“Pigra giovinezza”, di Valter Binaghi, 16 (fine)

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La canzone del sole

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Luglio 2011

I

Appena le undici ed è già bollente la sabbia dei Bagni Sabrina. Ho le scarpe da ginnastica in mano e cammino a piedi nudi perché detesto zoccoli e infradito, ma cammino in punta, per offrire meno presa possibile. Senza troppa scena, però, visto che le file di sdraio sono già discretamente popolate, anche se non siamo ancora proprio in alta stagione.
Valeria cammina davanti a me, scalza anche lei, ma senza provare nessun fastidio, in quel corpo sono passate ben altre vampate e brividi, tutte le escursioni termiche del dolore e dell’angoscia nelle ultime settimane (io lo so, io c’ero), e adesso è come roccia, mi vien quasi voglia di aggrapparmi a lei, tanto sembra forte. Cammina col suo passo lento e naturalmente elegante, la sagoma fin troppo snella adesso, il copricostume bianco, svolazzante, si ferma stagliandosi tra me e il mare, immobile come un airone affacciato a un paesaggio sconosciuto. Si volta appena, il capo sopra la spalla, gli occhi ridenti a vedere che arrivo, il profilo perfetto e la testa rasata, la principessa egizia uscita dalla tomba, la magica parola sulle labbra che ha ingannato Seth, il dio della morte.
Prendiamo posto al 36 e 37, armeggio con l’ombrellone, non si apre subito ma alla fine si, è tre giorni che ho prenotato, ma è la prima volta che ci veniamo. Fino a ieri notte stava troppo male, lei. Disteso accanto, tenendole la mano, sorreggendola fino al bagno per vomitare, raccoglievo parole sconnesse in cui non comparivo mai. Mi dispiaceva un po’, che tra i frammenti di un discorso interiore spezzato dagli analgesici non si udisse mai il mio nome. Parlava di Sandro, il suo primo marito, o meglio parlava con lui, lo chiamava, lo scacciava, e di strane case d’infanzia turbate dall’orrore, e ripeteva il titolo di un vecchio film. Poi ho capito che stava lottando non più con la malattia, come all’ospedale sotto i ferri del chirurgo, ma contro la persecuzione del passato, i rimorsi e i rimpianti che ti assalgono se fuori dal sepolcro provi a pensare di ricominciare da capo. Le bestiole che hai a lungo sfamato e che t’inseguono, i pungiglioni che hai strappato fuggendo dallo scorpione, e ancora ti avvelenano la carne. Ho capito ch’era anche per me che lottava, vuole essere libera per me, e sono rimasto in silenzio. Adesso sembra così leggera, mentre scioglie i cordoni della tunica e la lascia cadere sulla sdraio. Porta un costume intero, lilla sulla pelle diafana, l’iris accanto al giglio.

«Ti andrebbe qualcosa di fresco? Una bibita?»
Lei è già distesa, con gli occhiali da sole. Mi sorride, certo che ne vuole. Il suo corpo è disidratato, le labbra arse. Ora andrò in giro a cercarle qualcosa di buono. Cocco fresco, per esempio, so che l’adora. E da bere. Non ho mai avuto voglia di servire, come in questo momento. Forse sì, quando Lisa era piccola. Portavo a casa carabattole dal mercatino e improvvisavo davanti a lei ogni sorta di stramberie, per strapparle un sorriso. Il gioco che le piaceva era quello dello scultore. Le mi metteva le manine sulla faccia, e io assumevo ogni volta una smorfia diversa, arricciando le labbra, risucchiando o gonfiando le gote, stortando la bocca e strabuzzando gli occhi, dandole l’impressione d’essere lei a fare di me il mutante, l’ermetica sostanza docile alle sue dita.
Ma adesso è diverso. Ci vuole un uomo armato, per servire una regina. Mi guardo dentro, e mi pare di non avere un granché come attrezzatura militare, se non un coltello per tagliare a mia volta le liane che mi tengono impigliato agli anni peggiori. Il comandamento della grandezza, istillato da una madre divorata dall’ambizione, la missione impossibile di realizzare se stessi (istruzione sicura per rendersi infelici) ripudiando l’avere borghese per l’essere intellettuale, e buttare sangue nell’opera d’arte che vampirizza una vita, prima di capire che tra essere e avere era meglio amare.

II

Alla cassa del baretto di spiaggia c’è una coda di venti persone almeno, prima di me un bimbo pestifero aggrappato alla madre che tenta inutilmente di parlare al cellulare. Le urla nelle orecchie, pretende attenzione, si avvinghia alla sua cintola come se volesse sradicarla da quel luogo fastidiosamente pubblico e ripiantarla nell’esclusivo giardino d’infanzia dove il piccolo satrapo legifera come Geova in persona. La madre a un certo punto mi lancia uno sguardo disperato, che mi pare una richiesta di aiuto. Mi curvo sul bambino, fino a un palmo dal suo viso, e quello immediatamente si zittisce. Sfodero uno dei ghigni mostruosi dal repertorio antico, quello che strappava applausi a Lisa, e lui ha un sussulto di puro terrore. Mi metto il dito sulle labbra: il bimbo annuisce furiosamente. Stattene zitto un quarto d’ora almeno, ranocchio, altrimenti ti mangio in un boccone.
Più avanti c’è un gruppetto di teens tutte uguali: capelli raccolti dietro la nuca, bikini sgargianti monocolore (fucsia, giallo e verde pisello) e chiappette sode.
«Tu come lo prendi? Io pistacchio e fragola»
«Fragola anch’io. Ci sarà il gusto puffo?»
«Basta chiederglielo. Scusi c’è il gelato puffo?»
Quella che ha urlato a squarciagola in direzione del gelataio dev’essere un leader naturale. Lineamenti più duri, movenze tornite e consapevoli. Tredici anni al massimo. Le altre la guardano, ammirate e intimorite della sua intraprendenza. Non è la più bella, ma ha il potere della parola, che farà di lei una giornalista d’assalto, o solo un’allenatrice di basket.
«Il puffo non c’è signorina» grida di rimando il galletto dietro al bancone. «Abbiamo la pigna. Va bene lo stesso?»
Risate sommesse in coda, mentre le tre fingono di vergognarsi.
Lo spettacolo della giovinezza risveglia i sensi e intenerisce il cuore, se non sei ancora un macinino azzoppato nella rimessa: non è la più alta forma della bellezza direbbe Platone, ma è di lì che siamo entrati, tutti quanti, nella primavera eterna del desiderio.
«Sono ancora bella?» mi ha gridato Valeria l’altra notte, piegata in due sul lavabo, dopo che i conati l’avevano rivoltata per un quarto d’ora. Mi ha guardato con cattiveria, come se mi odiasse perché ero lì ad assistere al suo scempio, più di tutto odiando se stessa per non poterne fare a meno: «Ti piaccio ancora adesso?» il viso impastato di sudore e lacrime voltato verso di me, a sfidarmi con il suo strazio, con quella volontà di peggiorare e distruggere che ti prende quando il dolore è troppo, e vorresti solo farla finita.
La coda si riduce lentamente, ancora tre persone prima di me.
Al tavolino sulla sinistra, ci sono due giovani donne, la bionda e la bruna, sul tavolino un libro. Discutono di quello, compostamente, ma non senza animosità:
«Non è che mi attira tanto, scusa» dice la bionda: «uno che va a raccontare proprio dei suoi tradimenti, con moglie e amante, nomi e cognomi» È graziosa, ha un musetto volpino e capelli biondi raccolti sotto un cappellino da baseball.
«Non capisci» dice l’altra, più filiforme e nervosa nei movimenti, una capigliatura maestosa e nerissima che scende a metà schiena e l’avvolge quasi come un manto: «È il suo coraggio, la verità spietata con cui si offre al giudizio altrui. La ferita inferta, la colpa senz’alibi, senza cercare assoluzioni dal lettore. È un’operazione che ricorda la body art»
Vado avanti di un passo, e intanto mi chiedo se una verità spietata è proprio vera. Quando fotografi un uomo, cosa vedi? Un cadavere di passato, la spoglia vuota, non l’uomo. L’uomo è quel che spera. E cosa può sperare se non fa che guardarsi allo specchio? Quanto a me, il minimalismo in letteratura mi ha reso persino peggiore di quel che ero. Chi vuol vivere in un mondo popolato dai personaggi di Raymond Carver?
«Cocco fresco se ne ha. Poi una lattina di the freddo e un succo d’ananas»
Quando torno alle sdraio non trovo Valeria.
È sul bagnasciuga, che mi fa segno di raggiungerla.
«Si che mi piaci» le ho risposto l’altra notte, con altrettanta rabbia. Come una lupa che si strappa la zampa per uscire dalla tagliola, come un’amazzone coperta dal sangue di un duello. «Si che mi piaci» le ho urlato una seconda volta, stringendola a me e mischiando le mie lacrime alle sue. Il mio amore ti farà bella, di nuovo. E ci crederai, perché io ci credo.
Entriamo tenendoci per mano, e quando l’acqua arriva alla cintola e ti mozza il respiro, io l’attiro a me e affondiamo pian piano, lei cinge la mia schiena con le gambe, aderisce a me interamente, e si lascia cullare.

III

Mentre Valeria si è riseduta nella sdraio e tu cercavi le sigarette nei pantaloncini, ti è trillato in mano il cellulare. Lisa.
Si è trasferita da sua madre quando voi due siete partiti per il mare qualche giorno fa, e tu hai raccomandato a Marta di provarci fino all’ultimo a farle cambiare idea anche a costo di apparire sgradevole, ma qualcosa ti diceva che se ne sarebbe ben guardata. Adesso che ha ritrovato l’affetto di sua figlia, non sono le distanze a farle paura. La partenza era fissata per oggi.
E infatti: «Sono in aereoporto», dice.

Ecco, l’ha fatto. Che ti credevi, che cambiasse idea? I tuoi filosofi, le tue prediche. Tutto inutile. Sei molto orgoglioso di avere appeso il tuo pupazzo in solaio, da quando Cyrano ha scoperto che il corpo cresce pian piano intorno all’anima, prima o poi avranno la stessa forma e smetteranno di odiarsi. Ma questo non servirà a Lisa. Quante cose sai, e resteranno chiuse nel fondo del tuo cuore, mentre il mondo continuerà ad andare in rovina a modo suo, e Lisa imparerà come hai fatto tu, lasciando pezzi per strada.
Ora non devi pensare a cose come lei sola in un monolocale a Londra, la fatica e i soprusi che le toccherà sopportare da immigrata in un paese straniero, ma al fatto che è là perché vuole, e in questo strappo doloroso che ti ha dato c’è un anima che prende finalmente il volo. Devi pensare a Valeria, che ha chiuso gli occhi, sfinita e felice, sulla sdraio, non prima di aver gustato il cocco fresco come un bambino goloso, e devi anche pensare al bimbo pestifero, che di nuovo strepita due file più avanti, e alla madre che di nuovo ti ha lanciato uno sguardo implorante.
Ti alzi, e vai a scoprire che c’è.
La barchetta che il bimbo aveva sul bagnasciuga, l’han portata via le onde.
Lisa se la sta portando via un aereo delle British Airlines. L’ultima cosa che le avevi detto, prima di salutarla, era che il percorso che tocca compiere per trovare se stessi è quello tra mente e cuore, e non c’è lavoro, successo o fidanzati che tengano finché non hai trovato il modo di far comunicare quei due. Ma non è che ci speravi molto nelle tue pillole di saggezza. Alla sua età ci avresti riso sopra. Lei almeno non l’ha fatto, e ti ha dato un bacio con gli occhi lucidi.
Madre e bimbo ti seguono speranzosi, mentre sei già immerso fino a metà gamba, ma la barchetta è sempre più lontana, inavvicinabile, finché un motoscafo vi sfreccia davanti a una ventina di metri, e dopo il suo passaggio è solo schiuma, la barchetta non si vede più. Scoppia a piangere il bimbo, mentre la madre rassegnata lo trascina all’ombrellone gettandoti uno sguardo di rimprovero («ma come, era così facile…»), e tu resti lì a guardare senza troppo dispiacere il naufragio della barchetta e della tua inutile saggezza.

15 Risposte to ““Pigra giovinezza”, di Valter Binaghi, 16 (fine)”

  1. manu Says:

    pag 157 paragrafo I ottava riga del 5° capoverso
    “Le ” mi metteva le manine sulla faccia, e io

    per me il romanzo finisce con l’ultima riga del primo paragrafo. non so. mi pare di non aver bisogno del resto. mi pare che lì, nella seconda parte del primo paragrafo, ci sia già tutto.

  2. E Says:

    Però quest’uomo perde il pelo ma non il vizio…alla fine si “illumina” ma continua a osservare le persone e dare subito giudizi preconfezionati (“farà di lei una giornalista d’assalto o una giocatrice di basket”, un marito incapace di impanare una cotoletta”, “un commercialista in meno non potrà farci che bene ecc) grrrrrr…!!!
    comunque potrei stare qui ore a criticare, ma la verità è che mi è piaciuto “un sacco” …(scusate se non uso termini tecnici) forse per la storia d’amore, o Lisa, o i dibattiti con gli alunni.. (lo so, detto da me non sembra un complimento!!)

  3. manu Says:

    dimenticavo…
    grazie a valter e a giulio per l’opportunità di lettura (e scusate le chiacchiere :-))

  4. Dylan's Mr Jones Says:

    Il romanzo è davvero bello nelle pagine in cui l’io narrante, per così dire, è in scena da solo (mi scuso per il linguaggio poco tecnico, spero che si capisca cosa intendo), con le sue riflessioni, i suoi ricordi, i conti con se stesso e con la sua coscienza. (Vale a dire che il romanzo è bello quasi sempre). Il momento più alto e davvero commovente, per me, si trova alle pagine 37-39 (la sequenza dove lui vede sua figlia cantare e quel che segue). Il personaggio è accattivante. A dirla tutta, si tratta di una figura di padre in cui piacerebbe potersi identificare.
    Invece, mi sembrano meno riusciti i riferimenti all’attualità (gli accenni all’anoressia, per dire, oppure il personaggio di Monica e il suo ambiente): sono elementi che mi paiono un po’ di maniera, tirati via in modo frettoloso e senza preoccuparsi di evitare i cliché. Forse l’effetto è voluto e serve a sottolineare l’estraneità dell’io narrante alla realtà contemporanea, il suo essere un “pesce fuor d’acqua” in un paese che non gli appartiene più e per il quale, in fondo, ha perso interesse?
    Mi piacerebbe trovarlo in libreria, questo romanzo. Non per altro, ma lo vorrei regalare e il fascicolo formato A4 non mi farebbe fare bella figura 🙂

  5. Luca Says:

    “Il mare immobile come un airone affacciato …” ???

  6. manu Says:

    dopo il mare c’è una virgola. il soggetto è valeria

  7. valter binaghi Says:

    Sono lontano da casa e mi collego solo ogni due o tre giorni a un Internet Café.
    Ora che il romanzo è finito, mi piacerebbe sapere i commenti di chi l’ha seguito fino in fondo, e ringrazio chi li ha già comunicati.
    Manu, hai vinto la tua scommessa?

  8. manu Says:

    valter non so, ti dico questo.

    una sensazione che ho avvertito ripetutamente leggendo ‘la pigra’ è che qui si ostenta la pancia ma a governare è la testa, una testa ammaestrata e ammaestrante, di uno che quando parla più che ascoltarsi, si guarda. questo signore guarda dall’alto le donne, si, ma fa cilecca all’esame di cattiveria pura. cosa che sta nell’evoluzione di cui si narra, ma il punto è proprio questo: prima di essere – diciamo così – migliore, questo tizio era appena un po’ peggiore. ovvero, non mi ha mai infastidito fino in fondo, così come non ho provato alcuna sincera partecipazione per la sua ‘presa in carico’ del dolore di valeria con annesso amore maturo. forse una vera metamorfosi non c’è.
    a questo proposito mentre scrivo mi viene in mente il commento di qualcuno che aveva usato la parola ‘esecrabile’. mi chiedo se non ci avrebbe guadagnato, ad esserlo sul serio.

    non c’è mai battuta d’arresto nella restituzione della successione degli eventi, c’è coerenza, tutto fila liscio, e alla fine si compie.
    ma la frase che più mi è piaciuta sta nel cap. 13, quando dice a maura: “dimmi qualcosa che non so”. lì, forse, ho sentito un tocco di blues.

  9. manu Says:

    e ora quello che mi è piaciuto di meno, ovvero, ciò che ho sentito come ingombrante e che credo sia il motivo per cui hai scritto questo romanzo. forse l’ispirazione centrale.
    è il passaggio dal desiderio (infantile) di ottenere un riconoscimento immediato – chiamiamolo un premio terreno – alla condizione di serenità e anche di gioia che può dare la scelta di fare il bene, vivere ed agire qui ed ora superando la debolezza umana.

    questo, come dire, insegnamento, viene fuori in modo forte, e non so bene se “l’ingombro” mi è dato dal genere narrativo scelto per dire questa cosa, il romanzo (avrei preferito il racconto? si, poteva essere sufficiente), oppure se avrei voluto leggere solo la storiella, senza tutto quello sragionare intermittente che sembra più suggerire un aiuto alla comprensione che far parte veramente dell’esigenza narrativa. cioè. ti racconto una storia. l’intento moraleggiante (perchè questo è quello che ho avvertito) lo lascio tra le righe, che emerga senza dirlo.

    insomma. mi sembra che la voglia di ammaestrare prevalga sull’intento artistico. questo mi fa pensare alle fiabe. perchè non scrivi fiabe? sono tanto fuori strada?

    detto questo, ora indosso il casco e aspetto le randellate.

  10. valter binaghi Says:

    Rileggendo Borges ho trovato questa chicca:
    “A differenza di coloro che hanno letto romanzi, non si vedeva mai come personaggio artistico”
    Che è un po’ la sintesi del bovariswmo (malattia incurabile di cui molti di noi soffrono e io in massima parte) in due righe.
    Come dire che l’unica vera metamorfosi che il romanzo produce riguarda chi lo legge e chi lo scrive più che il personaggio, e non è detto che sia migliorativa del soggetto. Non siamo diventati un po’ tutti pedine consapevoli della società ridotta a spettacolo?
    E in ogni caso, è evidente che qui non ho resistito alla tentazione di creare un doppione che registrasse la mia educazione sentimentale ma volendo esserne il soggetto e insieme il pedagogo l’ho continuamente commentata anzichè limitarmi a metterla in scena.
    Il punto di maggiore verità, che illumina il resto, per me è il dialogo tra il protagonista e il suo Mefistofele-psicologo nel capitolo 15. Quel che provo a dire è che la mutazione è irreversibile, questo sdoppiamento continuo tra l’attore e il regista di sè stessi ha ormai assunto i connotati di quello che Giulio Mozzi forse chiamerebbe un “male naturale”, mi serviva dirlo almeno una volta in un romanzo, per me psicologicamente e poeticamente necessario.
    Dopo di questo (che in effetti non ha trovato un editore), sono tornato a storie d’avventura, che l’editore l’hanno trovato in un attimo (la prima esce a novembre con Newton Compton).
    L’unico altro mio libro che somiglia un po’ a questo (ma il personaggio registra una catarsi ben più drammatica, quella che mi ha salvato la vita) è “Devoti a Babele” (Perdisa Pop 2008).
    Manu, ti ringrazio per l’acutezza e il tempo che mi hai dedicato. Una sola domanda: ti occupi di letteratura per professione?

  11. manu Says:

    ecco la randellata. lo sapevo. peggio del previsto. farò riparare l’ammaccatura.

    hai presente quando arthur fonzarelli, detto fonzie, doveva dire ‘ho sbagliato’ e non riusciva ad andare oltre a: “ho sbbbbb?”
    ecco adesso devo scrivere la mia professione.
    io faccio l’ammmmmm.
    faccio l’ammmmminnnnistrrr.
    faccio l’amministratore di condominio! uau! si. ho uno studio di amministrazioni condominiali. (e non mi far dire altro) 🙂

    ciao e grazie a te.

  12. vbinaghi Says:

    Amministrare condomini è un buon lavoro: si può riuscire nella difficile impresa di mettere daccordo proprietari ed inquilini.
    Occuparsi di letteratura per professione è cosa più insidiosa, per il portafoglio e per l’anima. Per esempio c’è gente che tuona sui quotidiani nazionali contro la decadenza delle patrie lettere e poi deve mendicare voti a nome del suo editore o di sè stesso per il Premio Strega. Meglio l’amministrazione di condomini, di sicuro.
    Anzi, meglio di tutto l’orto. Ieri ho messo via nel freezer quasi due chili di fagiolini coltivati con le mie mani. Oggi ho fatto il pesto col basilico che ho visto crescere, e dopo Ferragosto è giorno di marmellata di prugne. Il terrazzo è pieno di pomodori ciliegini, sul fico vengono a beccare i merli.
    Buone vacanze.

  13. Isa Says:

    Buongiorno, Valter. Sono andata qualche giorno in montagna e leggo solo adesso gli ultimi due capitoli. Pigra giovinezza “tiene” anche nel finale. Ha le caratteristiche che gli interventi hanno via via evidenziato.
    Non è letteratura.
    Ma mi ha coinvolta e commossa come gli aforismi letti a quattordici anni o come, alla stessa età, Guccini e Gaber.
    Trovo tanto della mia storia nel suo romanzo, anche se mi racconto a me stessa e agli altri con parole diverse. La sua “musica” è diversa; non invece le tappe e le riflessioni del protagonisata del romanzo, che ho riconosciute come anche mie.
    Grazie di averci regalato questo suo lavoro.

  14. vbinaghi Says:

    Grazie a te, Isa: visto che siamo così simili, diamoci del tu.

  15. Isa Says:

    Volentieri. Uso il lei perchè sono timida e molto lontana dal gruppo di Vibrisse, ma il tu è molto più bello: scioglie la lingua e scalda il cuore.

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