L. Vandermeersch commentando l’evoluzione storica dell’oracolo cinese, “la divinazione non serve a indovinare per sortilegio un caso imprevedibile, ma a rivelare sperimentalmente la necessità prevedibile dell’ordine delle cose”(121). In altri termini, se la verità del mitogramma è la sua rispondenza analogica alla totalità del reale, quella del pronostico presuppone innanzitutto l’allocazione del segno nel sistema categoriale che lo interpreta. Si potrebbe addirittura sostenere che il carattere sistematico della futura ricerca scientifica trova già qui il suo paradigma, anche se ovviamente muteranno del tutto le circostanze dell’osservazione sperimentale. Del resto, la perenne ricorsività del “da sempre accaduto”, fa si che con la comparsa della scrittura il mitogramma renda possibile la conquista del calendario, mentre la determinatezza aritmetica di queste mappe e delle corrispondenze finite che esse consentono tende ad escludere proprio ciò di cui la mentalità primitiva è più frequentemente accusata, cioè l’irrazionalità: a partire dagli sviluppi classici dell’astrologia, per esempio, “l’idea di un mondo governato dalla volontà divina ha completamente ceduto il posto a quella dell’universo dominato dalla necessità matematica delle rotazioni”(122).
Con la proliferazione delle pratiche divinatorie la coscienza spirituale regredisce dalla responsabilità personale ad una sorta di cieca fiducia nella “tecnica” del pronostico e alla sua presunta, dettagliata precisione, cui si delega ogni possibilità di successo esistenziale. Fenomeno tipico delle età di decadenza religiosa e morale, è qualcosa di troppo noto (e per giunta facilmente osservabile nel mondo contemporaneo) perchè se ne debba dire altro.
La stessa decadenza colpisce l’impianto stesso delle cosmologie tradizionali, quando tendono a trasformarsi in sistemi enciclopedici non più nutriti dall’ispirazione originaria, ma da un’intelligenza analitica e capziosa. E’ vero che la millenaria sapienza che dominava le antiche cosmologie “sarà ricordata ancora a lungo con le sopravvivenze della cabala, del segreto delle piramidi o delle cattedrali, perchè era autentica saggezza, cioè riflessione e ricerca di una spiegazione che placa nell’uomo l’angoscia di esistere come creatore d’ordine, solo al centro del caos naturale”(123). Ma i tentativi di ripristinarla, in un ottica ormai iperintellettualistica o addirittura esoterica, ne tradiscono l’anima disprezzando la semplicità delle analogie naturali in nome di un simbolismo sempre più votato all’allegoria o addirittura al calcolo. E’ proprio nell’autunno del medioevo cristiano che prende forma il grandioso tentativo di riportare in auge la sinossi del mitogramma per interpretare la sovrabbondanza di un universo linguistico e concettuale ormai straripante, con l’ars magna di Raimondo Lullo. Si tratta di una rappresentazione non statica ma dinamica: a partire da nove principi primari che esprimono le potenze divine (in modo analogo a quanto avviene per le sephirot nella Cabala ebraica) si stabilisce la corrispondenza con le realtà create, gli attributi che le costituiscono e i termini che li indicano, pianificando tutte le argomentazioni possibili e permettendo di riconoscerne verità o falsita a seconda del rispetto o meno delle relazioni ontologiche. Una sintesi in cui logica e metafisica finiscono per coincidere, vera e propria chiave universale che concerne non solo i discorsi ma le articolazioni del mondo reale ed evidenzia “l’aspirazione ad un ordinamento di tutte le scienze e di tutte le nozioni che corrisponda all’ordinamento stesso del cosmo”(124). La fortuna del lullismo è immensa per almeno tre secoli, ed esercita la sua suggestione non solo tra maghi rinascimentali come Cornelius Agrippa o negli ambienti dominati dal neoplatonismo dell’Accademia fiorentina, ma anche tra gli eruditi animati da un ideale enciclopedico come il gesuita Athanasius Kircher e tra intelligenze logico-matematiche come quella di Leibniz, in cerca di una metodologia rigorosa per la ricerca scientifica. In questo successo si deve vedere l’ansia di trovare un’orientamento in un universo sociale e culturale sempre più frammentato, ma anche il bisogno di uno strumento di classificazione, che permetta di rubricare l’immensa mole di dati e prospettive generate dai saperi in espansione, e infine il sogno ecumenico di una lingua universale. Di fatto, “sino alla fine del Cinquecento” e poi nel Seicento “fino a Alsted e Leibniz, resta ben salda la convinzione che l’arte lulliana o cabala dei sapienti o arte aurea o combinatoria o scienza generale coincida con la scoperta metafisica della trama ideale della realtà”(125). Il tramonto di questo ideale pansofico inizia con “la critica radicale dei sistemi astratti del secolo precedente”(126) condotta dalla generazione degli illuministi (gli Enciclopedisti in particolare) sulla base di un approccio empiristico, nominalista e induttivo, che deriva anche dalla crescente egemonia del pensiero anglosassone su quello continentale e squalifica come “romanzesco” l’approccio deduttivo. Mentre “si faceva ogni giorno più viva la coscienza della sostanziale inutilità di atlanti esaustivi, di classificazioni armoniche ma chiuse ai cambiamenti che viceversa il cammino delle scienze imponeva”(127), l’enorme messe di dati che le nuove scoperte mettevano a disposizione spinse gli Enciclopedisti a tagliare “con un rasoio affilatissimo tutte le ramificazioni ontologiche e metafisiche che quelle idee ancora portavano con sè”(128). Privilegiando il terreno degli individui e dei fatti, “nessuno fra gli ‘spiriti nuovi’ pensava più che i rapporti e i legami stabiliti fra di essi dalla mente umana riflettessero l’armonia stessa della natura; il dizionario, che si riprometteva di raffigurare in forma ragionata quei rapporti e quei legami, dichiarava di rinunciare al sistema”(129) e, più o meno consapevole di rinunciare con questo all’unica possibilità di un’unificazione del sapere, prendeva la via di quell’accumulazione informe di dati che è l’ordine alfabetico, ossia la negazione dell’ordine in quanto tale.
L’ordinamento simbolico del mondo, che ha nel corpo umano il suo referente primario, non è qualcosa cui l’uomo si riferisca come a un semplice sistema classificatorio, ma al contrario una struttura vivente in cui egli deve incarnarsi, evitando così di trovarsene separato o, come preferiamo dire oggi, “alienato”. Perchè questo non accada, occorre che i ritmi vitali dell’uomo siano costantemente inclusi in quest’ordine, e che periodicamente sia data loro la possibilità di una reintegrazione che è nutrimento e salute. Questo sembra essere l’autentico significato del rito, di cui nessuno studioso della materia oggi mette più in discussione l’indisgiungibilità rispetto alla rappresentazione cosmica o alla narrazione mitica. Se il mito è sacra rappresentazione di ciò che fondò il cosmo e la cultura, il rito è sacra azione che quest’ordine perpetua nella collettività ma soprattutto nell’identità corporea del soggetto. Ad esso spetta di “coniugare la biologia con la cultura”(130).
La vita ha il compito fondamentale di integrare le molteplici stimolazioni e risposte organiche salvaguardando l’unità del vivente dalle spinte centrifughe che ne deriverebbero. “Nell’ambito della cultura si pone un problema simile. Le società umane sono in grado di acquisire molteplici informazioni (grazie all’attività mentale); tali acquisizioni, col passare del tempo, diventano tanto numerose da rischiare di disorientare e disgregare i gruppi umani. Diventa, allora, necessario semplificare, ossia scegliere e trasmettere alle generazioni successive solo una parte di quelle acquisizioni. La religione opererebbe in questa direzione, decidendo quali siano i contenuti fondamentali che, nella loro essenzialità, devono rimanere per orientare la vita di una società”(131)
Questo sarebbe facilmente confermato dal fatto che la maggior parte delle azioni rituali si presentano come “riti di passaggio”, ossia scandiscono il percorso esistenziale attraverso le varie soglie (nascita, pubertà, iniziazione alla professione, matrimonio, morte) in modo che l’individuo venga sostenuto nella propria crsi di “status” dalle forme che la comunità gli mette a disposizioni come salutari, integranti e dunque normative. Ma occorre aggiungere che tali forme sono non imposte ma desunte dalla corporeità, ed è per questo che in esse l’uomo integrale (corpo e anima) trova la pace della postura e insieme del significato. Non è perchè qualcuno abbia imposto l’immersione rituale che l’acqua battesimale è simbolo di purificazione, ma è perchè l’immersione pulisce e tonifica che essa può assurgere a simbolo della grazia che purifica dal peccato. Non è perchè venga imposto un pasto a base di carni dell’animale totemico che il clan si auto-prescrive il consolidamento dei legami parentali, ma perchè mangiare insieme lo stesso cibo è la forma più elementare di condivisione, al punto che i vincoli di sangue del clan potranno un giorno essere a loro volta trascesi dall’utilizzo del simbolo in una dimensione ben più alta, quella Eucaristica.
Vale anche l’inverso: una religiosità ridotta a sistema di credenze e prescrizioni morali impedisce all’uomo quell’esperienza integrale del sacro cui egli aspira. Si crede di “purificare” la religione da qualche sorta di residuo magico, quando si dichiara guerra al rito innalzando il vessillo di una teologia disincarnata, e non ci si accorge di tagliare il ramo su cui si è seduti. Nessun autentico valore umano può essere espresso e vissuto senza azioni simboliche che coinvolgano la corporeità dell’uomo. E’ così che, grazie a certe cattive pastorali influenzate da un “modernismo” strisciante, il comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso” si è trasformato in quel vago umanitarismo che piace fin troppo ai guru della New Age mentre dissangua le concrete comunità in cui l’uomo vive a fianco dei suoi simili: “Quando il ritualismo viene apertamente deriso, l’impulso filantropico rischia di dissolversi, perché è illusorio pensare che possa esistere organizzazione senza espressione simbolica. La comunicazione istantanea e non-mediata è un vecchio sogno profetico; il contatto telepatico è buono per brevi lampi intuitivi; ma creare un ordine in cui il giovane e il vecchio, l’uomo e l’animale, il leone e l’agnello, si intendano direttamente, è una illusione da visionari. Coloro che disprezzano il rituale, anche se profondamente impregnato di magia, aspirano in nome della ragione ad un concetto di comunicazione che è molto irrazionale»(132)

NOTE

103) Seyyed Hossein Nasr, L’uomo e la natura, Rusconi 1977 pag. 21
104) “Forme primitive di classificazione”, in E. Durkheim, M. Mauss, Sociologia e antropologia, Newton Compton 1976.
105) Durkheim, Mauss, op. cit. pag. 80
106) Ivi pag. 84
107) Ivi pag. 93
108) Ivi pag. 104
109) Ivi pag. 137
110) Ivi pag. 138
111) André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi. vol. I pag. 230.
112) Ivi pag. 231
113) Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo 1972
114) George Lakoff e Mark Johnson, Metafore e vita quotidiana, Espresso Strumenti 1982, pag. 254
115) André Leroi-Gourhan, op. cit. vol. II pag. 269
116) Grazia Marchianò, L’armonia estetica, Dedalo, p. 112
117) Marius Schneider, Il significato della musica, Rusconi 1999 pag. 147
118) Ivi pag. 149
119) AAA.VV, La filosofia prima dei Greci, Einaudi 1970 pag. 17
120) Spetta a Carl Gustav Jung il merito di avere posto la questione in termini teorici aprendo una prospettiva su quella che – è il caso di dirlo – è una dimensione rimossa della vita psichica. Si veda C.G. Jung, La sincronicità, Boringhieri 1980
121) AA.VV, Divinazione e razionalità, Einaudi 1982 pag. 35
122) Ivi pag. 50
123) André Leroi-Gourhan, op. cit. vol. II pag. 388
124) Paolo Rossi, Clavis universalis, Il Mulino 1983 pag. 67
125) Ivi pag. 83
126) Walter Tega, Arbor scientiarum, Il Mulino 1984 pag. 15
127) Ivi pag. 16
128) Ivi pag. 17
129) Ibidem
130) Giorgio Bonaccorso, Il corpo di Dio, Cittadella Editrice pag. 217
131) Ivi pag. 218
132) Mary Douglas, I simboli naturali, Einaudi 1979

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2 Risposte to “La conoscenza simbolica/5”

  1. Carlo Capone Says:

    Valter, scrivi: Ancora oggi, in rari momenti di consapevolezza, riusciamo a cogliere la non-indifferenza degli incontri che si vorrebbero “casuali”, delle coincidenze che danno da pensare, dei sincronismi inattesi, ma sono così rari questi attimi che rubrichiamo queste circostanze nell’ambito delle stranezze del nostro archivio.

    Non direi che quegli attimi siano così rari. Io invece penso che in moltissimi ci riflettano, ma abbiano timore di esprimere il frutto dei loro pensieri. Perchè il determinismo meccanicistico che governa il nostro tempo li obbliga a censura per non esser ritenuti creduloni romantici o analfabeti.

    Andrebbe invece illustrato che la teoria sincronica fu da Jung discussa con quel genio del ‘900 che è stato Bhor, il padre della meccanica quantistica. Erano giunti a certe conclusioni partendo da piste antitetiche, quali la psicologia individuale e appunto la meccanica dei quanti. La teoria fu abbandonata intorno al 1960, quando Jung ne fece pubblica abiura, senza mai immaginare che gli epigoni di quella strampalata intuizione si sarebbero materializzati sotto l’incredibile veste dei doppietti elettronici “entangled”. Mi spiego.
    Ogni orbitale atomico 2s, di qualunque elemento si tratti, contiene al più due elettroni, l’uno ruotante in un senso, il compagno in un altro (e perciò diciamo che hanno ‘spin’ opposti). La natura, o va a sapere chi altro, ha previsto che il riempimento con due elettroni del guscio 2s conferisca la massima stabilità alla struttura dell’atomo,a qualsiasi elemento appartenga.
    Capita però, molti anni dopo le speculazioni di Bohr e Jung, che qualcuno prenda un atomo, ne spacchi a fatica il 2s e proietti uno dei due elettroni a una distanza siderale dall’altro. Poi cosa fanno, con un laser puntano l’elettrone lontano e lo eccitano, provocandone l’inversione di spin. Qui viene il bello, Istantanemante l’elettrone vicino muta il suo, cioè si mette a girare nell’altro verso.
    Cosa dire, che il dottor Jung,signore dei miti, ci aveva preso. E perciò ci chiediamo: ha la natura, per sua intrinseca struttura, a che fare con essi?

  2. valter binaghi Says:

    Affascinante. Anche se sono sempre un po’ restio a mettere sullo stesso piano fenomeni fisici e psichici. C’è uno sviluppo di queste intuizioni di Jung (legate anche all’amicizia con Wolfgang Pauli) in un libro della Von Franz, Psiche e materia.
    Dal mio punto di osservazione mi limito a ricordare quel che scrisse una volta Milan Kundera, cioè che senza coincidenze non c’è romanzo. Ma non perchè il romanzo s’inventi una vita altra. Perchè il romanzo è un distillato della vita, privata della sua parte indifferente o puramente ripetitiva.

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