di Valter Binaghi
4) L’approccio antropologico – L’animale simbolico
a) L’eredità dell’Umanesimo
Ricordate Forrest Gump? Cosa gli ripeteva sempre la mamma?“Stupido è chi lo stupido fa”.
Ovvero: non lasciarti congelare in una formula che pretende di rinchiuderti in una definizione determinata, nata forse da qualche errore del passato o più spesso dalla superficialità del senso comune, che ha bisogno di ruoli e maschere per rapportarsi velocemente con i personaggi della commedia umana. Tu non sei quel che sei stato, tu non sei ciò che appari: il mistero della persona si manifesta nella sua libertà, saranno le tue azioni a definirti, e finchè c’è vita e libertà c’è possibilità di riscatto e di evoluzione o, se preferisci, Dio non ha ancora smesso di crearti.
Per evitare di erigere fin dall’inizio fra me e il mio lettore la barriera di una cultura che a volte divide più che favorire la comprensione, vorrei dire senza tema di smentite che in quel semplice motto materno c’è tutta una rivoluzione antropologica, e se i filosofi elaborano un linguaggio raffinato per darne maggior conto, ciò non significa che possano aggiungervi ulteriore saggezza.
“Rivoluzione antropologica” è il termine con cui, più appropriatamente, si dovrebbe indicare quel che i libri di storia chiamano “Umanesimo”, spesso contrapponendolo erroneamente all’egemonia teologica del medioevo cristiano quando, in effetti, si tratta della sua più cospicua eredità. Il cristianesimo non solo colloca l’uomo al centro della creazione ma ne fa il luogo dell’incarnazione di Dio, ed ecco ‘uomo “nuovo” assumere piena coscienza della sua trascendenza dal mondo creato. Lui, solo, a differenza degli altri esseri viventi, è in grado di porsi di fronte alla vita e alle sue urgenze, oggettivandole nel pensiero ma soprattutto imponendo al mondo e a sè stesso il primato di un ordine morale. Pico della Mirandola (1463-1494) in un celebre discorso che giustamente è considerato il manifesto della modernità, si fa interprete del pensiero del Creatore:
“Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine”(15).
Che l’epoca moderna abbia speso bene o male questa eredità è tutto un altro paio di maniche, e ci sarebbe bisogno di un lungo discorso per darne conto(16). Mi limito ad osservare brevemente che la potenza di “oggettivazione” dell’uomo moderno si è manifestata soprattutto nel dispiegamento di quel complesso economico-scientifico-tecnico che per comodità chiamiamo capitalismo industriale, il quale non solo ha condotto al possesso e alla manipolazione totale della natura esteriore, ma non ha risparmiato lo stesso fenomeno umano. Tradotte le sue aspirazioni nei termini della pulsione biologica, la sua temporalità in forza-lavoro e la sua opera in merce, della libertà spirituale di cui Pico parlava non è rimasto più nulla: triturato nel medesimo materiale indefinitamente manipolabile della natura esteriore, l’uomo delle scienze positive sembra sia stato divorato da sè stesso.
Beninteso, in quello che resta il padre fondatore e il maggiore azionista del pensiero moderno, vale a dire Cartesio, le premesse sembravano piuttosto quelle di un dominio incontrastato dell’uomo sul mondo: il soggetto veniva identificato alla Ragione, autotrasparente e capace di rispecchiare la razionalità del reale senza residui. La conoscenza, assimilata all’evidenza razionale che ha nella matematica il suo modello, respingeva sdegnosamente ogni opaca compromissione con altro che non fosse la rappresentazione geometrica di un mondo ridotto a pura estensione e movimento. Il paradigma meccanicistico inglobava non solo l’inerzia dell’inorganico, ma riduceva ad esso anche il fenomeno vivente, assimilando il mondo vegetale e animale compreso lo stesso corpo umano alla raffinata complessità dell’automa misteriosamente senziente. Per tre secoli buoni, l’ideale scientifico della modernità è consistito nella riduzione del finalistico al meccanico e del vivente alle sue componenti fisico-chimiche. Per quel che riguarda la conoscenza simbolica, è evidente che essa non poteva avere posto alcuno in un universo ridotto a pura ragione contemplante da un lato e pura necessità come oggetto di contemplazione dall’altro. Un universo pastorizzato da tutto ciò che è debordante e imprevedibile nella pulsione vitale, dalla seduzione erotica delle apparenze, dalle suggestioni metaforiche che apparentano cosa e cosa, fenomeni liquidati come un tributo che “lo spirito” deve pagare per la sua compromissione col mondo materiale, in un dualismo ferocemente esclusivo che rinnega la rivelazione cristiana dell’incarnazione (pur professandosene ipocritamente devoto) riportando in auge, in realtà, la cupa negazione della gnosi parmenidea(17).
Dalla docenza cartesiana è fin troppo facile discostarsi oggi, quando un pianeta devitalizzato fin quasi all’estinzione e un uomo ridotto ai minimi termini dalle mandibole di quello stesso razionalismo onnivoro implorano come il figliol prodigo di essere liberati dalla schiavitù, avendo imparato fin troppo bene che non il “sonno” bensì “il sogno” della ragione genera mostri; ma in quell’epoca uno solo, inascoltato, come voce che grida nel deserto, provò a mettere in guardia dal cartesianesimo trionfante, restando pressocchè ignoto ai suoi tempi anche se attualmente da più parti si riconosce in lui il vero iniziatore di un’antropologia e di una filosofia della cultura degne di questo nome: parlo naturalmente del grande italiano Giambattista Vico (1668-1744).
Secondo il Vico, l’uomo dei primordi si rappresenta il mondo “poeticamente”, perchè l’ignoranza circa la natura oggettiva dei fenomeni fa sì che su di essi, ingenuamente, egli proietti le forme del suo stesso corpo e soprattutto i modi del proprio sentire. Ecco allora la metafora primaria: il tuono e il fulmine, che atterriscono il bipede implume, gli paiono la voce tonante e l’arma infuocata di una potenza celeste, raffigurata a propria immagine e somiglianza. Ma il linguaggio poetico del mito non procede solo per puntuali identificazioni, bensì viene amplificando il fenomeno, collocandolo in un contesto che è già narrazione, e ha tutte le caratteristiche della “cosmicità”(18). Questo accade perchè “la mente umana, la quale è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza dei sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari”(19). Per chi sa ben leggere, qui c’è già il capovolgimento non solo dell’antropologia cartesiana, ma anche del materialismo positivistico: la mente umana non solo non consiste nell’autotrasparenza della ragione e procede per approcci simbolici ben prima che per evidenze concettuali ma è “indiffinita”, cioè portatrice di un’aspirazione alla totalità che impone di riunire gli sparsi frammenti in una narrazione (mythos) che è innanzitutto un ordinamento sensato, la cui portata eccede fin da subito i limiti dell’esperienza vissuta e degli appetiti soddisfabili. Il tuono è voce del padre, la collina seno materno e i viventi “la bella d’erbe famiglia e d’animali”(20), ma tutto questo non ha luogo se non nella grandiosità di un dramma cosmico che anche il mito più abbreviato propone, alla domanda di senso di cui l’umano discente è portatore. Verrà il tempo in cui la montagna sarà di competenza dei geologi e il tuono di una sofisticata metereologia, ovvero il tempo dei concetti, che puntano al rigoroso accertamento dell’identità specifica, ma prima di quello è ancora la potenza immaginativa a gettare le basi della distinzione categoriale, nella forma che il Vico chiama: “l’universale fantastico”. Prima che Socrate sproni a definire le qualità essenziali delle virtù, per esempio il coraggio, l’astuzia, o l’amore coniugale, è la narrazione mitica e poi epica a presentarne i campioni indiscussi, nelle figure palpabili di un Ettore, di un Ulisse, di un’Andromaca. Ecco non gli esemplari di una specie già concettualmente riconosciuta, ma le vive presenze che commuovono l’animo dell’uditore, sviluppando in lui il senso stesso di quella virtù. Lo sapevano bene i bambini di qualche decennio fa che, alla scuola elementare, s’infiammavano di passione alle gesta degli eroi romani (Muzio Scevola, e Cincinnato, e i Gracchi). Chissà se ancora lo sanno oggi, dopo che un paio di generazioni di pedagogisti sciagurati ha sottoposto i testi scolastici al “vaglio critico” che comprende le priorità dell’economia e il tecnicismo delle istituzioni e ammazza i bambini di noia, perchè non è quella l’età mentale per quei cibi. Vico sapeva bene che “gli uomini dapprima sentono senza avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”(21). In base a questo aveva elaborato non solo una filosofia della cultura che dà conto dell’evoluzione delle civiltà umane, ma soprattutto una filosofia dell’educazione, che contiene in nuce una psicologia dell’età evolutiva e, avversando fortemente l’unilaterale imposizione del metodo critico agli studi voluta dai cartesiani, difendeva l’importanza fondamentale della retorica, cioè dell’arte del dire poetico e narrativo, per gli educatori(22). Quanto i precetti di Vico rimangano inascoltati anche oggi, che in teoria si mostrano ben verificati, si può constatare agevolmente nelle scuole di ogni ordine e grado dove, al di là di qualcuno dotato di un talento innato, gli insegnanti (la cui competenza disciplinare qui non si discute), del tutto digiuni di una formazione retorica, si mostrano mediamente incapaci di collocarsi al livello dell’immaginazione dei discenti, e il risultato è noia e frustrazione da entrambe le parti.
Ma non è la pedagogia il centro di questa trattazione. Facciamo bene attenzione a ciò che l’ “universale fantastico” vichiano implica: evento che s’impone come potentemente emozionale, esso induce l’esperienza piena e tipica di una certa qualità dell’essere, che d’ora in poi sarà indicata con quell’immagine e, nei termini di quell’immagine, cercata e riconosciuta dove se ne possa intuire la presenza. Prima di pensare a come in letteratura un Ulisse possa diventare l’archetipo del reduce, ricco d’esperienza, ingegnosamente trionfante delle avversità ma condannato a non riconoscersi più nella patria tardivamente ritrovata (da Omero a Joyce a certi personaggi di Pavese), si pensi a come il fuoco, immagine originaria, nel pensiero pre-scientifico è ritenuto dimorare in ogni cosa, e la fiamma rappresenta la vita stessa che agita ogni forma, da Eraclito al flogisto degli alchimisti, ma soprattutto a come lo spettacolo delle fiamme è uno dei più potenti induttori di fantasie e di emozioni in libertà, fin dalla più tenera infanzia(23).
b) Declaratio terminorum
E’ arrivato il momento di fare qualche distinzione più precisa all’interno di quei termini che, provvisoriamente, abbiamo finora accolto come legati da una certa parentela.
In primo luogo, quindi, parleremo di metafora quando ci troviamo di fronte a qualcosa che viene compreso nei termini di qualcos’altro (ad esempio lo Stato dispotico come una macina, o il tempo come denaro, per restare ad esempi già trattati più sopra) dove il collegamento fra le due esperienze è dato da una proporzione, ossia, per usare la terminologia della filosofia tradizionale, da un’analogia di proporzionalità. La metafora è soggetta a un’articolazione di tipo sistemico (se il tempo è denaro allora si può spendere, risparmiare, sprecare ecc) e a una potenziale proliferazione che estenda la medesima proporzione ad altri soggetti (il tempo può essere inteso come ciò che è scandito dall’orologio meccanico, ma anche come ciò che scorre nella clessidra ecc).
In secondo luogo, parleremo invece di simbolo quando ci troviamo di fronte a un fenomeno che racchiude in senso primario una qualità altrimenti sconosciuta, inducendone l’esperienza e investendo il recettore di un’energia traente, che lo porterà ad avvertire la presenza di quella qualità in altre forme e ad altri livelli (immaginando per esempio qualcosa come una fiamma presente in ogni forma vivente, e vedendo nel fuoco l’anima stessa dell’universo mondo, come apertamente teorizzarono gli Stoici). Qui l’analogia che collega il termine noto ai suoi ignoti epifenomeni è piuttosto quella che la filosofia classica definisce analogia di attribuzione: c’è un termine (princeps analogatum, ovvero “analogato principale”) che possiede in grado massimo ed eminente una certa qualità, mentre altri la possiedono solo in modo partecipato e riflesso. Per far comprendere questo tipo di analogia Aristotele faceva l’esempio del predicato “sano” attribuito al corpo, al cibo, al colorito. Propriamente, “sano” si dice del corpo vivente (princeps analogatum), mentre è detto in senso traslato del cibo in quanto causa di salute e del colorito in quanto effetto di buona o cattiva salute. Sempre dell’analogia di attribuzione Tommaso d’Aquino faceva il fondamento della sua metafisica della partecipazione. Come si può dire che Dio è, l’uomo è, il verme è, il sasso è, se tra l’Assoluto e il finito non c’è proporzione possibile? Rifiutando l’analogia di proporzionalità, Tommaso vedeva in Dio l’Essere stesso (Ipsum Esse subsistens), e nelle creature forme d’esistenza partecipata, in vari gradi più o meno prossimi alla perfezione del Creatore. Naturalmente anche il simbolo, come la metafora, è soggetto a una proliferazione, ma non sulla base di una proporzione estendibile a più soggetti, bensì a partire da un’esperienza emozionale, che conduce ad un collegamento non “avvistabile” ma percepibile mediante qualcosa che somiglia più alla risonanza di una conoscenza per “connaturalità”. Se la metafora è strumento di conoscenza, il simbolo è più che altro un’energia traente, che produce quel che significa. La frescura dell’immersione nell’acqua porta con sè un’esperienza di purificazione e rinnovamento che può scendere ai più profondi livelli della vita vegetativa ma anche condurci verso le altitudini della vita morale: per questo può essere impiegata in senso terapeutico ma anche diventare la materia di un rito d’iniziazione come il Battesimo.
In terzo luogo, parleremo di mito quando l’aspirazione totalizzante (ciò che il Vico chiamava “la natura indiffinita della mente umana”) porta a comporre le suggestioni simboliche in una narrazione compiuta, che pretende di dare un senso complessivo all’esperienza umana, includendovi il mistero del Tempo cosmico e morale (ovvero la libertà, la caduta, il riscatto). Il Dio biblico crea il mondo in sei giorni, tanti quanti sono i gradi di complessità crescente della vita, e il settimo si riposa, perchè ciò che è compiuto sia celebrato come buono. Ma poichè di quella bontà originaria oggi c’è solo un pallido ricordo o un’aspirazione, al racconto della creazione si aggiunge quello del dramma morale: l’interdizione a mangiare da un certo albero, il serpente tentatore, la trasgressione di Adamo ed Eva, la cacciata dal paradiso, la promessa di una nuova alleanza.
In quarto luogo, se è vero come già diceva il Vico che ogni metafora è già una “picciola favoletta”, cioè contiene in se la possibilità di un’estensione narrativa e reclama un cosmo compiuto(24), è anche vero che l’espansione sistematica non valorizza il carattere simbolico del mito, il quale punta non solo a rappresentare ma innanzitutto a riattualizzare un’esperienza, il che avviene nel rito. La battaglia cosmica e la sconfitta del mostro primordiale che rese possibile la creazione del mondo veniva celebrata ogni anno, durante il Capodanno babilonese, ma non si trattava di semplice “teatro”. Ciò che è agito nello spazio sacro, non è spettacolo nè semplice memoria: nella celebrazione di ciò che accadde in “illo tempore” ai partecipanti è dato di rivivere attualmente ciò che rigenera il mondo, pena lo sprofondamento dell’ordine cosmico e morale nel caos primigenio(25).
In quinto luogo, l’aumento di esperienza e lo sviluppo di una riflessione corrispondente, possono e devono portare ad un livello di consapevolezza che rende il discorso mitico letteralmente inaccettabile. Se Dio è la perfezione assoluta, immune da ogni mutamento, come può aver bisogno di 6 giorni per creare il mondo? Così si domanda il dotto ebreo Filone d’Alessandria, fedele alla Torah ma istruito nella filosofia platonica(26). Ecco che si apre la possibilità di un’interpretazione non letterale del mito, che viene letto ormai come allegoria, ossia espressione grossolanamente materiale, legata ai limiti di una mente primitiva, di verità spirituali che spetta a una teologia più raffinata enucleare. E’ un passaggio obbligato nella storia delle religioni, che si può constatare nel paganesimo greco (l’interpretazione allegorica dei miti omerici inizia già tra gli Stoici e continua nella tradizione neoplatonica), nell’Induismo (i miti dei Veda vengono riletti allegoricamente secoli dopo, in quei commentari teologici che sono le Upanisad) e nel Cristianesimo (l’esegesi medioevale enuclea i molteplici sensi in cui possono e devono essere intesi i diversi luoghi della Scrittura)(27). Qui è il caso di precisare che l’evoluzione della coscienza umana, che dall’infanzia alla maturità vede crescere l’importanza della riflessione razionale sulla componente emozionale fantastica è assolutamente nell’ordine delle cose, ma contiene in sè il pericolo di uno sradicamento da quelle esperienze originarie su cui il carattere morale a suo tempo si formò. E’ quella che il Vico chiamava “barbarie della riflessione”, che si verifica quando la ragione si estenua nel razionalismo, l’ordinamento concettuale dà origine a un mondo sterilizzato e depotenziato di ogni vitalità, e in definitiva ciò che va perduto è proprio il “senso simbolico”, cioè la capacità del simbolo di ri-presentare l’esperienza del valore, ormai sostituita da una formula puramente intelligibile. Ma il valore non è qualcosa che si può computare o dedurre, se non se ne fa esperienza, e la sua trascrizione in termini concettuali spesso equivale alla sua effettiva rimozione: molto meglio infiammarsi alle gesta dell’eroe e sviluppare in sè l’ardimento che conoscere l’astratta definizione di coraggio nel chiuso di una biblioteca. L’oggetto che la ratio scientifico-tecnica ha sostituito alla forma naturale, la rete concettuale che si è stesa come una coltre opaca sul mondo sensibile, non sono stati uno sviluppo fatale della maturità intellettuale europea ma piuttosto, come abbiamo più volte mostrato, il risultato di una sua deviazione patologica. Giustamente Nietzsche riconobbe in un certo idealismo esangue la cifra di una modernità malata, anche se al suo fiuto per il sintomo non corrispose una diagnosi altrettanto corretta. Tuttavia, che si trattasse di una patologia dell’anima occidentale era già chiaro alle inquietudini romantiche, e come ogni malattia essa avrebbe reclamato i suoi terapeuti di cui parleremo fra poco, perchè essi sono stati innanzitutto capaci di rimettersi all’ascolto della comunicazione simbolica e di riaffermarne il potenziale di conoscenza.
(continua)
NOTE
15) Pico della Mirandola, De hominis dignitate
16) Henri De Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento: Pico della Mirandola, Jaca Book 1994
17) Si veda soprattutto il Discorso sul metodo, di cui sono disponibili diverse traduzioni italiane.
18) Francesco Botturi, Ingegno, verità, storia. Filosofia dell’immaginario vichiano, in: AA.VV, Simbolo e conoscenza, Vita e Pensiero 1988, pag. 131
19) G.B. Vico, Opere filosofiche, Sansoni 1971 pag. 624
20) Ugo Foscolo, I sepolcri
21) G.B. Vico, op. cit, pag. 445
22) Si veda soprattutto il De nostri temporis studiorum ratione in G.B. Vico, op. cit.
23) Chi è interessato all’immaginario poetico e prescientifico che si sviluppa intorno al fuoco ha a disposizione l’affascinante lettura di: Gaston Bachelard, La psicanalisi del fuoco, Dedalo 1973
24) Lo si vede bene nei sistemi di corrispondenze simboliche che raggiungono dimensioni enciclopediche, non solo nei saperi premoderni occidentali largamente influenzati dalla struttura della metafisica neoplatonica (astrologia, alchimia, teatri della memoria ecc.) ma anche nella cosmologia cinese antica. Si veda per esempio Marcel Granet, Il pensiero cinese, Adelphi 1971.
25) La stretta relazione tra mito e rito e l’efficacia del rito medesimo sono state studiate in modo accurato e probabilmente insuperabile da Mircea Eliade. Tra i suoi numerosi libri tradotti in italiano consiglio per un primo approccio alla tematica e all’autore La nascita mistica, Morcelliana 2002, interamente dedicato ai riti d’iniziazione.
26) Filone di Alessandria, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Bompiani 2005
27) La più celebre sintesi è quella fornita da Dante Alighieri: “le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. (…) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.” (Convivio, II, cap. 1)
1 aprile 2013 alle 09:10
ciao Valter, bella quella frase dello stupido’…
e ti ricordi quando Forrest dice a Jenny: “non sono un uomo intelligente, ma so l’amore che significa”
è vero, a volte ci si lascia congelare in una formula che pretende di rinchiuderci in una definizione determinata, nata forse da qualche errore del passato, dalla superficialità del senso comune, che ha bisogno di maschere per rapportarsi velocemente con i personaggi della commedia umana. Anch’io ti avevo congelato in una formula, credevo tu fossi un dinosauro cattivo.. invece sei il fratello che non volevo conoscere. Siamo quel che eravamo e siamo anche ciò che appariamo, belli o brutti, uomini o gatti, giovani o meno giovani. E il mistero della persona si manifesta nella sua libertà, e saranno le sue buone azioni, anche le più piccole, a definirla. E finchè ci sarà vita e libertà, avrà la possibilità di amare e lasciarsi amare e, se proprio non vorrà, lo farà dio al posto suo.