di giuliomozzi
I testi dell’archivio privatissimo diventeranno – salvo incidenti – un libro. Uscita prevista: autunno 2013. Se ci fosse un qualche editore interessato a far diventare libri anche le altre mie serie di testi in versi, si faccia pur vivo.

La reazione degli editori alla proposta di Giulio Mozzi.
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This entry was posted on 21 marzo 2013 at 14:49 and is filed under Archivio giulio mozzi, Dall'archivio privatissimo. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed.
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21 marzo 2013 alle 17:15
Matteo, 21 12-13
21 marzo 2013 alle 17:18
Ossia:
21 marzo 2013 alle 18:06
Ma come! Anche gli scrittori affermati devono cercarsi l’editore?
21 marzo 2013 alle 18:59
Sei in buona compagnia, Giulio.
21 marzo 2013 alle 20:24
Buona fortuna all’archivio privatissimo (ora che è stato prenotato posso dirlo: la dicitura è orribile)
21 marzo 2013 alle 20:28
Le poesie “dall’archivio privatissimo” di solito mi piacciono sempre molto, quindi non posso che esserne contenta!
21 marzo 2013 alle 21:47
Nadia: per le poesie dell’archivio, è l’editore che ha cercato me.
Daniele (dm): intendi che ti pare orribile il titolo “Dall’archivio privatissimo”? Se sì, vuoi provare a dirmi perché? (Il titolo del libro è comunque da trovare).
21 marzo 2013 alle 22:05
“Privatissimo” è un’iperbole priva di senso reale. Una cosa o è privata o non lo è. “Privatissimo” vale come “primissimo”, “ultimissimo”, “assolutamente sì”, “assolutamente no” ecc. ecc., come se fosse possibile arrivare prima del primo, dopo l’ultimo o dire un sì più sì del sì e un no più no del no. E’ una questione di serietà e sobrietà del linguaggio. Secondo me[*].
[*]: esempio pratico di caduta di sobrietà del linguaggio: è ovvio che se sono io a dire questo, e lo sono di mia spontanea iniziativa, la cosa è detta “secondo me”.
22 marzo 2013 alle 02:10
Giulio, certo, mi riferisco al titolo usato qui nel tuo blog. Bene: se non mi pare bello e particolarmente appropriato è per questi due motivi:
– Naturalmente, il superlativo issimo nel titolo non può che risuonare con la lingua dei claim e delle promozioni di basso profilo (ultimissimi, scontissimi, intimissimi, altissima purissima etc); il che però cozza col contenuto del testo-titolo e dei testi poetici senza particolari risultati estetici.
– La parola “archivio” fa poi venire in mente una cosa, un contenitore di grandi dimensioni. Ciò che è più che privato apre invece a una dimensione minuta, non necessariamente dell’abusato cassetto con dentro i sogni e i capolavori da scoprire, ma non più di una cassettiera, ecco. Uno che ha un archivio per il materiale privatissimo, mi fa sospettare che abbia minimo una sede del catasto per il materiale soltanto privato. E il cozzo non dà valore aggiunto, secondo me.
(Mi domandasti perché mi parevano belle alcune delle poesie. Non ero in grado di rispondere senza tirare in ballo categorie che non maneggio con destrezza. Almeno ho potuto dirti perché diavolo mi sembrano brutti i titoli. Potrei averlo fatto anche solo per ripicca, se non fossi i/o.)
22 marzo 2013 alle 06:19
Capito, Daniele.
Il senso dell’-issimo c’è tutto, secondo me, per la pubblicazione in rete (perché, ovviamente, ciò che è in rete è “pubblicissimo”: e qui il paradosso ha un “risultato estetico”, secondo me, nel senso che guida la percezione del testo da parte di chi legge).
Ma una pubblicazione in carta è tutt’altra cosa (leggeranno il libro molte meno persone di quante abbiano letti i testi qui in vibrisse: ne sono certo).
Però l’archivio è digitale, Daniele. E un hard disk esterno – che mi sta nella tasca della giacca – è “un contenitore di grandi dimensioni”. Quindi sono tentato dal titolo: Dall’archivio, se non altro per dare l’idea che oltre a quella roba lì che si trova nel libro, ce n’è tanta altra.
22 marzo 2013 alle 06:24
Roby: l’iperbole è una figura retorica come le altre, secondo Wikipedia: “L’iperbole (dal greco ὑπερβολή, hyperbolé, «eccesso») è una figura retorica”, eccetera.
22 marzo 2013 alle 10:40
Infatti: “iperbole priva di senso reale” direi che è una tautologia. E ciò a riprova, se mai ve ne fosse il bisogno, di quanto sia difficile sorvegliare il linguaggio, anche scrivendo. Intendevo sottolineare che il continuo ricorso all’iperbole, o ai superlativi di qualsiasi aggettivo, risulta irritante (epperò è di moda!). E questo in special modo in un titolo che, come ben sai, ha un fortissimo potere. Che ci sarà mai in un “archivio privatissimo”? cose che mai e poi mai il possessore vorrebbe esibire a un pubblico, ma definendolo appunto “privatissimo” l’autore dà mostra di voler solleticare la curiosità dei lettori ai quali non vede l’ora di mostrar tutto. In questo senso il “privatissimo”, ben lungi dal voler significare “voglio tenerlo per me a qualsiasi costo”, diventa bensì un manifesto di desiderio esibizionistico (non nell’accezione negativa del termine, intendiamoci). Certo, va tutto benone: salvo il fatto che così si fa al pubblico una promessa assai difficile da mantenere. Ma questo, in effetti, non è un problema del pubblico.
22 marzo 2013 alle 15:41
Mi stai dicendo, Roby, che quel “privatissimo” è il titolo giusto.
22 marzo 2013 alle 17:11
dm: “- Naturalmente, il superlativo issimo nel titolo non può che risuonare con la lingua dei claim e delle promozioni di basso profilo (ultimissimi, scontissimi, intimissimi, altissima purissima etc)”.
trovo questa osservazione un po’ scontata, per non dire scontatissima. quando manzoni scrive “[…] Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo […]” non sta affatto pubblicizzando un paio di collant, anche se potremmo pensare che “principale” sarebbe stato più che sufficiente. il senso del superlativo “privatissimo”, per come lo leggo io, è il senso di un salto da un ambito all’altro, il senso di un rischio, di una consapevole esposizione. tutto ciò per dire che non vedo alcuna corruzione pubblicitaria né sento alcuna cacofonia nell’uso di quell’enfasi. forse più un ossimoro, un pudore che si spudora.
22 marzo 2013 alle 20:54
Giulio, mi scrivi “ciò che è in rete è ‘pubblicissimo’: e qui il paradosso ha un ‘risultato estetico’, secondo me, nel senso che guida la percezione del testo da parte di chi legge.”
Forse sbaglio, ovvero come sempre accade la mia lettura è viziata dalle mie caratteristiche. Però, a leggere un testo che si presume sia letterario (in senso lato), in un blog di uno scrittore quale è vibrisse, io lettore tendo a rimuovere la cornice, per me quello è un testo autosufficiente, la colonna destra con le opzioni scompare, la testata scompare e la rete, pure, scompare; il testo è lì, il macrotesto in cui è inserito ha poca rilevanza (non ci sono collusioni estetiche, diciamo, tra il blog – tra la forma e il contenuto del blog – e il testo letterario, benché meno tra rete e contenuto del post). Vale anche per autori diversi dall’autore del blog, esempio: se tu pubblichi un romanzo di Binaghi, io lo leggo isolandolo dalla rete, dal tuo blog, privandolo della cornice: non mi interessa ad esempio che lo stesso Binaghi ha/aveva un blog, né che ci siano alcuni testi nel tuo blog da lui scritti, etc; tutto ciò che in rete è comunicante con quel testo, non mi riguarda. Quindi il titolo del romanzo (o nel nostro caso delle tue poesie), a meno che si chiami fuori dalla fruizione estetica e risulti puramente funzionale (che so: “le mie poesie”, o “il romanzo di Binaghi”) io lo colloco evidentemente all’interno dei confini del testo letterario, dunque all’esterno della cornice in cui è inserito (rete, blog e compagnia bella). Spero di essermi spiegato, scrivo un po’ in fretta. In definitiva, la risonanza tra titolo e caratteristiche del medium io non la colgo, non la sento. E se la sentissi mi sarebbe fuorviante, più che guidarmi nella lettura. Tu sai ovviamente il relativismo da due soldi attraverso il quale vedo la lettura, le letture (ci saranno insomma un sacco di persone con idee un sacco diverse dalle mie.)
Quanto all’archivio inteso come hard disk, forse sono della vecchia generazione informatica (giovane ma non ipergiovanissimo), l’hard disk è l’hard disk. La parola “archivio” introdotta nelle nuove versioni dei sistemi operativi per indicare un hard disk esterno, oltre a essere imprecisa da un punto di vista tecnico, non ha ancora fatto presa nell’immaginario. Se tu scrivi “archivio”, io penso alle prime accezioni presenti nel vocabolario, non certo a hard disk. Diverso sarebbe “archivio digitale”.
Ti rinnovo l’augurio per la fortuna del libro (il titolo – dei post – nisba… : – )
22 marzo 2013 alle 21:02
anna albano, se dovessimo tener fede a quel che vediamo nei telefilm legal, la difesa d’ufficio non è consigliabile.
Così lei, con un po’ di bizzarria:
“quando manzoni scrive […] Ma Federigo teneva l’elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo […] non sta affatto pubblicizzando un paio di collant.”
L’ultima stesura dei Promessi sposi viene fuori nel ’40, la pubblicità urlata arriva ad infettarci, e a far presa sull’immaginario collettivo, con l’avvento del consumismo nelle masse. E’ evidente che il Manzoni, nella sua intimità forse un po’ castigata, non avesse mai avuto a che fare con gli intimissimi.
Inoltre, non c’entra. Com’è ovvio, i superlativi sono ancora abbastanza utili, non come gli intimissimi, ma quasi. Un conto è il titolo (che può avere qualche analogia col claim), un conto è il testo di una narrazione, dove si spera che l’autore non ci voglia vendere gli intimissimi con ogni superlativo. La saluto!
22 marzo 2013 alle 21:12
la saluto anche io e confesso con disagio di non aver capito nulla di ciò che ha scritto. aa
22 marzo 2013 alle 21:19
Anna Albano, me ne rammarico, auguriamoci che un professionista metta su un (non) corso di ironia e interpretazione. Il target di sicuro c’è.
22 marzo 2013 alle 21:54
“Mi stai dicendo, Roby, che quel “privatissimo” è il titolo giusto.”
Abbiti la mia benedizione.
23 marzo 2013 alle 00:29
In alternativa potresti provare con archivio illustrissimo ac reverendissimo.
23 marzo 2013 alle 05:40
Ma, Daniele, tu scrivi (scorcio):
Tu non senti questa “risonanza”, io la sento parecchio. Fin qui punto: due modi indivdiuali diversi di reagire ai testi (o, come in questo caso, ai titoli). A me non verrebbe mai in mente di “scollare” un testo dalla sua “cornice”, ma forse perché da vent’anni mi dedico regolarmente e quotidianamente a “incorniciare” testi – e sono diventato ipersensibile alla sensibilità del pubblico nei confronti della cornice. Il titolo brutto non vende, il titolo sbagliato fa magari fare un acquisto del quale poi il lettore si pente, la copertina sbagliata dà un’idea inopportuna dell’opera, eccetera eccetera, un blog impaginato male si legge male, le poesie stampate in consivo sono segno lampante di dilettantismo, eccetera e ulteriore eccetera.
Dunque: ipersensibile io, per ragioni mie; insensibile tu, per ragioni tue che sono come minimo buone (un testo letterario è un testo leterario, punto).
Domande (stavo per scrivere “obiezioni” ma no, non sono obiezioni) minime: se l’autore è anche corniciaio, non sarà il caso di considerare anche la cornice? se l’autore è un corniciaio dilettante e dipendente da una tecnologia che non conosce (come sono io quando impagino vibrisse, quanto dobbiamo all’uno e quanto all’altra? Ecc.
Questi per me sono possibili temi di studio.
Mi è sempre sembrato strano, ma mi pare che siano ancora piuttosto pochi gli studi sulle pratiche della lettura digitale. In Europa i numeri sono ancora troppo piccoli (cioè: i lettori digitali sono troppo pochi per fare ricerche attendibili), negli Usa i numeri sono grandi ma lì tutto è diverso (a es.: a usare i lettori digitali sono soprattutto le donne – vedi un’analisi di Random House -, mentre pare che qui in Europa l’ereading sia faccenda prevalentissimamente [!] maschile).
Pensa a quanto cambiò la lettura quando si cominciò a scrivere staccando le parole. Pensa che Petrarca scriveva i suoi sonetti mettendo due endecasillabi di fila
Conosci Seuils di Genette? (In italiano: “Soglie”, Einaudi; da cercare in biblioteca). E’ una buona lettura per chi aspiri a diventare ipersensibile a titoli, paratesti, manchettes, brigidini e quant’altro.
Quanto all’archivio: qui conta la differenza di età. Negli anni Settanta, quando mio padre (ricercatore) trafficava con le schede perforate, non si parlava che di “archivi”. Poi vennero i “data base”. Gli “hard disk” alla portata di tutti direi più tardi, primi anni Ottanta. Per me dunque “archivio” è – in ambito informtelemecc. un arcaismo.
23 marzo 2013 alle 17:50
Giulio, sai, mi ha sempre interessato il modo in cui, in un blog, i lettori percepiscono i testi letterari: innanzitutto perché da sempre ho l’ambizione di metter su un “blog letterario”, poi perché fino a un certo punto credevo che la “cornice” in cui un testo era pensato per esser pubblicato potesse, a seconda, facilitare o rendere difficile la sua stesura. (Cioè all’interno di una “cornice letteraria”, pensavo, è più facile scrivere un “testo letterario”). Poi, però, mi sono accorto, leggendo blog altrui come il tuo e, per conto mio, facendo esperimenti; che i “blog letterari” non esistono. O meglio, ci sono blog che parlano di letteratura e che all’interno hanno testi più o meno letterari, e pur tuttavia non sono “blog letterari”. Cioè: la letterarietà, se così possiamo dire, non è da ricercare nel testo-blog, ma di volta in volta nei singoli testi. A me questa cosa pare evidente, ma mi rendo conto che, a sensibilità diverse, potrà anche sembrare incomprensibile, o una speculazione inutile.
Di pari passo, leggendo testi letterari nei blog (anche il tuo: racconti poi pubblicati su carta che, per la prima volta, ho letto qui) mi accorgevo come dei testi che fuori dalla cornice erano magari belli, all’interno risultavano meno belli (o: funzionavano meno). E, all’opposto, testi magari meno belli, posti all’interno della cornice blog, funzionavano di più, mi sembravano più belli. Forse dovrei soffermarmi su cosa è per me “bello” e su come questo “bello” si riferisca principalmente al carattere persuasivo di un’opera, di un testo. (L’aspirante scrittore, più che altro, dovrebbe leggere Gorgia.) Mi chiedevo allora: cos’è che cambia il testo? In che modo la cornice influenza la lettura? (E bada, a me pare che la “cornice blog” abbia pochissimo a che vedere con la “cornice copertina” e simili. La “cornice blog” è connettiva, e tutta un’altra roba.) In realtà non riuscivo a rispondermi, e alla fine, come sopra, la conclusione era sempre che non ci sono “blog letterari”.
Questo a dire che quella che chiami “mia insensibilità”, è in realtà un tentativo di leggere il testo per quello che è (quello che è, con le pinze, o tra virgolette).
Genette… ho tentato di studiarlo all’università, con qualche risultato. Magari mi butterò di nuovo per capire meglio, ora che sono diventato grande. E però, se mi tiri in ballo la semiotica di Genette, ti dico che stiamo parlando di cose diverse… Io parlo di percezione del testo, e non del testo.
Anche a me interesserebbe capire qualcosa di più sull’ereading cosiddetta. Nei termini di: cosa cambia? Ovvero: sono colpevoli di retaggi antiqui e di pregiudizi antimoderni gli scrittori che remano contro al fantastico e-book. Kundera si è operato perché non si diffondano legalmente le sue opere in e-book. Franzen parla invece del carattere impermanente della scrittura in digitale, e dunque di qualcosa che, a suo modo di vedere, indebolisce l’opera. Non so, vorrei solo capire se, anche qui, ci sono degli insensibili e degli ipersensibili, visioni differenti o visioni annebbiate, mi preme.
Infine: continuo a ritenere che la parola “archivio” utilizzata in quel titolo non vada. Considerato anche il tuo background (forse abbastanza raro, di solito quelli della tua generazione o hanno imparato sui nuovi mezzi informatici o navigano a svista…)
24 marzo 2013 alle 18:30
Daniele, ti ho suggerito uno specifico libro di Genette: “Soglie.” Del quale puoi trovare una buona descrizione in Wikipedia, qui.
24 marzo 2013 alle 19:42
Giulio, leggo i tuoi commenti, prima di rispondere… Se in piazza della Scala, all’uscita dalla prima della Figlia del reggimento, di Donizetti, ti dico che a me l’interpretazione del tenore sembrava sbagliata perché così e cosà, e tu dici che no, era appropriata, e mi citi un trattato di foniatria di Franco Fussi, magari ti posso anche rispondere che si parla di cose diverse, anche se non ho letto il trattato di foniatria di Franco Fussi.
(Così come non ho letto Soglie di Genette, il che non dirime la controversia, ma grazie perché potrà essermi utile per altro…)
26 marzo 2013 alle 08:22
No, no, ti ho suggerito un saggio su come il contesto (teatro, pubblico, comunicazione giornalistica ecc.) influenza la percezione del canto all’opera. E e lo suggerisco non perché non condivida la tua opinione sul tenore, ma perché mi pare che la questione ti interessi.
28 marzo 2013 alle 03:00
Beh allora grazie, Giulio. Ho fatto un giro per la rete, ma ci sono rimasto impigliato appena ho visto il prezzo. Non credo che lo tengano nell’unica biblioteca in cui potrei cercarlo. I leghisti hanno segato i fondi e non è neppure connessa alla rete delle biblioteche perciò niente prestito interbibliotecario… Cose che succedono, a quanto pare.
Mi interessano i discorsi attorno ai titoli, anche le pere strutturaliste sì. Il motivo è che faccio una gran fatica a scriverli. Proprio mi pesa la penna. Sono in grado di rovinare un racconto decente, o forse anche bello, con un titolo più che micidiale. Ma non prenderla come una resa, il tuo continua a non piacermi, e credo di saperli leggere.
Quindi, nell’attesa che passi la povertà, o che me ne vada di qui, secondo te in rete c’è qualcosa di free sull’argomento? Qualcosa di articolato, che magari hai letto o hai scritto tu stesso.
Grazie se rispondi
28 marzo 2013 alle 05:19
Qui trovi le fotocopie migliori del mondo, Daniele.
28 marzo 2013 alle 18:19
Double thank you.