di giuliomozzi
[Era il 1997, e io trafficavo con Nautilus, rivista di attualità e cultura pubblicata in rete. Scrivevo recensioni, pubblicavo racconti di giovani e giovanissimi narratori; e compilavo anche un corso di scrittura a puntate. Qui ne riporto una. Qualche anno prima avevo organizzato, insieme a Stefano Dal Bianco, un corso di lettura della poesia. Molto di ciò che è scritto qui viene più da Stefano che da me. gm]
In questa puntata parleremo di poesia. Gli appassionati della narrativa non se la prendano: lo studio della poesia è comunque fondamentale per arricchire la propria capacità stilistica. Nel testo che segue cercheremo di fornire qualche elemento di metrica. La metrica è lo studio del funzionamento del verso. Di solito i manuali di metrica sono noiosissimi; qui cercheremo di suggerire un approccio diverso a questa in realtà affascinante materia. Alla fine del testo ci sono le note e una breve bibliografia.
Fare il verso alla poesia
Domanda: che cosa è la poesia? Risposta: la poesia è una forma di scrittura nella quale si va a capo prima che sia finita la riga. Potrà sembrare un po’ idiota, come definizione, ma tutto sommato è una definizione che funziona. Ad esempio, se leggiamo:
Domanda: che cosa è
la poesia?
Risposta: la
poesia è una forma di scrittura
nella quale si va
a capo
prima che sia finita la riga.
Questa è indubbiamente una poesia, anche se come poesia fa abbastanza schifo (su questo penso che siamo tutti d’accordo). Oppure:
Domanda: che cosa è la poesia?
Risposta: la poesia è una forma di scrittura nella quale
si va a capo prima che sia finita la riga.
O anche:
domaNd
a
chE Cos(a
è l
a)poEsi
a?
riSpoSt(a
L
A)poesi
a
è un(a
foRm
a)di scrIttur
A
eccetera: anche questa è una poesia. Che queste, come già detto, siano brutte poesie, è cosa che non ha molta importanza (dal punto di vista della poesia). Così come un brutto romanzo non cessa di essere un romanzo per il fatto d’essere brutto, così una brutta poesia è comunque una poesia.
Andare a capo. Se lo specifico della poesia rispetto alla prosa è appunto l’andare a capo prima che la riga sia finita, è evidente che, se vogliamo parlare di che cosa è la poesia, dobbiamo proprio cominciare da questo andare a capo. Ci possono essere due punti di vista:
a) L’a capo divide il testo in righe, che saranno dotate di una loro autonomia o autosufficienza di qualche tipo: ritmica, di senso, sintattica, e così via. Quindi si va a vedere, diciamo così, che cosa tiene insieme un verso.
b) L’a capo è un avvenimento che avviene a un certo punto del testo: improvvisamente, due parole contingue chiedono di essere “separate” (o “unite in maniera diversa”) per mezzo dell’a capo.
Questo secondo concetto dell’andare a capo è un po’ più difficile da assimilare (ed è, in realtà, anche più approssimativo e confuso); tuttavia è molto interessante, proprio perché distoglie l’attenzione dal verso in quanto tale; diciamo che imparare a pensare all’a capo in questo modo, come a un avvenimento improvviso, è un po’ come, per un calciatore o un cestista, imparare a giocare senza palla.
Spaccatura. Leggiamo un breve testo di Milo De Angelis: “Poi […] ho cercato qualcos’altro: un andare a capo ancora più lontano dal senso – dal senso inerente a due versi separati e da quello orchestrale che ne illumina la separazione – ho cercato cioè una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frase stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia” (1).
Che cosa vuol dire questo testo un po’ criptico? Proviamo a leggere una poesia di Milo De Angelis (del 1985):
Siete pur sempre nelle tenaglie
di una polvere, di una
promessa del 1961, quando
i giardini diventano un rasoterra
del numero otto, con i calci nell’arte.
Sì, una promessa
diceva: sarete fatali al correre
come il ritmo di una strada è
fatale alla piazza che porta in sé
tutti
nelle forze del prato che, spelato,
diventa questo
essere tenuti nella montagna.
[…]
Per il momento non badiamo al senso di questi versi; anzi, non ci baderemo per nulla; tuttavia proviamo a leggerli a voce alta, e marcando gli a capo: cioè facendo effettivamente una piccola sosta alla fine del verso, sull’a capo.
Proviamo.
Una pausa. (Tempo destinato alla lettura a voce alta.)
Riprendiamo. Ecco, ora avremo sentite alcune cose. Ad esempio: che è difficile fare effettivamente la piccola sosta in alcuni a capo, come “una / promessa”, “quando / i giardini”, “una promessa / diceva”; altri a capo sono, diciamo così, abbastanza naturali. L’ultimo (“diventa questo / essere tenuti nella montagna”) è interessante. Possiamo notare che quella piccola sosta che può sembrarci inutile, priva di senso o imbarazzante in “una / promessa”, diventa invece significativa (= dotata di senso) in “questo / essere”. Dà un effetto di enfasi molto preciso e, possiamo dirlo, più tradizionale.
Questo / essere. Perché “più tradizionale?”. Semplicemente perché gli a capo di questo tipo sono sempre stati abbastanza frequenti, almeno nel nostro secolo. Ad esempio, leggiamo quattro versi da una poesia del 1944 di Vittorio Sereni. E’ una poesia piuttosto conosciuta, c’è un po’ in tutte le antologie (anche scolastiche) e comincia:
Non sa più nulla, è alto sulle ali
il pirmo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
Il contenuto della poesia è questo: Sereni, nel campo di prigionia (inglese, nel Nordafrica) nel quale è rinchiuso, ha notizia dello sbarco in Normandia. La notizia, stranamente, non gli provoca molta emozione. C’è vento. I versi che a noi interessano sono gli ultimi:
Questa è la musica ora:
delle tende che sbattono sui pali.
Non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta.
Questo a capo “è la mia / sola musica” assomiglia molto al “questo / essere” di De Angelis: e lo precede di quarant’anni netti. Ciò che vogliamo dire è che a un tipo di a capo enfatizzante come “questo / essere” siamo abituati da un pezzo; invece “una / promessa” è un a capo al quale, probabilmente, non siamo affatto abituati (il lettore abituale di poesia – pare che ce ne siano duecento in Italia – è abituatissimo; ma sia chiaro che non stiamo parlando per lui). Allora proviamo a fare un interessante giochetto. Cambiamo l’a capo di quei due versi di De Angelis:
diventa
questo essere tenuti nella montagnadiventa questo
essere tenuti nella montagnadiventa questo essere
tenuti nella montagnadiventa questo essere tenuti
nella montagnadiventa questo essere tenuti nella
montagna
Non pensiamo, per ora, all’intrinseca stupidità del giochetto che stiamo facendo: ma osserviamo che questi diversi a capi producono diversi sensi. Ossia: è abbastanza naturale che si cerchi di leggere ogni verso anche per quello che è, appunto un verso, un frammento di testo separabile da ciò che lo precede e da ciò che lo che segue. Allora possiamo accorgerci, ad esempio, che in “diventa questo essere / tenuti nella montagna” potremmo addirittura aggiungere una virgola:
diventa questo essere,
tenuti nella montagna
cioè la sosta di fine verso, se viene dopo la parola “essere”, diventa fortissima, e la coppia di versi, così fatta, sembra più solida. Che cosa dà quest’impressione? E’ semplicemente un fatto ritmico:
divénta quésto èssere
tenùti nélla montàgna
Con questa divisione abbiamo due versi quasi della stessa lunghezza, entrambi con tre accenti (stiamo attenti, però, a leggere ben separati “questo” ed “essere”, e a non legarli leggendo “quest’essere”). Le strutture parallele e le ripetizioni danno sempre (quando non sono troppo insistite) un certo piacere: ed è per questo che un a capo di questo tipo ci piace: perché produce una ripetizione ritmica ben sensibile. Ora però immaginiamo una delle ragioni che hanno mosso De Angelis a fare l’a capo che ha fatto: voleva evitare questo tipo di piacere (che è un po’ troppo banale e facile).
Guardiamo le altre trasformazioni. “Diventa questo essere tenuti” è un verso che produce senso da sé; “nella montagna” diventa quasi un’appendice (anche ritmicamente) pressoché superflua; la frase (da un punto di vista ritmico, lasciando perdere il senso) poteva anche terminare così, fermarsi con un punto dopo “tenuti”:
diventa questo essere tenuti.
Tra l’altro questo verso (sempre conservando l’accortezza di leggere staccati “questo” ed “essere”) diventa un endecasillabo con accento in seconda e sesta posizione: cioè uno degli endecasillabi più tradizionali che ci siano (parleremo più avanti degli endecasillabi), quindi ancor più un verso che tende, dentro una poesia con metrica libera, ad isolarsi. Cosa che, immaginiamo, De Angelis non voleva affatto. Perciò non ha adottato questo a capo.
Infine:
diventa questo essere tenuti nella
montagna
potrebbe essere considerato un espediente per non far sparire la montagna; ma crea molta enfasi attorno alla parola montagna e poi, cosa non trascurabile, si tratta di una ripetizione: l’a capo tra articolo e sostantivo c’è già alcune righe più sopra, “una / promessa”. Ripeterlo (per quanto questo possa, come già detto, procurare piacere al lettore) significherebbe dare un senso preciso a questo tipo di a capo, privilegiarlo rispetto agli altri, farne quasi un sistema. Il che, immaginiamo ancora, non rientra nelle intenzioni di De Angelis (almeno in questo testo).
Diversi tipi di a capo. E allora, un a capo come “una / promessa”, che senso ha? Verrebbe da rispondere appunto citando De Angelis: questo a capo deriva “da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni”. Si può provare a dire la stessa cosa in altro modo. Prendiamo la faccenda alla larga.
Ogni volta che si scrive, si fa una scelta di stile (consapevole o no, ecc.). Ogni scelta di stile è anche un riifuto di stile: “decido di scrivere nello stile x, pertanto rifiuto tutti gli altri stili”; oppure: “decido di scrivere in uno stile che abbia come riferimento principale lo stile q, che riconosca una parentela con gli stili f, h e z, e rifiuti gli altri, soprattutto si opponga ferocemente allo stile m”. Queste scelte di rifiuto non sono particolarmente razionali, sono scelte dettate dalla nausea: quando decidiamo che non ne possiamo più di versi fatti in un certo modo, di a capo fatti in un certo modo ecc., quando ne siamo nauseati, allora ci mettiamo a fare dell’altro.
Rispetto a che cosa si fa, una scelta di stile? Che diàmine, rispetto agli stili dominanti del presente e del passato (prossimo). Si può presumere che una persona che si metta a scrivere un romanzo di sentimenti familiari oggi, nel febbraio 1997, cercherà di scrivere un romanzo di sentimenti familiari quanto più possibile differente (nello stile) da Va’ dove ti porta il cuore; e questo a prescindere dal fatto che Va’ dove ti porta il cuore sia un libro bello o brutto, e che al nostro romanziere piaccia o no: semplicemente perché Va’ dove ti porta il cuore è diventato, al di là delle intenzioni di chiunque, un modello forte, normativo (sono uscite un sacco di imitazioni); e quindi il suo stile può dare la nausea.
I campi di scelte stilistiche. Ora, nel momento in cui si comincia a scrivere, le prime cose che scriviamo istituiscono un “campo di scelte stilistiche” (nonché lessicali ecc.) nel quale poi, a meno di sforzi sovrumani, noi resteremo. E questo campo è definito dalla nostra scelta (o dalle nostre scelte) di stile, e dai nostri rifiuti di stile. Quindi per De Angelis nel 1985 (così come per noi, ora) c’erano alcune forme di a capo (consideriamo il modo di fare l’a capo, in poesia, come un aspetto importantissimo dello stile) che erano assolutamente da evitare, ed altre che rimanevano possibili. Probabilmente un a capo come “una / promessa” è una scelta derivante dall’impossibilità (soggettiva: per De Angelis) di fare un altro a capo: qualunque altro a capo gli sarebbe apparso nauseabondo, perché rinviante a modi stilistici da lui rifiutati. Inoltre, poiché (è evidente anche leggendo il frammento di testo che qui abbiamo proposto) De Angelis tende ad evitare automatismi e ripetizioni, è chiaro che (almeno in questo testo) dopo “una / promessa” non vi saranno altri a capo della stessa specie (o, se ci saranno, saranno fisicamente distanti: in altre poesie, a distanza di molti versi ecc.).
“Amare la spaccatura”, allora, come dice De Angelis, significa più o meno: amare le soluzioni stilistiche che ci restano, che non sono state contaminate da ciò che noi rifiutiamo (o, aggiungiamo noi, che in qualche modo sono state “salvate”); amare in somma la lingua che abbiamo, quella lingua che riusciamo a sentire come solo nostra, incontaminata, magari non bella ma nostra e incontaminata:
non è musica d’angeli, è la mia
sola musica e mi basta
sembra dirci De Angelis. Non è trascurabile che proprio un modo stilistico tipicamente sereniano (l’a capo “questo / essere”) si ritrovi in De Angelis: evidentemente De Angelis è riuscito a, come si usa dire, riconoscersi in Sereni, e quindi può apprendere e accogliere modi stilistici da lui; mentre probabilmente la sua reazione nei confronti di Eugenio Montale è di pura nausea. Il che non significa che De Angelis provi effettivamente nausea per la poesia di Montale, o che lo consideri un cattivo poeta, né significa che i lettori di De Angelis debbano provare nausea per Montale e viceversa; signfica solo che, nel momento in cui si mette a scrivere, De Angelis proverà nausea per gli eventuali “montalismi” che potranno uscirgli dalla penna, e li cancellerà; mentre sarà propenso ad accettare in ciò che scrive la presenza di “serenismi”.
Che cosa tiene insieme un verso. Non volevamo polarizzare l’attenzione di tutti su Milo De Angelis, anche se è sicuramente un poeta importrante e meritevole di attenzione (e durante gli anni Settanta ha provocato e un po’ anche guidato una sorta di rivoluzione nella poesia italiana). Abbiamo portato l’esempio di De Angelis sia perché il suo atteggiamento ci sembra particolarmente radicale, sia perché avevamo a disposizione un suo testo teorico (quello citato all’inizio). Di solito però, quando si comincia a parlare di come si fanno i versi, non si comincia dall’a capo (cioè dal punto di vista B), bensì proprio dalla domanda: che cosa tiene insieme un verso? (punto di vista A). Ora quindi affronteremo questa domanda.
Semplificando parecchio si può dire che un verso è tenuto insieme da:
1. forma metrica e ritmica;
2. forma sintattica e di senso;
3. forma fonetica.
Di tutto questo cominceremo a parlare quasi subito. Ma prima continueremo a parlare di altre cose. In particolare parleremo della strofa.
La strofa, questa sconosciuta. Di solito i manuali di metrica descrivono prima tutti i vari tipi di versi, poi i tipi di strofe, infine parlano dell’a capo. Noi ragioneremo all’incontrario e non per spirito di contraddizione ma perché, veramente, il ragionamento all’incontrario è il più semplice e sensato.
Che cos’è una strofa? Una strofa è un gruppo di versi separato da un altro gruppo di versi mezzo di una riga bianca. Un breve testo in versi non interrotto da righe bianche è definibile come una strofa isolata. Ora, se tra un verso e l’altro sono possibili forme di interruzione sintattica anche piuttosto violente (“una / promessa”), ciò di solito non avviene con le strofe. In somma, la strofa è spesso la vera e propria unità di costruzione della poesia.
Così come noi non parliamo (da una certa età in su) con parole isolate, ma con frasi, e pertanto pensiamo che l’unità di costruzione della prosa sia la frase, più che la parola; analogamente quando pensiamo poesia difficilmente pensiamo a versi isolati: è più facile che ci venga in mente un gruppo di versi, qualche frase: una strofa, in somma. Queste frasi saranno già provviste, probabilmente, di un loro movimento ritmico: probabilmente, se le pronunciassimo ad alta voce, già ci sentiremmo i versi (magari con esitazioni, scelte aperte ecc.).
Quindi: bisogna pensare alle strofe.
—
(1) Milo De Angelis, nato nel 1951, insegnante di lettere, ha pubblicato alcuni volumi di poesia: Somiglianze (Guanda, 1976), Millimetri (Einaudi, 1983), Terra del viso (Mondadori, 1985), Distante un padre (Mondadori, 1989); un volume di prosa: La corsa dei mantelli (Guanda, 1979); e una raccolta di saggi: Poesia e destino (Cappelli, 1982). (I volumi Guanda e Cappelli sono ancora trovabili nei circuiti delle librerie a metà prezzo.) Tra il 1977 ha fondato e diretto la rivista di poesia Niebo. Ha tradotto dal francese Blanchot, Baudelaire, Maeterlink, De Vigny, Drieu la Rochelle e dal latino Ovidio, Virgilio, Lucrezio, Claudiano.
E’ uno dei poeti più importanti della sua generazione. Il suo primo libro, Somiglianze, ha scritto Maurizio Cucchi, “è uno dei libri che hanno aperto una nuova stagione poetica e hanno contribuito a definire una generazione” (Poeti italiani 1945-1995, a c. di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Mondadori 1996, p. 889).
15 marzo 2013 alle 15:59
Uh, che bella cosa! Ho letto solo l’inizio (purtroppo non riesco a leggere troppo dallo schermo: sono un po’ pleistocenico), ma al più presto me lo stampo me lo leggo tutto.
E fin dove ho letto, mi è sembrato utilissimo.
Grazie.
15 marzo 2013 alle 16:20
Ciao Giulio, i manuali di metrica saranno forse un po’ noiosi (non per me) ma credo che ogni ragionamento sulla metrica non possa prescindere dalla metrica tradizionale, dove l’a-capo era determinato dal raggiungimento di una ben definita misura del verso, dove la rima era esattamente dove doveva essere, dove poteva anche non esserci lo spazio bianco tra due strofe perché era chiaro comunque dove finiva la strofa ecc. La poesia era prima di tutto un fatto orale (ritmo, quantità di sillabe, ripetizioni di suoni), oggi è un fatto visivo-grafico, infatti tu stesso dici che il verso è un andare a capo prima che finisca la pagina, ma se scrivi su una pagina molto piccola forse la cosa non vale, e neanche se scrivi versi lunghissimi come, per esempio quelli di Attilio Bertolucci. Per capire come si sia arrivati al paradosso di dover andare a capo in maniera “significativa” nella poesia moderna (a partire dalla fine dell’800) mi sembra non inutile considerare in che modo sia nata questa esigenza. Questo permetterebbe anche di considerare che il verso di Sereni “non è musica d’angeli, è la mia” è un classico endecasillabo (dal ritmo molto riconoscibile) all’interno di un testo che vede molti endecasillabi e settenari regolari alternati a pochi versi meno regolari, considerazione che non toglie nulla alla forza dell’enjambement ma può suggerire un ulteriore piano di lettura del verso, e della poesia.
15 marzo 2013 alle 17:21
letto con grande piacere e attenzione.
cb
15 marzo 2013 alle 18:07
Dico anch’io, uh che bello! E: grazie Giulio! Quando faccio scrivere ai bambini poesia, dico che le poesie sono sorelle delle canzoni, e che anzi prima c’erano solo le canzoni (e non le poesie: il “fatto orale” di Gianni) e che insomma le poesie all’inizio erano canzoni (“Iliade” e “Odissea” per esempio). E che quindi quell’andare a capo ha un senso musicale. Li faccio battere le mani, quando vanno a capo. O cinque secondi contati sulle punte delle dita di pausa. Così capiscono concretamente. Fanno musica. Una certa linea, musicale poi (cerco di farglielo sentire) o si reduplica con gusto di ripetizione (quente “cose” nella poesia sono gusto perverso per la ripetizione: le rime, per esempio) o gusto della spezzatura, dello “choc”, della rasoiata. C’è l’incedere sicuro e naturale e baldanzoso, o la zoppìa, o un miscuglio dei due. La poesia dunque è cammino. Danza. Cadute, piccole cadute, ed equilibri sulle punte. Esistono anche le poesie con gli stivali, oltre che quelle a piedi nudi…
15 marzo 2013 alle 18:36
Altro elemento. Quando De Angelis parla di “una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni”, si capisce da che tipo di “passività” (forse molto “lombarda”?) derivi il lavoro di Caludio Salvi comparso come Tagebuch in Vibrisse. La dettatura “dal di fuori” – sì ma da dove? da quale “voce”? (la scrittura “automatica” di Yeats) è questo tema dell’aggiramento dell’ego tipica dell’arte poetica. L’ego cerca di tacere per “ascoltare”. Scrivere non è propriamente scegliere, ma “fare scegliere” (qualcosa dentro di noi? Una sotterranea sensibilità? L’inconscio? l’Altro?)
15 marzo 2013 alle 21:21
Molto interessante, mi piace. Insegnare poesia è difficile, oggi. Ci provo, ci provo, ci provo.
16 marzo 2013 alle 07:00
Gianni: la “puntata” che qui ho riproposto va considerata per quel che è: un frammento di lavoro didattico. Per il resto si può rimandare a: Aldo Menichetti, Metrica italiana, edizioni Antenore: un monumento di settecento pagine nelle quali c’è, e spiegato al meglio, praticamente tutto.
Per chi volesse qualcosa di più maneggevole, c’è la Prima lezione di metrica, dello stesso Menichetti, appena uscita per Laterza (e presentata nel catalogo, nella pagina alla quale vi rinvio, con un claim demenziale): che peraltro è sostanzialmente una prima lezione di prosodia.
17 marzo 2013 alle 15:17
Interessante quel poeta latino, Ovidido, deve avere esordito di recente…
17 marzo 2013 alle 18:11
Sulla metrica, ho trovato interessante P.G. Beltrami, Gli strumenti della poesia (http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=24055), che è una sorta di edizione minore del più corposo e completo La metrica italiana (http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=23235).
L’ho solo sfogliato in libreria, quindi non so come sia; ma si presenta interessante un volume della Carocci dedicato specificamente alla metrica italiana: http://www.carocci.it/index.php?option=com_carocci&task=schedalibro&isbn=9788843054213&Itemid=72
17 marzo 2013 alle 21:47
Consiglio di non perdere gli ultimi libri di Milo De Angelis – “Il tema dell’addio” per esempio, una delle opere poetiche più straordinarie e strazianti dei nostri tempi.
Vorrei anch’io segnalare un libro per me importante: “Scrivere in versi” di Gabriella Sica. Ogni tanto un po’ “bamboccesco” e divulgativo, e tuttavia importante e godibile per tanti motivi – sul senso del poetico – “La poesia salva la vita” di Donatella Bisutti. Ultimo: “Il manuale del poeta” di Santagostini.
Quando insegno poesia ai bambini, non posso fare a meno di far conoscere loro la straordinaria, amara, geniale, fiabesca, poesia di Vivian Lamarque.
18 marzo 2013 alle 05:03
Ho corretto, Massimo. Grazie.
18 marzo 2013 alle 05:09
Sul libro di Gabriella Sica, questo il giudizio di Pier Vincenzo Mengaldo: ”Gli studenti, a cominciare da quelli della Sapienza di Roma dove la Sica insegna, sono vivamente sconsigliati dall’adoperarlo; e così i partecipanti a un corso di poesia o scrittura creativa che la medesima sta tenendo e che dovranno sciropparsi come manuale d’uso il libro in questione. […] Raramente mi è capitato per le mani un libro di pari pretese, e teoricamente vocato alla precisione, così farcito di strafalcioni tecnici e culturali” (Belfagor, fascicolo estivo, 1996).
18 marzo 2013 alle 12:09
Uh, oh, grazie Giulio, a buon rendere. Chissà quali sono gli strafalcioni del lbro della Sica. Mengaldo non ne cita nemmeno uno! Sarebbe interessantissimo saperlo; ecco a volte il limite di una “stroncatura”; che non è un momento di crescita, di accrescimento culturale… tu hai letto il libro?
18 marzo 2013 alle 12:20
… mi emendo: è nel sunto trovato in rete che gli “strafalcioni” non figurano; nell’articolo di “Belfagor”, Mengaldo avrebbe elencato tutti gli “errori” del libro della Sica. Che risponde per le rime (ah ah): ”E’ rimasto talmente accecato dal mio libro, da vedere solo rosso. E vedendo tutto rosso, e volendo solo e a tutti i costi demolire il mio libro, costi quel che costi, vede errori dove non ci sono, e se non ci sono se li inventa, isolando e arrivando a modificare inconsciamente o scorrettamente le mie frasi. Addirittura nella foga, fa lui stesso due o tre errori”.
Le chiedono: Come spiegare i biasimi di ”Belfagor”?
E lei risponde: ”Non lo so, forse ho infastidito qualcuno. E poi non ho chiesto il permesso a nessuno per occuparmi di una materia di cui solo pochi, che si considerano in possesso della verità scientifica, hanno il diritto in Italia di occuparsene. Per di più l’ho fatto non dalla parte della metrica, una scienza astratta, ma dalla parte della poesia. Evidentemente Mengaldo ritiene che i poeti le cose serie devono lasciarle fare ai critici”. Appassionante!
19 marzo 2013 alle 17:56
Lessi a suo tempo il pezzo di Mengaldo, veramente minuzioso (o pedante, come dir si voglia). Ho un ricordo di una replica (in un quotidiano? chi si ricorda) della Sica, che però non entrava nel merito (l’avrà fatto altrove).
20 marzo 2013 alle 11:47
i miei occhi ipnotizzati dallo schermo…leggo troppo, opto per il cartaceo o poi torno. Vorrei trovare il libro ‘poesia e magia’, forse indica la strada…un saluto Giulio
20 marzo 2013 alle 15:34
“Poesia e magia” di Anita Seppilli, già pubblicato da Einaudi, è ora ripubblicato da Sellerio.
22 marzo 2013 alle 09:11
grazie Giulio
6 novembre 2016 alle 01:30
E pensare che io dico sempre che “poesia non è mettere parole punto e a capo”, ciò che purtroppo fanno molti sedicenti poeti. La poesia è di per sé, oggi, qualcosa di indefinibile, io riesco soltanto a dire che il poeta è un esteta: è l’esteta del suono e del senso.