di Valter Binaghi
La quarta parte è qui.
5) L’approccio romantico – La natura “indiffinita” della mente umana
a) La tradizione impossibile
Consultando un dizionario etimologico si scopre che il termine “simbolo” anticamente stava a significare una delle due parti di un oggetto che, una volta ricomposto, permetteva il riconoscimento tra due sodali. In effetti, abbiamo visto che qualcosa viene esperito come “simbolico” quando allude o rimanda a più di quel che in esso appare. Tuttavia, perchè il rapporto simbolico sia culturalmente possibile, bisogna che questo “rimando” sia colto non solo da una coscienza singola, ma da una comunità che lo condivide. E’ in questo senso che il simbolo può diventare la cifra di un sottinteso comune, mentre il mito e il rito possono avere valore denotativo e performativo per un intero gruppo sociale, il che implica una tradizione, condizione necessaria anche se non sufficiente per favorire la rinnovata capacità di riattualizzare l’evento simbolico da parte di ogni giovane generazione. Ma la tradizione può estenuarsi, per il congelamento del suo linguaggio o l’indegnità dei suoi interpreti e di conseguenza estinguersi per mancanza di linfa vitale, oppure essere brutalmente interrotta da un drammatico episodio di acculturazione.
In primo luogo ciò che viene tramandato può ridursi alla pura esteriorità di una formula, sempre più lontana da un senso comune che ormai vibra ad altre risonanze. Questo accadde, per esempio, al divieto alto-medioevale del prestito ad usura, che a partire dall’XI secolo risultò ormai incomprensibile ad un’economia avviata decisamente al mercatismo, che non poteva più fare a meno del sistema creditizio(28), ma anche per la progressiva sostituzione di un’elite borghese a quella monastica e aristocratico-cavalleresca alla guida della società.
In secondo luogo, il celebrante stesso della manifestazione simbolica decade a parodia di sè stesso, risultando ormai incapace di ri-presentare il valore che originariamente esibiva: è quel che accadde alla sede papale del rinascimento, che al giovane Lutero apparve come una reggia mondana e una sentina di vizi, mentre la concessione delle indulgenze per alleggerire le pene nell’aldilà svelava un mercimonio fin troppo mondano. Il monaco agostiniano ne concluse che non c’è forma simbolica in questo mondo che possa manifestare sacramentalmente la presenza di Dio e non c’è opera umana che possa contribuire alla redenzione dal peccato(29). Con la teologia protestante che ne derivava, veniva ad interrompersi quella possibilità di trasfigurazione del simbolismo naturale nel soprannaturale che la forma cattolica aveva finora garantito, e il mondo era lasciato in balia della ratio scientifico-tecnica da un lato, della politica come pura disciplina di governo dall’altro.
In terzo luogo, il linguaggio simbolico e la sua tradizione possono essere ridicolizzati ed estirpati da fenomeni di acculturazione più o meno violenta, come quello che si verificò in epoca coloniale con la distruzione delle credenze e dei sistemi di valore autoctoni da parte degli invasori europei, portatori di una superiorità tecnica che affossava ogni pretesa di validità delle tradizioni locali. L’esito estremo di questo fenomeno sembra essere quello descritto da Pasolini, a proposito della rivoluzione mass-mediatica del XX secolo: ” Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè, come dicevo, i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un ‘uomo che consuma’, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.”(30)
Tuttavia, quel che Pasolini illustra non è che l’ultimo atto di un processo storico avviato secoli prima anche se, come il grande intellettuale italiano ricorda, questo processo aveva riguardato finora per lo più solo le elites intellettuali e le classi dirigenti dell’Occidente. Si tratta di quel che comunemente si definisce “Illuminismo”, e che ha le sue basi teoriche non tanto nella rivoluzione scientifica ma nell’interpretazione datane da Cartesio, e che abbiamo descritto come il tradimento dell’eredità umanistica. Ridotto l’uomo all’autotrasparenza della ragione, non solo non c’è più posto per l’esperienza del valore (che come abbiamo visto si colloca nella dimensione emotivo-fantastica del simbolo) ma nemmeno per qualsiasi altra forma di condivisione e di tradizione che non sia quella dell’evidenza razionale e dell’efficacia tecnologica che l’incarna. Tutto il resto è “superstizione” (che significa letteralmente “sopravvivenza”), relitto di antica barbarie destinato prima o poi al pattume della storia, come il pensiero positivista s’impegnerà a dimostrare. Peccato che senza quel “resto” l’uomo finisce triturato nella stessa prevedibile razionalità meccanica che ha imposto alla natura, e le sue virtù si riducono all’ideologia veicolata dall’opinione pubblica, ossia dai mass media, mentre alle ritualità imposte dai ritmi cosmici e alle liturgie religiose si sostituisce l’evento spettacolare sportivo o politico, con la sua catarsi accuratamente fabbricata in cabina di regia. Se ancora nella seconda metà dell’800 un Manzoni poteva sperare nella redenzione del mondo a partire dalle semplici virtù del popolo, capaci di dare nuova linfa a una società intossicata da classi dirigenti corrotte (di cui il nobile Don Rodrigo, il curato Don Abbondio, il dotto Don Ferrante sono “simboli” efficacissimi), oggi si può affermare senza tema di smentita che in effetti gli ultimi tre secoli sono serviti ad estendere il razionalismo d’accatto e il cinismo morale dai salotti buoni frequentati all’epoca da un Voltaire, alle botteghe del meccanico e della sciampista, facendo del nichilismo non più il tumore maligno da sempre covato nelle pieghe dell’Occidente, ma, come aveva ben visto Nietzsche, il suo destino.
b) Romanticismo e retorica
La retorica, ovvero il discorso che sapientemente avvince l’uditore, commuove e persuade interiormente: secondo Gorgia questo accade indipendentemente dal fatto che l’oggetto del discorso esista come è nominato o non esista affatto. La scienza invece, sostiene Socrate, è nel saper dire di una cosa ciò che è, oltre che di un termine ciò che significa. Il conflitto tra retorica ed episteme è evidente nella filosofia classica, e cerca una prima risoluzione in Platone. E’ una lotta epocale quella che si compie, e il suo risultato è gravido di conseguenze, perchè la retorica, in modo diverso dal mito e dalla poesia, è un veicolo del simbolico.
Per Platone la retorica dei grandi sofisti, Protagora e Gorgia, non riesce mai ad essere vera paideia (educazione alla maturità umana) perchè manca dell’ambizione per la verità e soprattutto della responsabilità circa i valori. Nemmeno le arti, che pure hanno di mira la Bellezza (l’unica luce che può ridestare l’anima a sè stessa nella tenebra materiale in cui è precipitata) hanno per sè stesse la capacità di elevarsi al di sopra del mero artificio, se non c’è un eros “filosofico” ad animarle. Lo stesso che anima i grandi miti di cui Platone ha disseminato i suoi dialoghi. Lo stesso che emanava dalla figura di Socrate, che faceva innamorare i giovani di Atene e indispettiva gli anziani, mostrando la sbiadita moralità e il vieto formalismo del senso comune. Lui, Socrate, era il vero retore, quando mostrava come l’Eros è forza ascendente e non mero collante orizzontale tra tutto ciò che è ritagliato nella stessa stoffa: prima si amano i bei corpi, dice il Socrate del Simposio, poi le belle anime, poi ci si eleva alla bellezza delle forme pure e dei valori, fino alla bellezza senza limiti della divinità. Questo insegna Platone, ma insieme consegna alla didascalia l’arte che al suo spiritualismo vorrà ispirarsi, come molta arte del medioevo occidentale. Un’arte che troverà la sua grandezza non nella freschezza e nell’originalità della forma, ma nella fedeltà alla liturgia, difficile da condividere quando l’esperienza religiosa perde il suo entusiasmo.
Già gli umanisti reagiscono all’astratto concettualismo dei teologi e all’allegorismo dell’arte medioevale, chiedendo la freschezza del dire e la naturalezza del rappresentare. Ma riusciranno solo a guadagnare un posto all’arte profana, luogo del dilettevole se non più del didascalico, totalmente ininfluente se non in qualità di merce sulla trasformazione della cristianità mediovale nella palestra mercantile delle nazioni(31). Totalmente ininfluente anche sull’avvento della ratio scientifico-tecnica, che stabilisce criteri di verità e statuto di realtà per tutti e per ogni cosa, fino all’apogeo dell’Illuminismo, dove si concepisce il frutto già adulto della rivoluzione industrale: l’idea di agire sulla macchina sociale come si opera sul meccanismo naturale dei corpi. Ma è falso pensare che il Romanticismo sia animato innanzitutto da uno spirito politicamente reazionario rispetto alle utopie demo-tecnocratiche, anche se questo può esserne uno degli esiti. La ribellione romantica riguarda innanzitutto lo statuto dell’arte nei confronti dell’episteme. Per la prima volta si osa affermare che un mondo “disincantato” non può nemmeno essere vero. Che il divorzio tra Verità e Bellezza deve finire. L’uomo è un mendicante dell’Assoluto, e la moneta offerta in concetti dal sapere epistemico è carta straccia, perchè restituisce delle cose il cadavere, privato della vita. La vita e il valore si sperimentano innanzitutto nell’immagine. E se il mondo radiografato dall’episteme è incapace di corrispondere alla realtà dell’anima, allora l’arte e non la scienza è l’organo del Sapere.
c) Hamann: il mago del nord
“I sensi e le passioni non parlano che per immagini, non intendono che le immagini. Tutto il tesoro della conoscenza, come quello dell’umana felicità, consiste in immagini. La primitiva età dell’oro fu un’epoca in cui l’umanità parlava la sua lingua materna, che è la poesia, anteriore alla prosa come il giardinaggio è anteriore all’agricoltura, la pittura alla scrittura, il canto alla declamazione, le metafore ai ragionamenti, il baratto al commercio”(32). A scrivere così è l’unico tra i protagonisti della cultura europea che possa veramente essere avvicinato al Vico: come lui ignoto ai più, prigioniero di uno stile involuto che rendeva difficilmente comprensibili i suoi scritti, ma dotato di uno spirito profetico che coglieva, nel secolo del razionalismo trionfante, tutti i limiti e le conseguenze nefaste della cultura illuministica. Maestro dei maestri del Romanticismo (Herder su tutti), Johann Georg Hamann, detto dagli amici “il mago del nord”, “è la fonte dimenticata di un movimento che avrebbe finito per inghiottire l’intera cultura europea”(33).
La sua preoccupazione è di ordine estetico ma non nel senso che oggi diamo a questo termine (riferito all’ambito della bellezza artistica) bensì in quello più originario, attinente al “sentire” in quanto tale. E’ la sensazione che instaura il nostro rapporto con il mondo, ne consegue la credenza in ciò che il senso manifesta, da cui traiamo il nostro senso di realtà. A partire da qui costruiamo schemi generici, che ci servono ad anticipare eventi simili e che chiamiamo “concetti”, ma essi non hanno alcuna vita propria, perchè è dalla sensibilità che traggono l’unica linfa che ne giustifica la configurazione. L’esistenza attestata dai sensi “precede logicamente la ragione; ossia, ciò che esiste non può essere dimostrato dalla ragione, ma va prima sperimentato nella sua immediatezza, e poi, se si vuole, ci si potrà costruire sopra una struttura razionale, che non sarà comunque più affidabile della sua base originaria.”(34). Il pensiero moderno, invece, ha preferito affidarsi alla coerenza interna delle sue reti concettuali sempre più astratte ed autoreferenziali, e chiama “verifiche sperimentali” quelle che in realtà sono trappole in cui la natura viene costretta nel letto di Procuste della teoria, a rispondere solo “si” o “no”, cioè a confermare o smentire ciò che è richiesto, senza mai poter trascendere i termini imposti dalla teoria medesima. Se l’esperienza sensibile è fonte di meraviglia e potente veicolo del simbolico, l’esperimento scientifico è preparato proprio perchè non vi sia stupore alcuno, ma solo verifica o falsificazione di un’ipotesi pre-formulata. La verità del pensiero moderno, viziato dal concettualismo, resta una verità amputata perchè non è mai l’uomo integrale, carne e sangue, ad immergersi sensibilmente nel fenomeno, ma una ricognizione distante che pretende di esaurirne l’essenza limitandosi a compitarne il profilo o a risolverlo nelle sue funzioni e relazioni misurabili. Un tempo era l’uomo in armonia con la natura e con Dio a poter rivendicare la percezione più profonda e sapiente delle cose rispetto all’individuo reso titubante dalla giovane età o dalla propria fragilità interiore. Ecco perchè l’iniziazione era la forma determinante dell’insegnamento, e l’esoterismo proteggeva preziose verità da menti inadatte a cibarsene. Oggi, in quella che è la presunta democrazia di un sapere condivisibile senza limiti, ciò che si diffonde non è affatto l’esperienza del valore e la penetrazione simbolica, ma un linguaggio anonimo e indifferente divenuto moneta corrente: “gli uomini di genio sanno usarlo, ma i funzionari lo trasformano, come ogni cosa, in uno sterile dogmatismo, proponendolo a sè e al popolo come oggetto di culto. Così le relazioni umane diventano relazioni meccaniche, e quelle che erano verità vive, quella che era la capacità spontanea di agire in modo appropriato, diventa un sistema di regole morte, oggetto di idolatria. Questo è un sermone contro la deumanizzazione e la reificazione pronunciato prima che quei termini fossero inventati”(35)
Ma allora che cos’è il comprendere, se esso non si identifica con lo schema sbiadito che i concetti ci restituiscono di quello che era il fenomeno vivamente sperimentato in origine? Hamann è convinto che l’essere umano sia essenzialmente un soggetto costituito dal suo carattere dialogico, ossia un Io che si comprende in riferimento a un Tu, e di conseguenza comprende ogni fenomeno come espressione significante, come strumento di comunicazione tra soggetti, cioè come parola. Ed ecco l’intuizione fondamentale, che ricollega la coscienza dell’uomo moderno alla sua infanzia mitologica: il mondo ci parla, perchè il mondo è qualcosa di vivo. Nasce probabilmente qui “la concezione romantica della realtà non come materia morta, soggetta a leggi immutabili, ma come un processo organico, come lo spingersi in avanti di una volontà vivente”(36). Le forme naturali prima di essere cose sono espressioni di un’intenzione che ci resta nascosta ed è intuibile solo a partire dalle sue manifestazioni concrete, ma che si comunica diversamente ad ognuno di noi, perchè ognuno di noi è diversamente radicato nel proprio passato, diversamente motivato a intendere, diversamente orientato al valore. Per quanto il suo concittadino Kant lo stimasse, Hamann ne compativa il tentativo di ridurre la ragione umana a forme a priori che ne determinerebbero le universali procedure: per lui non c’è pensiero che non sia linguaggio, e il linguaggio è qualcosa di storico e incarnato, fondato sulla concretezza dell’esperienza umana. Tuttavia, in ognuno di noi il comprendere e l’esprimere ciò che è compreso hanno la medesima motivazione: quella di entrare in una relazione piena con il Tu che fonda la nostra soggettività e il cui appello viene dal principio dei tempi: “Se comprendiamo gli altri esseri umani cogliendo il senso, l’intenzione espressiva contenuta in una serie di segni grafici o di suoni o di forme artistiche (…) allo stesso modo dobbiamo comprendere, per quanto è in nostro potere, l’intenzione divina espressa nelle cose create”.(37) Il mito, la poesia, l’arte sono gli organi di questo comprendere, molto più che non lo sia uno sguardo “scientifico” che nega i sensi e le passioni e, anzichè il pegno di un dialogo vivente, del fenomeno naturale ci restituisce solo il cadavere.
Ecco dunque un altro modo per recuperare l’etimologia del simbolo in quanto metà di un intero che va restaurato: oltre l’energia radiante di una qualità che in esso si presenta e la risonanza metaforica di un analogo proporzionale, il simbolo come evento del linguaggio che rimanda a un parlante nascosto e il cui appello è personale, destinale, non necessariamente raccolto in pienezza. Infatti non basta che ci sia parola perchè avvenga comprensione: la parola che parla al cuore, quella che suscita autentica adesione e conversione, è immagine e simbolo, ed essa rimane chiusa a chi non ha cuore di abbandonarvisi. Esattamente come recita il Vangelo:
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero ‘Perché parli loro in parabole?’ Egli rispose: ‘Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: voi udrete ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi e non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani”(38).
E perchè questa ermeneutica del simbolo non dovrebbe essere estesa al carattere verbale delle cose(39), che il pensiero primitivo dovette scoprire facendo della divinazione il primo dei saperi? Ben prima di assumere il carattere tecnico di una mantica esercitata da professionisti del futuro ed eventuali ciarlatani, essa è semplicemente il dialogo che l’anima intrattiene con il mondo, che si presenta sottoforma di evento significante. Ancora oggi ci accade di sperimentare qualcosa di simile, quando diciamo che la tal persona in quel preciso momento ci giunge come un “dono”, o che il tale fatto, la tale coincidenza, assume un carattere illuminante rispetto al nostro destino. Forse, è perchè solo in quei rari momenti abbiamo “orecchi per intendere e occhi per guardare”. Se riuscissimo a permanere in questa umile condizione di spirito, il mondo ci parlerebbe di continuo, con la grazia di una lettera d’amore.
Ma al di là di questa digressione spirituale, più o meno condivisibile dal mio lettore, c’è un’evidenza che s’impone a chiunque intenda progredire nella conoscenza dell’uomo. Non c’è pensiero senza parole, non c’è parola che non nasca da un’immagine, non c’è immagine che non sia il frutto di un’esperienza, un’emozione umana. E non c’è uomo senza linguaggio. Così, beffandosi di coloro che credono di poter dedurre il linguaggio da bisogni materiali o da qualche misterioso corto circuito prodottosi nel primate, Hamann per primo (insieme al Vico) sostiene ciò che oggi tutta la linguistica degna di questo nome sostiene, cioè che il linguaggio compare già maturo insieme all’uomo dei primordi, e contiene in sè ogni futuro sviluppo culturale. Tuttavia, le fortunate condizioni originarie di quelle epoche spontaneamente poetanti, oggi non sono più tali. La caduta, la cacciata dall’Eden, la torre di Babele e la confusione delle lingue non sono solo episodi del mito biblico, ma spiegazioni simboliche di quello che è un dato di fatto: la condizione alienata dell’uomo, la ricerca angosciosa di un senso non più così evidente, il divorzio tra sensibilità e intelletto, il risentimento e la malattia che avanzano nell’uomo cosiddetto civile, il quale preferisce sviluppare un “odio gnostico per la materia”(40) che tornare all’antica umiltà di quel dialogo interrotto. E allora ecco l’inquietante interrogativo che Hamann, padre spesso misconosciuto del Romanticismo tedesco, lascia ai suoi immediati posteri: al di là dello smascheramento della patologia razionalistica, è possibile ritornare alla poesia primigenia, all’armonia perduta e alla salute della mente?
d) Esiti romantici
Quel che dirò adesso non ha alcuna pretesa riassuntiva nei confronti di una storia dell’estetica e tantomeno della letteratura contemporanea, ma consegue da due presupposti che sono impliciti in quel che precede ed è opportuno esplicitare. Primo. Il Romanticismo è un punto di non ritorno nella coscienza della modernità e, ben lungi dal rappresentarne un episodio circoscritto al secolo XIX, continua a determinare la sua struttura, proiettando la sua ombra fino a noi. Quindi le soluzioni praticate dalla coscienza romantica sono ancora le nostre. Secondo. Se si è compreso almeno in parte cosa si deve intendere per “conoscenza simbolica”, risulta chiaro che essa non è una branca del sapere che abbia come oggetto una particolare regione dell’essere, ma un’alternativa all’organizzazione concettuale della conoscenza in cui l’episteme si è per vari motivi identificata, e che come questa ha un orizzonte illimitato. Perciò, è impossibile farne il centro della propria riflessione senza che ciò conduca a una revisione complessiva del pensiero occidentale. Quindi, gli esiti della coscienza romantica, attraversata dalla nostalgia del simbolico, sono accomunati dal tentativo più o meno evidente di restaurarne la pregnanza, salvo constatarne l’inefficacia o addirittura l’impossibilità, il che non significa rinnegarne l’intenzione. Naturalmente qui mi limiterò a brevi allusioni: i manuali di storia letteraria e la sterminata biblioteca dell’uomo contemporaneo sono a disposizione di chiunque voglia verificare la coerenza di questa classificazione.
Il gusto del primitivo.
Dai fratelli Grimm in poi, dobbiamo ai romantici la nascita del floklore, la raccolta di fiabe popolari, miti e saghe in cui non solo si è giustamente vista la fonte viva della narrazione, ma anche e soprattutto la possibilità di re-immergersi in quell’infanzia dello spirito per la quale la conoscenza simbolica era la dimensione quotidiana. Tutti i più grandi narratori d’epoca romantica si sono cimentati con la ri-scrittura o addirittura l’invenzione della fiaba, da Clemens Brentano a Goethe, quando non hanno provato a ricondurre le psicologie complesse del romanzo borghese ai caratteri cristallini dell’universo fiabesco (Achim von Arnim, Novalis, Chamisso). Senza questo sguardo retrospettivo non avremmo avuto il miracoloso equilibrio della saga di J.R. Tolkien (presto naufragato con gli epigoni nella ripetizione manieristica del fantasy), ma nemmeno il rinnovamento della pittura contemporanea, tra la Tahiti di Gauguin e le maschere africane che tanto colpirono Picasso.
Il ritorno degli antichi Dei.
Un approccio meno ingenuo, spesso sostenuto da una robusta consapevolezza filosofica, è quello di chi si rende conto che non sono i temi e i personaggi della fiaba e del mito a garantirne la pregnanza simbolica, ma la purezza di sguardo di chi ne contempla l’apparizione. Bisogna rinnegare non solo la stanchezza delle accademie, ma addirittura lo spirito del cristianesimo se si vuole rivedere oltre il profilo della forma naturale l’epifania degli antichi dei. Per Goethe, autentico restauratore del paganesimo (ma sovranamente temperato da un raro equilibrio artistico), questo significò innanzitutto rinnegare lo scientismo meccanicistico moderno, ma anche evitare la seduzione dell’allegorismo medioevale, per tornare ad un sapere che non pretende di svelare la natura oltre le apparenze bensì ne valorizza al massimo l’apparenza stessa, cioè la forma visibile. Ne fanno fede i suoi studi sulle forme vegetali e animali, e soprattutto la sua teoria dei colori, che è la gioia del pittore proprio perchè rappresenta la perfetta antitesi di quella sviluppata dal fisico Newton.
Su questa stessa linea il mitologo Walter F. Otto, il quale proprio perchè rifiutò le regole e i metodi del sapere accademico ci ha lasciato il più bel libro che sia mai stato scritto sugli dei della Grecia(41). Il suo scopo dichiarato non è quello di ricostruire un contesto storico ma nientedimeno che restituire l’epifania di quegli dei medesimi, come essa dovette apparire all’uomo greco e come ancora oggi appare a chi sappia appropriarsi di quello sguardo. Parafrasando (probabilmente senza saperlo) quello che il Vico aveva già detto intorno agli “universali fantastici”, Otto mostra il carattere “esemplare” degli eroi del mito, che educano senza istruire ma accendendo nell’animo dell’uomo lo spirito di emulazione: “Quando parliamo di un modello siamo abituati a pensare che per imitarlo occorrano buona volontà, energia e abilità. Ma qui il modello stesso sembra educare gli organi ad accoglierlo”(42). Anche qui, come in Goethe, la portata simbolica di ciò che appare, la sua capacità di far esperire un valore in tale purezza da attrarre a sè l’animo percipiente, è legata all’abbandono delle sovrastrutture concettuali per affidarsi alla rivelazione della forma: “a ogni piè sospinto l’uomo antico faceva esperienza, come forma vivente che all’occhio devoto s’innalzava al divino, di ciò che a noi oggi appare soltanto pensato, sentito o voluto”(43). La purezza della percezione non conduceva alla religione per induzione o deduzione: essa era già accoglienza dell’Epifania. Era nello spirito degli Antichi “vedere certezze e nobili sentimenti come realtà e figure che hanno una propria essenza non solo nell’uomo, ma contemporaneamente anche sopra e fuori di lui, e alle quali ci si può rivolgere come a degli dèi”. (44)
Anche in Nietzsche si manifesta il fastidio per una cultura naufragata nella verbosità di mediazioni concettuali che soffocano la vita, anche in lui è prepotente il desiderio di ritrovare un’adesione piena alla rivelazione dell’essere, ma gli sarà fatale l’aver identificato il primigenio con Dioniso, una divinità tutt’altro che primordiale nel pantheon greco, le cui celebrazioni (oggi come ieri) manifestano più la ricerca di compensazione di un’epoca decadente che lo stato di salute delle origini. In effetti tra gli epigoni del Romanticismo il dionisismo ha fatto scuola, fino a trasformarsi nella ricerca dell'”aiutante magico” per indurre la “transe” o suscitare la “visione” nello psichismo estenuato di un intellettuale (decadente o beatnik) che restava essenzialmente legato alla passione piccolo-borghese per lo stravagante e l’inedito. A tutti gli apprendisti sciamani di ieri e di oggi, che credono di ritrovare passi danzanti e spirito profetico facendo ricorso alla “transe” indotta da additivi chimici consumati a un prezzo accessibile nel baccanale delle discoteche o dei rave party, farebbe bene rileggersi quel che un pioniere pentito del “dionisismo” moderno scrisse molto tempo fa: “i pensieri da cui si ripromettono di trarre così gran vantaggio non sono, in realtà, tanto belli quanto sembrano nel loro momentaneo travestimento, coperti d’orpelli magici. Han più della terra che del cielo, e debbono gran parte della loro bellezza all’eccitazione nervosa, all’avidità con cui lo spirito si getta su di essi”(45)
Restaurazione
I molti dèi lasciano indeterminato il profilo morale dell’uomo. Il sacro pagano è una vertigine in cui gioia ed orrore si specchiano, e qualcuno ritiene che l’abdicazione della coscienza cristiana sia impossibile prima ancora che pericolosa. Molto prima di avere come oggetto un regime politico, la Restaurazione cui molti spiriti romantici approdano ha come fine uno stato dell’anima, quello in cui il linguaggio comune può avere un codice, e le molte metafore della vita che una cultura condivide possono avere un princeps analogatum, un analogato principale, ciò che ne determina la referenza e il valore. E questo codice è esattamente dove è sempre stato, cioè nella forma umana. Prima come strumento della proiezione antropomorfica nel Mito che in ogni cosa mostra vita e spirito e specchia il macrocosmo nel microcosmo, poi come Logos, misura umana che intende il senso, l’intelligibile in ogni cosa, infine come il Verbo che si è fatto carne del cristianesimo medioevale, che in sè ricapitola e illumina non solo ogni umano destino ma la figura stessa del cosmo e il senso della Storia. La Restaurazione della forma cristiana come archetipo dell’Occidente è molto chiara in “Cristianità o Europa” di Novalis, mentre contiene una buona dose di reazione politica nelle “Serate di Pietroburgo” Di De Maistre. L’oggetto della Restaurazione varia poi molto, dall’allegorismo cosmologico di certo medioevo ai miti politici del Sacro Romano Impero. L’aspetto politicamente reazionario è il più visibile, e diventerà addirittura esclusivo in studiosi del simbolismo come l’italiano Julius Evola, ma non è il più profondo di questa temperie culturale. Durante tutto il XIX secolo in Germania e al principio del XX secolo in Francia si moltiplicano centri di Esoterismo cristiano, dove si pretende di conservare le profondità di un’interpretazione allegorico-spirituale delle Scritture e dei simboli cristiani, centri che spesso è difficile distinguere da altri d’ispirazione schiettamente massonica, dove il simbolismo cristiano è piuttosto usato come prologo per future e ben diverse rivelazioni. Da questi ambienti emergono almeno due ricercatori di grande rilievo: Charbonneau Lassay(46) e Renè Guenon.
Col secondo, convertitosi in seguito all’Islam, l’archetipo torna a rendersi invisibile, nella forma di una Tradizione originaria ma occultata, presente solo in alcune espressioni culturali e religiose che ne conservano filigrana o frammenti, in modo per lo più inconsapevole da parte del popolo, ma ben intelligibile dagli iniziati alla conoscenza simbolica. Induismo, Cristianesimo, Ebraismo e Islam, ma anche grecità, romanità e celtismo, sono portatori della Tradizione almeno nella misura in cui i loro simboli e riti sono in grado di agevolare nell’adepto un autentico percorso inziatico, tenendosi lontani dai fenomeni degenerati della spiritualità, come il demonismo e la superstizione pura. E’ il mito del Re del Mondo, che ricapitola la filosofia di Guenon come il mito della caverna condensava quella di Platone: nelle epoche della decadenza e dell’oblio, un centro nascosto, non si sa se fisicamente sotterraneo oppure misteriosamente occulto e visibile solo agli iniziati, continua a custodire segretamente la Tradizione primigenia(47).
Con una visione sicuramente più anarchica del percorso spirituale, unita a grande cultura, si può annoverare tra gli spiriti affini il nostro Elemire Zolla, più erudito che filosofo, ma che obiettivamente ha fatto moltissimo per questo versante essenzialmente “intellettuale” della simbolica, a partire dalla rivista da lui fondata e diretta per molti anni, “Conoscenza religiosa”(48). Più vicino allo spirito dell’allegorismo cristiano medioevale è stato Alfredo Cattabiani, che ha lasciato notevoli monografie dedicate al simbolismo di piante, animali, elementi astrali, oltre a un lungo lavoro editoriale (49) con cui ha proposto ai lettori italiani le prime traduzioni di autori stranieri che risultano d’importanza centrale sul tema (Mircea Eliade, Marius Schneider, Cyril Korvin Krasinski, lo stesso Guenon, ma anche la saga di Tolkien e diversi capolavori dell’epica mediovale).
Ironia e/o nichilismo.
Fin dall’inizio, a molti tra i Romantici appare chiaro che, per quanto ne ammiri e ne rimpianga l’integrità, l’uomo moderno non può che guardare all’ “ingenuità” degli antichi da una distanza incolmabile. “Essi sono ciò che noi siamo stati”(50), e certamente, una volta appresa la propria sciagurata deriva, per la coscienza di noi moderni non c’è possibilità di rientrare in quell’Eden perduto. Non possiamo tornare a quella rivelazione spontanea che la semplice percezione naturale e il candore del mito garantivano all’uomo dei primordi, anche se la nostra attuale situazione psicologica si costituisce proprio nella nostalgia dell’origine.(51) E’ vero che la dimensione artistica ci restituisce, oltre l’aridità della ragione illuministica, l’evento di una verità simbolicamente percepibile nella forma, ma questo accade ormai nell’unico modo a noi possibile: la consapevolezza dell’ “irriducibile trascendenza della verità rispetto alle sue manifestazioni”(52). Una volta persa la semplice fede nella “letteralità” del mito, gli dei non camminano più tra gli uomini nè si lasciano chiamare per nome, e il divino è ormai un assolutamente Altro che si mostra simbolicamente nell’evento della poesia per negarsi come compiutezza intelligibile, ostensione che è insieme nascondimento e “impone uno scarto assoluto. Dio è quello che è: la parola lo identifica, come realtà che non deve rendere ragione di sè perchè infondata (…) ma la stessa parola, ironicamente, lo sottrae a qualsiasi identificazione”(53). Di quello che per Hamann era ancora l’epifania di un Senso Assoluto nel linguaggio poetico, negli scrittori romantici non rimane che l’ironica constatazione del farsi e disfarsi di una narrazione in-terminabile, cui l’artista si presta non di rado mischiandosi e occhieggiando tra i suoi personaggi, non più sacerdote di un culto ma nemmeno autentico credente, spesso vittima di una fantasmagoria che lo rapisce suo malgrado: l’atteggiamento in questione è piuttosto evidente (e giunge a risultati artistici di prima grandezza) in quello che probabilmente resta il più geniale tra i narratori del Romanticismo tedesco, vale a dire E.T.A. Hoffmann, le cui riflessioni estetiche, disseminate nelle sue opere, “spingono l’arte in una zona di confine dove il senso è sempre sul punto di rovesciarsi nell’assurdo, e dove la realtà sconfina nel sogno o addirittura nel delirio”.(54)
Quando l’ironia comincerà ad investire non più semplicemente la “forma” dell’opera (ossia la sua capacità di alludere all’intero) ma la “forma” complessiva del linguaggio, e addirittura le modalità sociali della comunicazione artistica, allora l’inquietudine romantica darà luogo all’indefesso sperimentalismo dell’arte contemporanea, per giungere a quegli episodi estremi in cui la critica sopravanza e destituisce di credibilità la poetica medesima, e di cui la ruota di bicicletta di Duchamp rappresenta un apogeo inutilmente replicato. Quanto su tutto questo si proietti l’ombra lunga di un nichilismo estetico (che si salda perfettamente al nichilismo filosofico, esito finale della parabola illuministica), è fin troppo evidente, e mostra “come quel nichilismo contemporaneo che sembra il fronte più avanzato della modernità, soprattutto (…) nella variante ‘decostruzionista’, resti di fatto completamente interno al fronte romantico”(55).
Utopismo
Non è il caso di scomodare interpretazioni filosofiche divenute ormai celebri(56) per constatare che, contemporaneamente alla pretesa della Restaurazione di reperire in un passato ideale il codice dell’ordine simbolico, si verifica una riedizione dello spirito utopico, già presente nel gioachimismo e nel millenarismo ereticale(57), che colloca l’analogato principale di ogni mitologia in un avvento messianico, sorta di apocalisse del senso che però ha perso il proprio connotato divino e trascendente per presentarsi come “l’ordine morale del mondo”, da realizzarsi nel secolo. Solo il fallimento storico dell’utopia rivoluzionaria restituirà al millenarismo che l’abitava il suo carattere para-religioso. Se in Marx la “Gerusalemme terrestre” del comunismo nascondeva la sua aura mitica nel rigore tecnico-scientifico di un materialismo economico, per autori come Ernst Bloch e soprattutto Walter Benjamin è evidente fin da subito che “la modernità nasce dal tentativo di dare per riconciliato ciò che invece resta inconciliabile, e tale deve restare, perchè è dal cuore della scissione che semmai sprigiona un’immagine non fittizia e non surrogata di pienezza, di riconciliazione, di redenzione”(58). E’ vero che l’arte esibisce l’inespresso, e in essa si annuncia il profumo di ciò che è di là da venire, ma può far questo solo constatando che l’ordine della realtà è fittizio, e le stesse categorie rappresentative dell’artista non si salvano da questa consumazione. “Ne deriva che la negatività che l’arte vorrebbe superare, è dall’arte conservata, rivolta contro sè stessa, fatta valore in funzione antitrasfiguratrice”(59). E se il perpetuo rilancio della metamorfosi del simbolo mantiene un significato e una funzione culturale all’arte, incaricata di allestire rivoluzioni permanenti e condannata a vederle tradursi in una cosmetica del linguaggio, chi salverà l’artista e il suo pubblico da una cronica sindrome d’impotenza storica?
L’artista come eroe tragico
Profeta suo malgrado di un Assoluto che si nega nell’atto stesso del suo promettersi, custode di un segno condannato alla semiosi infinita, l’artista romantico dichiara la sua sofferenza nobile e pura, nel momento stesso in cui non più solo l’opera ma la sua vita stessa si propone come spettacolo. Quanto di titanico vi sia nella follia di Holderlin o di Nietzsche, quanto di programmatico nel suicidio del Werther e nella sopravvivenza del suo autore, Goethe, che liquidando il proprio eroe scampa appena in tempo dalla disastrosa identificazione tra arte e vita(57), lo lasceremo decidere ai critici laureati. A noi basta ricordare che il “tragismo” romantico è in gran parte un equivoco, come quasi tutto ciò che la cultura tedesca pretese d’importare dal mondo greco.
L’eroe tragico greco, Prometeo Edipo o Antigone che sia, non proclama ma evidenzia nella sua innocenza una nobiltà superiore a quella delle potenze del Mito e della Legge che lo schiacciano. La luce che lo illumina è quella di una nuova rivelazione etica e forse religiosa, che per la prima volta mostra l’avvento dello Spirito non nella potenza vittoriosa ma nel dolore della vittima, e in ultima analisi nella stessa condizione umana, spogliata di ogni regalità. Ciò a cui l’artista romantico si vota, invece, è la sostituzione della propria parola al silenzio di un cielo vuoto. Impresa condannata allo scacco del linguaggio, cui si pone eroico epilogo con l’auto-immolazione del profeta. Quanto alla luce che ne illumina l’olocausto, non è certo quella di una superiore moralità ma – sia detto senza mancare di rispetto ai morti – quella dei riflettori del palcoscenico. Vale la pena di ricordare che, per quanto i cataloghi della letteratura decadente non manchino di esempi, a lungo andare non è la letteratura ma quella forma d’arte “totale” tutta nuova che è stato il rock a fornire i modelli più eclatanti di uno statuto vittimario che negli ultimi decenni del XX secolo ha fatto almeno tanti proseliti quanto il suicidio del Werther fece a suo tempo tra i giovani tedeschi: Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, fino a Kurt Kobain ed Amy Winehouse, cui si aggiungono le schiere di anonimi imitatori. Un triste corteo che merita più una prece che il solito stanco commento sociologico.
NOTE
28) Si veda l’insuperata analisi di questo fenomeno in Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa, tempo del mercante, Einaudi 2000
29) Giovanni Miegge, Lutero giovane, Feltrinelli 1977
30) Pier Paolo Pasolini, “Acculturazione e acculturazione”, in Scritti corsari, Garzanti 1975
31) Questo è vero solo in parte. La poesia trobadorica e la materia cavalleresca medioevale hanno agito molto in profondità sull’immaginario sentimentale europeo, come ha dimostrato ampiamente Denis De Rougemont, in L’amore e l’Occidente, edito in Italia da Rizzoli.
32) J.G. Hamann, citato in Albert Beguin, L’anima romantica e il sogno, Garzanti 1975, pag. 92
33) Isaiah Berlin, Il mago del nord, Adelphi 1997 pag. 25
34) Ivi pag. 64
35) Ivi pag. 74
36) Ivi pag. 84
37) Ivi pag. 87
38) Mt 13,10-17
39) L’espressione è usata da Romano Guardini in Mondo e persona, in “Scritti filosofici”, Fabbri editori, vol. II.
40) Questa è l’accusa che Hamann rivolse a Kant. Vedi I. Berlin, op. cit. pag. 119
41) Walter F. Otto, Gli dei della Grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco, Adelphi 2004
42) Walter F. Otto, Il volto degli dei. Legge, archetipo e mito, Fazi 1996 pag. 30.
43) Ivi, pag. 45
44) Ivi, pag. 44
45) Charles Baudelaire, I paradisi artificiali, in Opere, Dall’Oglio 1965 pag. 474
46) Autore di molte pubblicazioni sul simbolismo cristiano, tra cui “Le Bestiaire du Christ”.
47) Renè Guenon, Il Re del Mondo, Adelphi. Ma per una visione più ampia delle possibilità offerte dall’ ermeneutica dei simboli in Guenon consiglierei: Simboli fondamentali della Scienza sacra, Adelphi
48) Vi collaborò tra gli altri Marius Schneider, grande musicologo e filosofo della musica.
49) Con l’editore Rusconi.
50) Friedrich Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, Il Melograno 1981 pag. 23
51) Con ben altra efficacia poetica rispetto alle riflessioni estetiche di Schiller, il tema è centrale nei Canti e probabilmente nell’intera opera di Giacomo Leopardi.
52) Segio Givone, Storia dell’estetica, Laterza 2008 pag. 56
53) Ivi pag. 57
54) Ivi pag. 71
55) Ivi pag. 57
56) Su tutti Karl Lowith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità
57) Una ricostruzione puntuale di questi percorsi sotterranei in Henri De Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, Jaca Book.
58) Sergio Givone, op. cit. pag. 123
59) Ivi pag. 124
60) E’ la tesi sostenuta da Vittorio Mathieu in: Goethe e il suo diavolo custode, Adelphi.
Tag: Conoscenza simbolica, il mago del nord, J.G. Hamann, Romanticismo, simbolismo, Valter Binaghi, Walter Benjamin, Walter Otto
13 aprile 2013 alle 21:47
Innanzitutto grazie a Valter Binaghi. Mi piacerebbe sapere qual è il suo giudizio sulla critica di Zolla alla “fantasticheria” romantica. Grazie, con la speranza di una quarta puntata
13 aprile 2013 alle 21:49
Chiedo scusa: mi sono dimenticato di presentarmi: sono Antonello Pizzaleo.
13 aprile 2013 alle 21:50
Non me ne va bene una – scusate anche per i doppi due punti!
13 aprile 2013 alle 22:30
Ciao Antonello. Probabilmente ti riferisci a un libro di Zolla intitolato “Storia del fantasticare”, che io però non ho letto. In generale, Zolla era molto critico nei confronti di una riduzione del simbolico al “fantastico”, cioè a un immaginario disinnescato della sua portata metafisica. D’altro canto, il suo slalomeggiare tra culture e tradizioni diverse aveva un effetto ubriacante su lettori che avrebbero voluto forse una maggiore responsabilità, in termini di giudizi di valore sui diversi usi del simbolismo. Io sono tra questi, Zolla non mi ha mai convinto fino in fondo. Più erudito che filosofo, come ho scritto.
Quanto alle prossime puntate (almeno tre) verranno di sicuro, coi tempi di una scrittura che è ancora in fieri. Conto di completare il saggio entro un mese, diciamo.
13 aprile 2013 alle 23:31
Sì, effettivamente mi riferivo a quel libro, che ho fortunosamente reperito su una bancarella. Condivido il tuo giudizio, anche se questo “sterminio” dell’immaginazione (che mi pare si porti dietro lo sterminio della memoria e, forse non causalmente, finisce per coincidere con il congedo dalla mistica del cattolicesimo romano – l’affaire quietista-) non è cosa da poco. Ma non sono per nulla uno specialista. Pensa che (misteri della ricezione!) avevo avvertito risonanze tradizionali ( e persino zolliane) in Robinia Blues. Ma ripeto, sono cose che succedono nella testa dei lettori. Non mancherò di leggere le prossime parti del saggio. Grazie ancora a te e a Giulio mozzi che ha creato un ambiente di discussione civilissimo e aperto
14 aprile 2013 alle 08:50
Bene Antonello. Le risonanze “tradizionali” nei miei romanzi sono riconoscibili a chi ne possiede l’organo. In “I 3 giorni all’Inferno di Enrico Bonetti cronista padano”, alcuni capitoli sono organizzati intorno agli Arcani Maggiori dei Tarocchi. Ma quella delle tradizioni esoteriche è una fase che conosco e non pratico più: oggi sono interessato esclusivamente al simbolismo naturale.