Cecilia Musella, “Linea della vita”, 5

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Linea della vita; parte seconda: Vigilie d’estate
di Cecilia Musella

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L’immagine qui sopra è un dettaglio di un’opera di Emiliano Ponzi.
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“Le rispondo che cerco di scrivere delle storie vere,
ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile
proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla.”
Agota Kristof, Trilogia della città di K

Cinque.

E’ un terzo piano nel dislocato quartiere di Laracinello, potrei comprarlo per 150.000 trattabili. Centocinquanta metri quadri divisi in cucina-soggiorno, quattro camere, doppi servizi, veranda, cantina e posto auto. C’è un ingresso angusto e un salone che forse sembra grande solo perché è vuoto tranne l’assembramento di un’intelaiatura di legno addossata a una parete insieme ad alcuni cestini e una cassetta di plastica riempiti con roba provvisoria o persino inutile.
L’agente immobiliare mi lascia girare per le stanze senza parlare. I bagni sono cromaticamente speculari, l’uno con ceramiche scure di una perfetta linea sferica, l’altro con i classici sanitari bianchi e un termosifone incassato in un cuneo della parete sotto la finestra. Esco sulla veranda, dove ci sono due vasi sistemati in successione, il primo svuotato, il secondo che erutta i rami recisi di una pianta. «Sto lavorando… ti ho detto che ti chiamo io dopo», bisbiglia l’agente al cellulare.

Sul tavolo della cucina abbiamo schierato il nostro armamentario ludico. Un orso e un coniglietto di peluche, un canarino panciuto, due pesciolini di plastica morbida che mi stanno fissando con i loro enormi occhi dipinti. La temperatura è alta già di mattina presto, non è il periodo ideale per iniziare lo svezzamento. Ma io ho solo un mese per dedicarmi a mia figlia e devo incastrare tutto nella compattezza disponibile di questo luglio afoso a Pomeria.
Amalia non facilita l’impresa. Rifiuta la novità delle pappine, la cucina di mamma è una baraonda di macchie rapprese sul pavimento e impiastricciate sotto le suole, di grumi parassitari su sedie e ripiani. Il massimo che riusciamo ad ottenere dalla bambina è qualche cucchiaio di semolino ingurgitato a tradimento con refrattari arricciamenti del nasino. Stesso trattamento ricevono la frutta omogeneizzata e i Plasmon. Amalia tiene a riposo i quattro dentini da roditore cresciuti sotto l’arcata malleabile delle gengive, e continua a ripiegare sul latte. Sulla parete incassata della cucina, l’arcaico quadro con la natura morta di fiori e insetti – che da bambina mi affascinava e repelleva insieme, con quell’inestricabile dedalo di zampette cheratinose – sembra un aruspice del cibo per l’infanzia che finirà nella pattumiera, marciume destinato al riciclo organico della raccolta differenziata.
La nonna è indulgente, giustifica tutto con nostri presunti errori di metodo. Danilo, sabotando le operazioni, interviene con frecciate che in teoria dovrebbero dare ragione a me: «E’ figlia tua, decidi tu», sibila tirando una stoccata all’interventismo saputello di mamma.
Quest’estate inauguro il nostro contrappasso: Amalia deve mangiare a tutti i costi, io digiuno senza accorgermene. In spiaggia, se con me non ci fosse la bambina, non s’indovinerebbe che sono madre. La pancia è scomparsa, la pelle è levigata e tonica. Sto cedendo all’euforia della linea ritrovata: ieri a casa di mamma ho trovato un vestito di quando avevo sedici anni e sono riuscita a entrarci dentro. Per nove mesi ho abolito il sale, i dolci, i carboidrati. Posso continuare a farlo, ormai ho saggiato la mia capacità di rinuncia. Su una rivista leggo di un’attrice americana che, persi i chili di troppo, ha fatto l’errore di rimettersi a mangiare in libertà ed è diventata obesa.
La lusinga di vedermi più magra è un incentivo potente. Agli uomini sono sempre piaciuta formosa. A Mirko, a Danilo. Ma da quando è nata Amalia ho traslato il mio sguardo su quello maschile, e adesso ad adularmi sono i miei occhi. Un modo come un altro per sbrigliare l’autolesionismo davanti a una valutazione ben più inflessibile di quella, permissiva e suggestionabila, dell’attrattiva sessuale. Il giudice incorruttibile sono io.
Le nostre ferie sono rilassanti e abitudinarie. Al mattino presto scendiamo in spiaggia, al lido. Sull’orizzonte l’aria, alleviata dal caldo, ha un colore ceruleo che digrada in biancastro prima del vago discrimine nella linea del mare.
Danilo rimane a letto, papà invece non perde una giornata. E’ un’occasione rara quella di avere la nipote tutta per sé, un piacere appena screziato dalle mie lamentele per il caldo o qualche altro accidente climatico.
Spesso discutiamo perché io non approvo la sua oppressiva attenzione a che la bambina non cada o si faccia male. So che è un implicito rimprovero nei miei confronti, come se io non fossi in grado di proteggerla. Come quando, per ogni contrarietà che riguarda la bambina, prorompe sicuro: «Diglielo ‘a mamma».
I nonni che viziano i nipoti, del resto, sono connaturati alla sociologia delle famiglie, dovremmo essere proprio noi ad abdicare? Nel terreno domestico di Pomeria, papà abbandona ogni ritegno e, gradualmente, inizia a tirare le redini nella sua direzione. Fa esattamente il contrario di quello che dico io a proposito dei pasti, l’esposizione al sole, il razionamento del ciuccio. E mi irrita quando esamina Amalia e poi valuta: «Questa diventerà come minimo magistrato…», esternando quella che io traduco in un’insoddisfazione paterna verso le occupazioni scelte da me e Ambra. Altro tarlo della nostra famiglia è che siamo nate tutte donne e quindi estingueremo la stirpe. Zia Sandra non ha procreato, papà e zio Raffaele hanno fallito nel concepimento dell’erede continuatore. Lauretta ha fatto un maschio, ma il doppio cognome non avrebbe lo stesso valore solenne. A nonna Laura e nonno Giacomo suonerebbe come una stravaganza moderna e basta.
Per riaffermare il mio ruolo con papà certe volte sono dura, e finisco per pentirmene. In casa ci hanno educato al rispetto dei genitori: continuo ad essere turbata assistendo a scene di figli adulti che alzano la voce con un padre anziano.
Ma con Amalia è più forte la risonanza dello sbaglio irreparabile. Io e Ambra siamo state troppo preservate. Nei miei ricordi dei pomeriggi alle giostre non c’è una discesa sullo scivolo, un gioco potenzialmente rischioso. La nostra componente pavida ha radice lì: all’improvviso abbiamo perduto il salvagente, ma non avevamo mai imparato a nuotare.
L’iperprotettività di papà verso la bambina è un fenomeno speculare. Il necessario antidoto non potrò essere io, la madre apprensiva, ma Danilo, che non soffre di ansie.
Papà insiste nella sua tesi: «Tu e to’ soru non vi siete fatte mai un graffio!»
«Pa’, se un bambino cade, mica dev’essere per forza una cosa grave».
Lui spiega: «Sì, ma siccome noi non vogliamo che Amalia si faccia niente… Manco… tanto», e stringe pollice e indice per figurarmi qualcosa di molto piccolo.
Recupero il biberon dell’acqua dalla sdraio prima che s’inzaccheri di sabbia: «Senti, io sto attenta. Ma quando inizierà a camminare cadrà, è normale. Non possiamo farci niente.»
Papà ha un moto repentino, ira placata da una matura bonomia: «Una volta sola. Mi sei fuiùta dalle mani e hai attraversato la strada, così». Mima l’immagine stendendo le braccia, srotolando nuovamente l’asfalto e i miei piedi che correvano, infrangendo il divieto. «Davanti a casa da’ nonna.» Scosse la testa, riflettendo su quella distrazione che non riesce ancora a giustificare.
Sorrido: «Ma poi non è successo niente, papà».
Invece, oggi, mentre rientravamo dal lido, un autobus stava per travolgerci. Ero pronta ad attraversare la strada con Amalia nel suo passeggino, e una chiazza blu ha spostato l’aria oscurandoci la facciata di villa Calò. Al posto delle finestre ad ogiva e le pareti rossastre era spennellato il fianco ferroso e blu del trasporto comunale.
Ho sentito un rinculo, il corpo e l’appendice del passeggino risucchiati all’indietro. Era papà che ci strattonava bloccandoci dentro la striscia ghiaiosa del Lungomare.
Mentre lui riferisce l’episodio a mamma, io ammutolisco. La paura mi ha inibita, guardo le braccia e c’è l’increspatura della pelle d’oca. Mamma mi dà una pacca sulla schiena, come quando va di traverso un boccone: «Basta, ché non fu ‘nenti».
«No, sono un disastro, questa bambina non lo so come mi cresce».
Lei mi stringe un polso, ha gli occhi seri: «Ma stai ‘zanniando? Non ho visto mai ‘na figghiòla più curata di questa. Non lo pensare nemmeno, storticedda.»

L’acqua bolle e spengo il fornello. Verso il liquido bollente nel biberon, poi arrotolo la carta velina a imbuto e lascio cadere tre cucchiai di cereali in polvere. Gli alimenti per l’infanzia, di cui Danilo denuncia continuamente l’astuzia commerciale, sono stati progettati per le esigenze di velocità delle mamme contemporanee. Durante la gravidanza avevo i miei buoni propositi. Allattare per almeno sei mesi, poi preparare in casa tutti i pasti dello svezzamento. Il lavoro mi ha dissuasa dalla missione naturalista. Son dovuta scendere a patti con il mercato, e anch’io faccio la fila al supermercato con il carrello tracimante di vasetti e bustine colorate.
Mamma è un’ottima cuoca, io in cucina non mi spreco. Danilo, cresciuto con una madre altrettanto poco casalinga, casca male. Ora che c’è Amalia scherza: «Tra qualche anno ci mettiamo insieme ai fornelli e finalmente qua si mangia ‘bbuono.»
Io invece ci penso seriamente. Che tipo di mamma sarò se non mi sono mai applicata nella cura di una coppia, di una famiglia? Forse l’affetto ai bambini non basta. Gli serve un nido che io non so allestire.
Usciamo per goderci il nostro tramonto quotidiano in spiaggia e prima d’immettermi sul corso, nell’omologata impeccabilità visiva dei palazzi, riprendo a spiare le case della gente. Si vede subito dove abita una famiglia. I balconi, per esempio, sono attrezzati per situazioni conviviali con tende da sole e divanetti; oppure disgelano l’intimità della manutenzione domestica, le nature morte di lavatrici, strofinacci e scope.
Dove vive qualcuno che è di passaggio, un ospite o un pendolare, si notano sparute magliette e slip sugli stendipanni pieghevoli, certe volte sedie di plastica o sdraio provvisorie come in un magazzino all’aperto. Nel nostro balcone c’è soltanto il feticcio di uno stendino, il resto continuo a procrastinarlo.
Le cupole dei lidi ci vengono incontro, a quest’ora il vento dello Stretto concede una tregua e lo sciabordio del mare è flemmatico, svogliato. I muraglioni arcuati di cemento sono vandalizzati dai graffiti e la spazzatura delle feste nei locali sulla spiaggia.
Il passeggino di Amalia vibra slittando le ruote sulla pedana impolverata di sabbia che conduce al bar dove mi sta aspettando Chiara. Ci raggiunge quasi ogni sera: quando c’è Danilo si ferma poco, il tempo di vezzeggiare la bambina e prendere insieme l’ultimo sole obliquo della giornata. Se siamo noi due, come oggi, la dialettica delle confidenze – che hanno per oggetto quasi esclusivo i nostri uomini – si dilata corroborante.
Mentre beviamo – io un anemico succo d’ananas, lei un latte di mandorla con lo zucchero che cola granuloso sulle pareti dei bicchieri – Chiara mi dà un pizzicotto sulla coscia: «Sei strafiga, piccola. Io dopo ogni parto rimanevo gonfia come un palloncino almeno per un anno.»
Una cameriera che sembra una modella posa sul nostro tavolo una ciotola di noccioline e anacardi. Chiara si riempie un pugno, mi invita a prenderne con titubanza venata di sospetto: «Ma tu non ne vuoi?»
Rifiuto con troppa energia, non voglio far trapelare che da quando sono rimasta incinta questa roba mi dà il disgusto. Sono convinta che la mia dieta che ha cassato fritti, merendine e schifezze varie sia una scelta salutare, però non mi va di mettermi a spiegarlo. E’ un po’ come quando – in una terra di rimedi missionari dove qualcuno aveva l’incarico di ribattezzare peccaminose coste immolate alle Sirene con l’intercessione di un’esotica Sant’Irene – mi capita di dire che non credo in Dio: la diversità, per quanto sorretta dalla coerenza, è sfiancante.
Con Chiara stasera l’argomento è Mirko. Ieri sono riuscita a convincere Danilo ad incontrarci, per far conoscere i bambini. Mirko farà sempre parte della mia vita, ma a chi c’è adesso devo l’onestà di un inserimento graduale. Capisco la diffidenza di Danilo verso la nostra amicizia, ma non abbiamo niente da nascondere. Se non il fatto che a questo legame non rinunceremo.
Così tocca a loro, ai nuovi compagni, esercitare la virtù della temperanza, dissipando i sospetti. Ieri la moglie di Mirko teneva una mano sulla sua spalla, come per ribadire una proprietà. I suoi occhi mi braccavano, ma non osavano ripetere l’esame con il marito. E’ tutto paradigmatico. Io e Mirko non riusciremo a sdoganare questa promiscuità: il passato che travasa nel presente, e viceversa.
Amalia calamita sorrisi, complimenti, urletti di bambini. Chiara ha adocchiato un tipo che ha appena terminato il suo allenamento di surf. Mi strizza un occhio: «Me la presti la nipotina? Per beccare…»
Fabrizio non l’ho ancora visto ed entrambi sappiamo che il mese scorrerà senza che questo accada. Ci siamo sentiti e abbiamo provato a fissare tre appuntamenti, tutti andati a vuoto. Ci separa uno scetticismo invalicabile, almeno da parte mia. Non riesco ancora a colmare la sua assenza nel momento in cui avevo bisogno di una parola immediata, una vicinanza non programmatica. Per lui è stato un equivoco del quale si assume tutta la responsabilità: aveva sottovalutato la situazione, e comunque lui è sicuro che io non andrò in cassa, che sono indispensabile per l’azienda. Mi sembra solo retorica. Io ci sto passando adesso, e lui non c’è. Ha un amore dai tempi lunghi che, nell’onda attraversata dalle interferenze delle nostre vite, non riesce più a trasmettersi fino a me.
Amalia piagnucola stropicciandosi gli occhi. La cullo sussurrando una delle cantilene che inventiamo insieme, nell’estro artigianale della nostra famiglia neofita. Immaginiamo filastrocche e pianeti paralleli, oppure saccheggiamo il repertorio tradizionale innestando dettature fantasiose. Entriamo di diritto in un mondo paritario: animali, fiori e bambini, ognuno ha la sua mamma, e tutti fanno la nanna.

Danilo, mamma e papà camminano su una faglia aperta. C’è la stessa cesura che subodoravo, da bambina, tra papà e nonna Alida. Genero e suocera provavano un’antipatia e disistima reciproca che aveva rischiato di portare i miei alla separazione. Di quella tensione ricordo solo fitte di paura. Una domenica: papà e mamma che parlano chiusi in bagno, mentre nonna Alida è lontana, in cucina a sbucciare piselli in una ciotola dove i grani tamburellano contro le pareti bombate prima di franare sul fondo. Sento ancora il ticchettio regolare della forbice con cui papà tagliava le unghie che saettavano dentro la vasca, e mamma che diceva: «Allora è inutile stare insieme, è meglio ognuno per la sua via.»
Forse per quell’ingenua risolutezza dei bambini, durante la messa della mattina ero svenuta in chiesa. Una signora della parrocchia mi aveva accompagnata a casa e io avevo confessato a mamma quello che avevo sentito: «Volete divorziare!», dissi con un’ardente, infantile indignazione. Lei mi aveva zittita, appiattendomi i capelli sulle orecchie, le sue mani aperte sotto m’avvolgevano la testa. Per non turbare me e Ambra avevano deciso di seppellire le asperità sotto il silenzio, praticando quell’oculatezza che oggi si consiglia alle colleriche coppie che hanno fatto impennare le percentuali dei divorzi. Da bubbone incandescente, nonna Alida divenne un muro di gomma. Ma non si sono separati. Dopo la morte della nonna non ho mai più spiato un altro regolamento di conti.
Adesso, il gelo tra loro e Danilo mi riacciuffa per spingermi dentro quel bagno dove non c’ero, la sede indecorosa in cui la mia famiglia progettava di finire. E’ come se ora io avessi la telecamera che ha registrato la scena. Vedo le unghie di papà, mezze lune bianche sul pavimento a mattonelle blu, i calli del suo alluce, gli occhi fissi sulla forbice. Mamma è fuori campo, solo voce fiaccata da una collera gonfia di delusione. Mi sembra di memorizzare anche la strozzatura del pianto.
Poi mi sovviene che papà non ha mai imparato a tagliare le unghie da solo. Anche quella volta sarà stata mamma a farlo. Parlava di separazione mentre gli tagliava le unghie.
Oggi, mentre Danilo è come al solito in ritardo e noi stiamo per metterci a tavola senza di lui, scopro una insolita affinità con mia madre. E’ la stessa tenerezza compartecipe che ho sentito sapendo che avrei generato una femmina.
Siamo donne alle prese con uomini egoisti, gladiatrici in un’arena che mette in palio la famiglia. Se lasciassimo fare a loro, soccomberemmo.
Rifiuto la pasta al forno perché la bilancia stamattina segnava qualche etto in più. Mamma mi osserva che infierisco su me stessa con un’insalata scondita, e scuote la testa. Sistema di malavoglia un piatto coperto per quando arriverà Danilo, puntuale a pranzare da solo sulla tavola imbandita circondata da sedie deserte. Si asciuga le mani nel grembiule: «Sempre così. Io cucino per le mie figlie, e poi mangiano gli altri.»
Inforchetto una sottile fisarmonica di verza: «Mamma, ho la mozzarella e le zucchine impanate. Quanto devo mangiare, secondo te? E poi fa troppo caldo…»
Lei non si arrende: «Che ti faceva la pasta? Stai esagerando con questa dieta, ti è venuta ‘na fìsima.»
«Ormai non allatto più e non intendo ingozzarmi, chiaro?»
Sto bene, mi dico. Lo notano tutti, ieri Lauretta mi ha detto “sembra che hai partorito tre anni fa”. Sono loro che esagerano, è la solita fissazione di mamma con il cibo. La stessa che sperimento io con Amalia, secondo Danilo è colpa della nostra opulenta società occidentale: la maternità allevamento, i bambini come piccoli vitelli da tirar su pasciuti.
Il mio problema è che se sgarro una volta poi non saprei fermarmi. Le diete sono una spirale perenne, impossibile uscirne. Se mollo la presa, non avrò più voglia di riprendere il controllo. Sono esausta per qualsiasi cambiamento nello schema di vita che sto seguendo come una sonnambula, senza nessuna partecipazione attiva.

Svincolarsi da una bambina di sei mesi e mezzo per una coppia equivale un po’ ad una luna di miele fuori programma. L’altra mattina Amalia si è svegliata con faccia, braccia e gambe frastagliate da punture di zanzara e io e suo padre ci siamo talmente impressionati da passare la notte in bianco per giustiziare sistematicamente tutti gli insetti in circolazione. Ci siamo divisi i ruoli: io la vedetta, Danilo il cecchino. Alle quattro e mezzo eravamo ancora svegli e allucinati, lui brandiva una copia arrotolata di Repubblica che rimbalzava sui muri seminando macchioline splatter, mentre io mulinavo le mani per aria captando la rotta delle zanzare. Appena pensavamo di averle fatte fuori tutte e spegnevamo la luce, un sibilo ci allertava come una sirena antiaerea, e le nostre mani si sfioravano sulla testina di Amalia, nello stesso slancio di protezione.
Stavolta anche Danilo è d’accordo per approfittare della disponibilità dei nonni e dedicarci a noi come due antiquati fidanzatini. L’occasione è un concerto dei Duran Duran in piazza Italia, dove sfocia il Lungomare. Ci decidiamo ad andare dopo aver battagliato per la pappa serale e assolto l’obbligo del cambio, quando Amalia, sfinita da ore di monellerie ed esercizi ginnici sul letto, dorme nel lettino impugnando il manico gommoso del succhiotto.
Raggiungiamo il palco a piedi, superando il luna park della via marina imbellettata di iconografie da località balneare. Tritoni, ancore e coni gelato al neon, gazebo esotici, le vele dei lidi in versione notturna con luci azzurrate che illanguidiscono i divanetti dei privè. Il mare, attraversato da artificiali striature color lampone, è un comprimario infastidito, borbotta cupo sulla battigia, zittito dalla musica delle discoteche estemporanee.
Mentre ci avviciniamo al concerto, l’umanità dello struscio inizia a prendere chiari connotati generazionali. Io e Danilo, divisi da una distanza di dieci anni, abbiamo memoria diversa dei Duran. All’apice del loro successo, lui era un universitario esperto di musica e li ascoltava con curiosità da intenditore. Per me, invece, erano il preciso marchio di un’idolatria puberale collettiva. Al liceo eravamo tutte pazze di quei capelloni inglesi. C’erano due fazioni: da una parte le ammiratrici di John Taylor, bello e spigoloso, che costituivano un gruppo dai gusti sessuali più emancipati; nell’altro schieramento, dove militavo io, eravamo invaghite di Simon Le Bon, lo stereotipato biondino con gli occhi blu, epifanica incarnazione dell’amore ideale, con le vaghe concessioni trasgressive che aleggiavano attorno alla sregolatezza della popstar.
Adesso, mentre cammino con la mano intrecciata a quella di Danilo e siamo già nella caotica zona laterale del palco, tento una ricognizione di volti noti. Ma sono certa di non poter identificare nessuno dei miei ex compagni di scuola. Attorno a me vedo coppie con prole iperattiva, genitori bambinoni che provano ad estraniarsi nel passato ondeggiando al suono di vecchie canzoni e scoprendo di non ricordare niente. Vedo gente dall’età indefinita, tutti li classifico più anziani di me. Probabilmente hanno la mia stessa età, ma io affermo uno spaesamento strategico: voglio estendere, almeno visivamente, la parvenza di tempo ininterrotto che mi concede la condizione di donna non sposata.
Ci fermiamo davanti alla gelateria, sul palco Simon Le Bon è un dinosauro vestito di pelle nera. Rinuncio a fossilizzare un’epoca di cui non esistono più reperti. La piazza potrebbe ancora tramutarsi nella palestra del liceo classico “Pomponio Attico”, da dove scappavamo quando all’ultima ora era segnata educazione fisica, marinando sistematicamente le partite di pallavolo nella franosa palestra con il tetto d’amianto. Ci sgamarono solo una volta, ma io, la studentessa modello, fui graziata: i professori non riuscivano a credermi colpevole di quell’inadempienza. L’ultimo anno, sulla pagella trovai un nove in condotta, unica eccellenza insieme a quella della mia compagna di banco Francesca. Lo interpretai come un segno d’esclusione: con quel voto per il resto della classe, unito in un cameratismo ribelle, noi due eravamo passate dalla parte sbagliata, quasi fossimo accomodanti sodali dei professori alle quali non mescolarsi per non rovinare la reputazione dissidente faticosamente edificata.
Rientrai nella comunità con un bacio. Nell’ultima riunione post maturità, per uno di quei giochi estinti che barattavano penitenze e dichiarazioni imbarazzanti. A Mario fu chiesto di scegliere una parte del mio corpo e lui mi posò le labbra sul collo: appena un battito d’epidermide, nonostante le proteste delle compagne invidiose, ma bastò a sancire la riabilitazione.
«Che tieni nella capa, lo vorrei sapere…» Danilo mi morde un orecchio, la musica esacerbata distorce le parole. Ma non importa cosa sta dicendo. Importiamo soltanto noi.
Danilo fa scudo in mezzo alla calca di corpi sudati e teste disseminate tra il marciapiede e la strada, in gradazioni cromatiche che riproducono sempre meno il pigmento meridionale, divenuto carattere recessivo. Ad emergere sono le chiome platinate, i rossi tizianeschi che travisano le ricrescite bianche, certi castani artefatti da strie di tintura. Danilo recupera uno scontrino e s’infila nella gelateria occlusa dai clienti in fila con le maglie incollate alle schiene raggelate dalle pale del ventilatore. La brezza del condizionatore soffia su capelli e fronti madide, asciuga qualche goccia in bilico sulle tempie, sforacchia di palline le lingue che lappano montagnole deformi in cima ai coni.
Alla fine c’è una coppetta alla nocciola anche per me che, d’istinto, penso che posso permettermelo perché espierò con la scarpinata di ritorno verso casa.
Non abbiamo voglia di concludere così presto la nostra parentesi di libertà. Sappiamo entrambi che è questo che dovremmo fare per salvare il nostro amore. Lo sappiamo ed è una riflessione colpevole, almeno per me. Danilo ci scherza su: «Eravamo una bella coppia, ci amavamo… poi è arrivata quella pesticina».
Io sto al gioco: «Devo confessarti una cosa…»
«Dìcia.»
«Io amo più lei di te.»
«Ah, vabbè, quello pure io.»
Per una volta siamo d’accordo. Ma non sempre lo capisco quando Danilo fa sul serio. Certe volte dice che, ora che abbiamo Amalia, devo dimenticare il resto. Sogni, desideri, inclinazioni, tutto da azzerare. “Sennò – dice – non facevi la figlia.” Senza saperlo, porta avanti un’idea di sacrificio genitoriale identica a quella di mamma. Solo che vale unicamente per me, è l’onere della maternità. Se sono ingiusta con lui potremo dirlo quando finiranno le ferie e riprenderà la mia massacrante tabella di marcia in ufficio. Potremo dirlo quando Amalia compirà un anno e io dovrò riprendere il tempo pieno a regime.
Nella camera da letto di nonna Laura ritroviamo la nostra adorata zavorra di sei mesi e mezzo, che continua a dormire. Diamo il cambio a mamma e papà, che tornano a casa ripetendo, nel breve tragitto tra i nostri due domicili, l’ultimo andirivieni della giornata.
Scalcio i sandali, le piante dei piedi stampano orme sfocate sul pavimento dell’ingresso. Percorro il lungo corridoio scalza e mi affaccio sul lettino di Amalia. Abbiamo circa un’ora di autonomia prima dell’ultima poppata ad opera del biberon e la mano materna che lo regge.
Danilo sta trafficando in cucina. Spunta dal riquadro della porta: «Vieni, ti faccio le fragole col limoncello.»
Sul tavolo sono già esposte due scodelle, la bottiglia di liquore della mia azienda, un flacone di panna spray e la vaschetta con i bitorzoli rossi della frutta. Danilo armeggia con un coltello, è circospetto: «Però così mi ‘mpracchio. Lo tieniamo un bavettone qua?»
Cerco in cassetti e pensili: «Vediamo… ecco, c’è questo». Porgo a Danilo un grembiule piegato, con la tracolla che dondola all’ingiù.
Lui lo indossa, a disagio: «Ma ch’è…? Qua ci sta un porco…»
Guardo il maialino stilizzato sul suo petto, annuisco: «Ah, sì, me lo ricordo. Nonna l’aveva preso in una salumeria. »
«Mmm, mica è un modo per dire che mi vuoi maiale…?»
Solleva una fragola dal picciolo, la fa piroettare nell’aria e me la imbocca. Io annuso la polpa: «Sì, però il limoncello dei cassaintegrati non lo voglio… e neanche la panna.»
Addento un boccone, la fragola si scioglie, secerne il succo dolciastro. Preparo la scodella per Danilo soffiandoci sopra una grossa noce di panna: «Allora ce ne veniamo a Pomeria, sì o no?»
Lui divaga: «Non avevi detto che con il casino della crisi aziendale era meglio aspettare?»
«Ormai che aspetto? Se mi mettono in cassa, in azienda non dovrò andarci più per un bel po’». Ripulisco l’erogatore dai residui di panna: «Poi finisce che lo chiede Ambra il trasferimento. E io perdo la casa.»
«Ti sei fissata con ‘sta casa…»
«Funziona così, te l’ho detto. Chi arriva prima, se la piglia.»
Dalla strada traspirano le urla dei ragazzi del circolo ricreativo. Un focolaio simile di schiamazzi notturni c’è sotto casa dei miei, dove un bar sudamericano è aperto fino all’alba e dispensa alcolici, giovani ubriachi, risse e qualche retata di poliziotti alla ricerca di marijuana nelle tasche degli schizzati avventori. Papà si lamenta sempre del casino, è uno dei marchi di anzianità che gli ho scoperto addosso: l’inflessibilità verso i “tòddari” del bar, le filippiche sugli sfaccendati che passano il tempo ai tavolini del ritrovo.
Qui il frastuono è più ruspante. Niente droghe, solo ventenni espatriati dalla periferia per promettenti serate nel centro storico di Pomeria, privilegiando della sede scalcinata del circolo. Il rumore saettante delle biglie del calciobalilla, imprecazioni in dialetto, sigarette consumate in quantità industriale che punteggiano il buio.
L’orologio a muro in cucina è un promemoria che non può fare favoritismi. Tra cinque minuti sarà mezzanotte, ora di poppata. E stasera io e Danilo non faremo l’amore. Domani ho la solita sveglia alle sei e mezzo, dopo il latte io e Amalia scenderemo in spiaggia. Ma ne vale la pena.
Sfideremo la carezza irruente del vento sullo Stretto, passeggiando nella sabbia rappresa d’acqua. Nella mia testa faccio l’ennesimo conto alla rovescia, come un condannato a morte. Luglio finirà e anche la nostra vacanza. Ma penso anche un’altra cosa, perché mia figlia mi spintona continuamente verso il futuro.
Non voglio abbandonare questo tempo e mi chiedo che cosa rimarrà di quest’estate, in cui tutti ci additano, me e Amalia, mentre siamo due esistenze risplendenti di felicità e bellezza.

5.

La casa nella quale voglio vivere, nonna Laura la ricevette in regalo come mutuo da uno spasimante respinto.
Cose che potevano capitare solo a una come lei. Non ci raccontò mai la storia esatta, ma quando d’estate andavamo a mare sulla costa orientale, dove zio Raffaele alloggiava per le ferie, al passaggio davanti al cimitero la nonna si segnava baciando il percorso della croce che finiva sulle labbra. Se le chiedevamo il motivo di quella devozione, lei rispondeva: «Là è seppellito quel gran signore che mi ha dato la casa.»
La cittadella grigia del cimitero indietreggiava sulla strada già battuta, occultato dalla macchia spinosa dei fichidindia. Nonna Laura tergeva il sudore dal petto con il suo fazzoletto di cotone bianco, bisbigliando altre invocazioni di gratitudine al morto filantropo.
Si gloriava spesso del successo giovanile con gli uomini. Senza troppo tatto scagliava quel passato da donna fatale persino contro l’adorata nipote Lauretta, quando, superati i venticinque anni, non disponeva di fidanzati sufficientemente seri da preludere al matrimonio. E di quel mitico benefattore della casa c’era davvero da vantarsi. Dalla fonte privilegiata di Lauretta avevamo scoperto che, all’epoca della donazione, la nonna era già promessa al nonno, allora giovane medico praticante con poche risorse da investire nella famiglia. Poi c’erano stata la guerra e la campagna d’Africa: nonno Giacomo era partito, ma non prima di organizzare un matrimonio per procura. Causa di tanta fretta era la paura di ritrovare, al ritorno dal fronte, l’imprevedibile Laura già impegnata con un altro.
Nella foga dei preparativi per le nozze d’oro dei nonni, figli e nipoti avevamo saccheggiato la casa alla ricerca di vecchie fotografie di cui fare ingrandimenti celebrativi. La scelta era caduta su uno scatto che ritraeva il nonno in un distinto completo chiaro e lei, la civettuola Laura, in tailleur scuro e cappellino che lasciava intravedere la trama di uno chignon e riccioletti biondi scomposti sulla nuca.
Trovammo anche le lettere che nonno le scriveva dall’Africa. Lei aveva protestato: «Ferme, calàti ‘i mani! Queste non si toccano!» Aveva strappato una busta dal nostro crocicchio malizioso e se l’era infilata nel generoso forziere del reggiseno. Zio Raffaele, designato alla custodia dell’archivio – nel disordine della nonna le memorabilia rischiavano il deperimento – concesse una fugace lettura segreta. Lauretta se la rideva: «Che tipa… civettava con tutti!»
Nonno, infatti, nelle lettere esprimeva preoccupazione per “quegli occhi verdolini e i boccoli dorati” che la fidanzata “birichina”, pur scortata dalla sorella del promesso sposo, continuava a sfoggiare sul Lungomare di Pomeria rimediando alternative offerte nuziali. La lontananza di quella vivace innamorata lo turbava parecchio. Tutte le lettere si concludevano allo stesso modo: “Mi vuoi ancora bene? Sei sempre mia?” Invece, dopo il matrimonio e i figli, sarebbe stato proprio il nonno ad essere concupito da una intraprendente signora, resa inoffensiva dalla focosa Laura con un minaccioso confronto diretto che papà e gli zii raccontavano orgogliosi tra gli aneddoti di famiglia.
Di nonna non erano rimaste lettere. Ma lei, pur incline alla devozione maschile, confermava la fedeltà al futuro marito che, sprovvisto di soldi, era però un romantico in via d’estinzione. Tra quei reperti sentimentali, riesumammo pure una favola in cui il nonno immaginava una soprannaturale genesi del loro amore. Nella sua ricostruzione, a farli conoscere e innamorare erano state le madri, entrambe morte, che avevano orchestrato tutto l’affare dal Paradiso. Un’unione investita direttamente dal cielo non poteva non essere sacra. Le due mamme-angelo benedicevano i figli garantendo a vicenda sulla loro affezione. Mamma e papà, invece, si conobbero su un treno di pendolari. So soltanto questo, un pudore di figlia mi ha sempre impedito di chiedere il resto. Cioè come si sono innamorati e io sono finita nelle maglie, strette e calde, di questa famiglia.

Finita la guerra, Giacomo e Laura iniziarono la loro predestinata vita coniugale. Lui, serio e professionale, fece presto a farsi conoscere nell’ambiente medico; lei si prese cura della casa e dei tre figli che sarebbero arrivati: la maggiore Sandra, il mediano Nando, cioè mio padre, e l’ultimogenito Raffaele.
Poi arrivavamo noi nipoti, incapaci di acconciarci con i nostri funerei vestiti dai colori smorti come la fulminea apparizione di un gatto, “a ‘iatta ca’ fùia” diceva lei. Noi costrette all’onere degli studi e di un lavoro degno della fama avita, con cui nonna Laura rivendicava il suo sacrificio di madre. Lauretta, stanca delle critiche per la carriera medica fallita dopo tre esami all’università e poi rimpiazzata da quella di psicologa, protestava: «Ma che ne sai, tu? Quando mai hai lavorato!»
Lei, sconcertata, replicava: «Ho cresciuto tre figghi… e pure a te, stortazza!»
Ma sapeva che la sua oasi matrimoniale era un privilegio anacronistico. Adesso per sua nipote voleva tutto: un uomo e un lavoro, possibilmente invidiabili dal resto del mondo. Per i diciotto anni di Lauretta, le vecchie che giocavano a poker ogni mercoledì pomeriggio con la nonna, avrebbero regalato un orrendo quadro femminista con certe donne in pantaloni che marciavano reggendo un cartello dove c’era dipinta una specie di Cenerentola che puliva i pavimenti e l’iscrizione militante “Ora basta”.
Lauretta era la nipote-figlia, la femmina che mancava a completare la vocazione materna. A colmare il vuoto era stato zio Raffaele, padre precoce che insieme alla giovane moglie Angela aveva lasciato la bimba in consegna ai nonni.
Il cerchio si chiudeva. Il figlio prediletto, di fronte al quale gli altri due, come in un’anomia, scomparivano dal grembo materno, segnava un altro punto a vantaggio. Nonna Laura diceva sempre che Raffaele aveva rinunciato a sua figlia per darla a lei. Non vedeva una differente detrazione: insieme a Lauretta i due genitori perdevano anche un bel po’ di grattacapi, per quindici anni.
Se ripenso a questa piramide – Lauretta allevata dai nonni, il figlio di mia cugina oggetto dell’incontestabile modello educativo di zio Raffaele – realizzo quanto blasfemo possa apparire l’ostracismo di Danilo verso mamma e papà. Raffaele si è ripreso i primi anni di sua figlia dal nipote, ora mio padre viene esautorato dal legittimo ruolo di nonno. E’ stato proprio lo zio a perorare la causa, dopo la nascita di Amalia. «E lasciagliela qua ai nonni, ‘a figghiòla – mi ha detto – Come loro non te la cresce nessuno. A mia madre gli ho dato Lauretta e te lo ricordi quanto era amata?» Zio Raffaele non è sprovveduto come molte volte lo è stato papà, ma è incapace di cattiveria. E’ passato dentro il tornado di Laura senza tentare di placarlo ma neppure d’infierire. E quelle parole me le ha dette guardando fisso dentro il passato, nell’impasto bislacco e poderoso del nostro amore familiare germogliato da nonna fino a qui.

Non me ne accorsi subito delle caste all’interno della nostra famiglia. Da bambina avevo una naturale ammirazione per nonna Laura e i parenti. Zio Raffaele che ci portava i gadget dalle fiere di elettronica, certe sacche con le stringhe da dove tirava fuori modellini di ascensori, gomme e temperamatite a forma di ventilatori, magliette con il logo delle aziende.
E lei, la nonna che qualcuno paragonava alla Bersagliera Gina Lollobrigida del film “Pane, amore e fantasia”. Una che recava ancora tracce di una sfacciata avvenenza e non passava inosservata. Ci faceva ridere, con la sua vivacità popolaresca e l’intercalare dialettale che avevo provato ad imparare anch’io desistendo quando qualcuno mi aveva presa in giro per un errore scivolato su quell’iperbolica sintassi. Procace per natura, sfidava le leggi della gravità e degli anni con le creme scioglipancia reclamizzate in tv da Wanna Marchi, maledicendo l’altisonante ciarlatana quando quei cosmetici si rivelavano una bufala. Un Carnevale, insieme alle vicine del condominio, si erano mascherate da Sorelle Bandiera e ancheggiavano nel salotto sghignazzando: «Fatti più in lààà…!»
Era una conservatrice che esaltava l’ariana superiorità degli aristocratici, tronfia di aver sposato un marito con il titolo nobiliare. Il cognome di nonno Giacomo aveva cancellato un’umiltà di origini difficile da ricostruire per noi nipoti: sapevamo di un numero variabile e confuso di figlie e figliastre, tutte femmine, consanguinee da parte di un genitore che forse era rimasto vedovo e si era risposato. Nata povera e per di più durante la guerra, questo ce lo diceva con fierezza. Nonostante i rimbrotti classisti verso la governante Santina, le veniva a galla qualche afflato proletario, come l’abitudine di girare per casa a piedi nudi ondeggiando sui fianchi.
Poi, per molti anni, ogni sera, nel soggiorno ancora all’acme della cura domestica, guardava la televisione insieme a una stramba zitella mezza barbona che si chiamava Gilda, come una diva cinematografica. Gilda aveva capelli canuti tagliati a caschetto, fumava sigarette puzzolenti che le attecchivano addosso mischiandosi a un pungente odore di animale, e leggeva i romanzi Harmony, tentando di rifilarli a me e Lauretta quando raggiungemmo la soglia della pubertà. Robaccia piena di porcherie sessuali, disse nonna dissentendo categoricamente sulla questione.
Laura le offriva la cena, per il resto le due vecchie parlavano poco, e spesso si addormentavano insieme davanti allo schermo acceso, fin quando la signora Patané, dal secondo piano, telefonava per scongiurare qualche incidente elettrico. Gilda non fu più ospite della nonna quando, dopo tre giorni di assenza dalle loro serate pantofolaie, leggemmo sui quotidiani locali che i vicini l’avevano ritrovata morta, la carne putrefatta sbranata dal collettivo di cani e gatti con cui viveva. Avevano fame e lei non avrebbe più potuto nutrirli.

A Natale Laura, provetta giocatrice, organizzava i tavoli di sette e mezzo. Le sue imprecazioni per un banco perduto erano memorabili e non prevedevano riguardi per i bambini presenti. Le prime parolacce le ho sentite da lei, liberatorie e disinibite. Tutto l’opposto dell’altra nonna Alida, di cui ricordo solo un paragone – ma pudibondo e scevro di lussuria – con l’iconica Marilyn a gonna spiegata sopra la maliziosa grata d’aerazione: un simile incidente urbano era successo anche ad Alida, che si vantava d’aver mostrato al pubblico occasionale un irreprensibile corredo di calze e mutandine immacolate.
Più tardi anche di sesso avrebbe parlato, Laura, ammonendo noi nipoti sulla sconvenienza di far l’amore in giro e, cosa più grave, con “scazacàni” senza arte né parte.
A mia nonna attribuivo un’innegabile emancipazione di spirito, che cozzava con l’osservanza dei rituali borghesi e in fondo ne tradiva l’ipocrisia. Anche perché mamma era tutto l’opposto. Con Lauretta sfogavo l’immaginazione nelle pudibonde esegesi di alcuni cartoni animati giapponesi che, pur sforbiciati dalla censura, introducevano a nudità e rapporti carnali tra i personaggi. E il giorno delle mie prime mestruazioni mamma mi intimò di tacere dell’argomento con Ambra, troppo piccola per essere edotta sulla sessualità. Il ciclo mensile riproponeva un’annosa recita di sotterfugi nella periodica navetta tra il guardaroba, dove erano conservati i pacchi di Lines, e il bagno. La mia sorellina faceva la posta a queste maldestre manovre, e allora io dovevo accampare scuse grottesche.
Più tardi, la mia prima emancipazione sarebbe stata vedere in tv, dietro la privacy della porta chiusa del salotto, una videocassetta dello stagionato “Nove settimane e mezzo”, che gli anni avevano sdaziato di ogni scelleratezza.
Li vedevo così, una famiglia colorita, da sceneggiata. E nello stesso tempo, però, erano molto meridionali e devoti alle tradizioni, con l’unilaterale tendenza a contraddirle, estrapolandole dal loro contesto con il farisaismo richiesto dalle singole situazioni. Se lo facciamo noi va bene, ma gli altri meritano il pubblico ludibrio.
Dalle nostre parti si crede all’affascino, che è una specie di incantamento negativo innescato dall’eccesso di blandizie. Se qualcuno ti gratifica di troppi complimenti, se sdilinquiscono davanti alla tua bellezza o bravura, potrebbero attivare una misteriosa e malefica spoliazione delle doti. Allora rischi l’affascino, e può accaderti qualche disgrazia.
Con Laura io non correvo questo pericolo. Mi domando come si possa dire ad un bambino che è brutto, che è stupido, sgretolando subdolamente la sua identità in formazione. Di nonna Laura non ricordo un regalo vero e proprio. Li aveva prosciugati tutti Lauretta, a me e Ambi restavano insulse paghette, accompagnate, per rimarcarne il valore, da lagnanze sulla pensione che non bastava mai.
Io scontavo la discendenza da papà, figlio declassato. Sandra, la ribelle, se n’era andata di casa a vent’anni, innalzando un’emblematica distanza tra sé e la famiglia: si mise a frequentare artisti e galleristi a Milano, città simbolicamente antitetica al nostro substrato meridionale.
Papà, rimasto a Pomeria, si sobbarcava la diretta sperequazione amorosa con il fratello minore. A cascata, questo disavanzo ricadde su di noi.
Credo di non averci fatto a caso a lungo, almeno fino all’adolescenza, perché in casa avevo sufficiente riserva di attenzioni. Mamma insegnava ma c’era sempre. Per la cucina, per i compiti scolastici, per le vacanze cucite addosso alle esclusive esigenze mie e di Ambi. Eravamo talmente amate da patire le sortite dall’ambiente casalingo, talmente unite tra noi sorelle da faticare nell’approccio con gli altri bambini.
Il trattamento non paritetico di nonna Laura era un disagio misterioso, imprendibile. Coglievamo una frase che suonava strana, un vuoto di premure che scorreva in rigagnoli sfuggenti.
Dovetti attendere che mamma me ne parlasse apertamente, quando a sedici anni iniziai a lamentarmi delle continue critiche della nonna. Lo faceva pure con Lauretta, certo. Ma le battute indirizzate a me avevano un rinculo potente, che mi sollevava da terra e poi rigettava giù, gambe all’aria, senza darmi modo di comprendere come c’ero finita. La minigonna io non potevo permettermela perché troppo formosa e quindi volgare. E sempre io ero la “scostumata” che rispondeva a tono, la scontrosa che diradava le visite, la sfacciata che si truccava e pretendeva di tornare tardi dalle serate con gli amici.
La discoteca mi era concessa solo con l’avallo di Lauretta, quattro anni maggiore, nelle rare occasioni in cui venivo invitata ad unirmi al suo gruppo. Con lei, assicurava la nonna a papà, potevano stare tranquilli. Lauretta voleva a tutti i costi farsi invidiare sfoggiando la compagnia di ragazzi aitanti, per lo più calciatori della Reggina. A me non importava: a contare era l’elusione del coprifuoco, la possibilità di ballare e perdermi nel fumoso dormiveglia dei locali fuori città, una destinazione preclusa alla mia comitiva composta da minorenni senza patente di guida.
Mi feriva l’imputazione da cui non potevo difendermi. Lauretta nella sua vita sociale non aveva testimoni. Per me, invece, bastava essere avvistata sul sellino posteriore di un motorino dietro un ragazzo, oppure sulla soglia di un pub a mangiare patatine insieme a un coetaneo di sesso maschile. Scattava subito la delazione. La disciplinare di nonna Laura faceva il giro dei parenti e si traduceva in note di biasimo per papà e mamma, incapaci di educarmi.
Se rivedo i tira e molla domestici per ottenere il consenso ad uscire la sera, adesso capisco che la mia era una battaglia contro un nemico congiunto. Alleavo mamma, a cui spettava l’ultima parola sull’autorizzazione, agli altri: una vittoria su di lei significava infliggere la sconfitta anche a loro.
Senza accorgermene, facevo il gioco di nonna Laura. Credo che sia iniziata allora questa mia incessante sensazione di dover dimostrare qualcosa. A scuola con i voti alti, e con gli amici, con gli uomini. Con mia figlia. Sono sempre sotto esame, e se fallisco deluderò le persone che amo.
La verità incresciosa sarebbe venuta fuori sotto un intonaco friabile, sollecitata dalle mie domande. Scoprii che Laura aveva riservato la stessa inflessibile disapprovazione a mamma: prima fidanzata inadeguata per suo figlio, poi donna troppo presa dal lavoro, il che significava moglie e madre degenerata. Alla mia nascita le impose gli snervanti ciripà: niente pannolini industriali, quelli mi avrebbero fatta crescere le gambe storte. Ma con Ambi mamma si ribellò al giogo e passò senza rimorsi ai Lines – l’emancipazione fu acclamata dal pupazzo blu dell’ippopotamo Pippo sul piano della lavatrice.
Lei non conosceva la piaggeria. Senza opporre un rifiuto plateale, evitava di chiamare mamma la suocera. Perché, mi avrebbe spiegato, «io di madre ho avuto solo la mia». Imperdonabile, poi, era il suo titolo di laureata, che la poneva in supremazia gerarchica su papà, diplomato e impiegato alle Poste. Ma lei lo amava, e l’aiutò a laurearsi ultraquarantenne, in scienze politiche. Non dev’essere stato facile, con il lavoro e noi figlie, per nessuno dei due. Io ricordo solo l’epilogo di quell’impresa: un dattiloscritto rilegato con gli anelli in tre copie impilate nello studio. La tesi che papà scriveva ogni notte al computer e di cui avevo sbirciato parole dissertive sulla Piana di Pomeria e i frantoi oleari.
Nonna Laura finse di non notare che papà era l’unico figlio ad aver preso la laurea. Non sarebbe stato un avanzamento nella scala affettiva. Lei si limitò ad esporre sulla credenza del soggiorno la foto dove mamma e papà, seduti sulle poltroncine plastificate dell’aula universitaria, aspettavano la discussione della tesi.
Papà, nella sua cecità filiale, incassava, o forse gli mancava l’energia di recriminare. Mamma non poteva farlo al suo posto, sarebbe stata un’irriverenza. Per papà Laura era inamovibile, quelle erano solo illazioni. E soprattutto, mio padre è sempre stato troppo. Noi, per analogia, eravamo malpensanti. Perché non agivamo con la sua stessa diplomatica accondiscendenza?
Sì, è vero, mamma, io e Ambra eravamo di parte, ci annidavamo contro. E lo faremo sempre. La nostra famiglia è un circuito cieco, che non può sciogliersi in un’intersezione risolutiva, mai. Qualunque cosa facciano, papà amava la madre e ama i fratelli: noi gli contestiamo un sentimento irragionevole, ma lo so che la ragione non c’entra niente. Però in questa storia esistiamo anche noi, siamo satelliti che continuano a vagare con un carico di dolorosi rammarichi.
Come dimostrò la vicenda della laurea, tra i due blocchi dei figli le comparazioni migliorative da parte nostra venivano rimosse. Per la nonna c’erano solo i rilievi abietti, che servivano ad aggiungere tasselli a un altro mosaico parallelo, quello dell’impeccabile finitezza della famiglia di Raffaele. Noi imperfetti, loro superiori. Il dislivello era necessario a ribadire il concetto.
L’unica spianatura affettiva tra i figli Laura l’ha lasciata nel suo primordiale mal di testa cronico. Lo stesso dolore affligge papà, zio Raffaele e, dai dodici anni ad oggi, anche me, costringendoci a lunghi bagni di buio e silenzio, allettati con una benda di lino stretta alle tempie, che è diventata uno dei vessilli familiari.

So poco delle guarentigie di Raffaele ed Angela. II mio angolo accessibile d’osservazione era Lauretta. Come chiunque riceva amore prono in abbondanza, mia cugina teneva i nonni sotto schiaffo morale. Era una bonacciona ipersensibile, ma pure viziata e capricciosa.
Su di me esercitava supremazia mista ad un affetto genuino e animalesco, rozzo nelle manifestazioni. Si capiva che Lauretta ti voleva bene solo quando piangeva. Io invece davanti a loro non lo facevo mai, mi mettevo l’armatura. Il primo vero pianto mi squassò, con una potenza inattesa, per la morte di certi gattini randagi che si svezzavano in una tana provvisoria nella discarica del palazzo disabitato dirimpetto casa nostra, quella che fino ai miei sei anni era stata un’osteria regolamentare con le botti e le sedie impagliate. Una mattina trovai il mio micetto preferito con il collo spezzato dal morso di un cane, i segni dei denti lasciavano una mappa di fossette di sangue indurito, come un collare di croste.
Mia cugina invece per un nonnulla sbracava in improvvise crisi di pianto, che erano l’epilogo scioccante di banali litigate, di una divergenza d’idee fino al quel momento indolore. Mamma diceva che faceva così perché era figlia unica e si sentiva sola. Lauretta gridava con la voce distorta dalle lacrime, la pelle umida che arrossava sulle guance, sul mento raggrinzito dallo sforzo del pianto. Non si capiva nemmeno quello che diceva, solo ululati che esprimevano una sofferenza di cui l’altro – chi aveva provocato la crisi – era il responsabile.
In modo diverso, questo strappo emotivo l’avevamo preso dai nostri padri. Zio Raffaele quello socievole, papà il timido che si scioglieva solo con noi bambine e nella rabbia, e allora nonna Laura ci tacitava: «Shh, che se s’incazza, chi lo tiene poi a me’ figghiu!»

Non so quali doti soprannumerarie allora vedessi – o fossi indotta da altri a vedere – in Lauretta. Ma nel computo delle nostre personalità, la sentivo egemone.
Una cosa che non sono mai riuscita a cancellare dalla memoria, benché dopo il fatto nessuno ne parlò mai, fu il furto dei giocattoli. Dev’essere accaduto quando avevo non più di sette anni, ma il ricordo riaffiora dal passato con un’asettica terzietà: è come se guardassi la scena dall’esterno, come un film di cui conosco spezzoni di trama senza comprendere le intenzioni dell’autore.
Non ho idea del perché lo feci. Un pomeriggio iniziai a sottrarre, uno per volta, bambole, portafotografie, penne e pupazzi dalla stanza di Lauretta. Ad ogni visita accumulavo refurtiva che poi, con la massima serenità, finiva nella mia cameretta. A mamma avevo detto che erano regali di mia cugina: identificavo l’atto del rubare con bugie e accurati nascondigli crittografabili solo dai ladri, mentre se tutto poteva restare esposto alla luce del sole non era un reato.
Non so neanche come venne fuori la verità. Probabilmente mamma s’insospettì del mecenatismo di Lauretta e fece qualche indagine. O forse bastò soltanto quell’interrogatorio condotto con eccellente psicologia, dal quale lei ottenne la mia confessione. Con pacatezza mamma spiegò che mi ero comportata male e tentò di estirparmi un movente. Non ero stata spinta da un senso d’indigenza: in casa non mi mancava nulla, avevo tutto quello che desideravo da genitori anche troppo munifici. Non glielo seppi spiegare, né tentai di giustificarmi. Mi trovavo rinchiusa in un sentimento nuovo, e sgradevole. Era la vergogna.
Il fatto che non fui sgridata evocava qualcosa di peggio, a cui dovevo essere preparata con circospezione. Infatti mamma mi prefigurò una penitenza inevitabile: avrei restituito i giocattoli a Lauretta e mi sarei scusata.
Questo episodio è impresso nella mia storia infantile dentro un puzzle incompleto. Alcuni passaggi sono tasselli vuoti: per esempio, non ricordo se Lauretta notò la mancanza dei giocattoli che avevo preso. In ogni caso, mamma propugnava l’onestà. Non bastava rimettere a posto il maltolto, dovevo autodenunciarmi. Una cosa che ricordo è il mio malumore per la restituzione degli oggetti. Sembrava che fosse quello l’aspetto più oneroso, rinunciare ai giocattoli.
Del processo familiare che seguì ho interrato la mia testimonianza. Non posso dire, quindi, quali parole usò una bambina di sette anni per annunciare, davanti a parenti schierati in una giuria severa, che aveva rubato. Ricordo, nitidissime, le reazioni. Lauretta, come al solito, si lanciò con enfasi nel drammatico ruolo della vittima. Piangeva e gridava contro di me, mi chiamava ladra. Zii e nonni tentavano di quietarla, impreparati a mediare quel conflitto tra due ragazzine.
Rammento che la confessione era avvenuta in bagno, e lì rimasi, seduta sulla tazza del cesso come un’appestata. Vedevo i dettagli dei sanitari, il riflesso fosforescente della luce sulla base del lavandino, il perimetro peloso del tappetino, i solchi delle mattonelle.
Se n’erano andati tutti a consolare Lauretta, in bagno c’era soltanto mamma. Mi teneva la mano, credo che chiese come stavo. Restare accanto a me non fu una scelta facile, immagino. Le avranno detto che il mio gesto era colpa sua, che io avevo qualcosa di guasto e loro – lei e papà – non se n’erano accorti. Cose così, o peggiori.
Quando si calmò, Lauretta entrò nel cesso con due margherite raccolte sul balcone della nonna. La crisi era passata il suo primitivo affetto riprendeva a debordare. Adesso la buttava sul ridere: «Fiori sul water… per fare pace». Non era una gran dinamica conciliativa per una che oggi fa l’assistente sociale nel consultorio dell’ospedale e arrotonda con visite private come psicologa.
Mamma mi fece cenno di accettare, massaggiandomi la schiena, ma era imbarazzata pure lei, consapevole che quel perdono arrivato sul ciglio dello scontro era inesatto, traumatico per me. Anche se non volevo, presi le margherite mezze spappolate dalle mani sudate di mia cugina, Lauretta mi circondò con un abbraccio nel quale io giacevo passiva. Mi vergognavo troppo, risentivo le sue parole di poco prima, le voci concitate dei parenti in soggiorno mentre io ero confinata in bagno.
Oggi ripenso al modo con cui mamma gestì quel disastro. Era stata dalla mia parte, aveva sfidato la nuova disonorevole nomea che io appiccicavo alla nostra famiglia, a vantaggio di quegli implacabili parenti. Danilo, quando è in vena di frecciate, sarcasticamente la definisce “la supermamma di Ornella”. Quella che c’è sempre, mette la toppa giusta sulle scuciture di noi figlie, sta ad ascoltare i nostri insopportabili sproloqui. Chiama la tua supermamma, dice Danilo. E aggiunge: «Màmmeta t’ha viziata da guagliona e mo’ stai messa male».
Vorrei spiegargli che non esistono poteri speciali, nessun prefisso o suffisso accrescitivo. Lei è stata soltanto una madre vigorosa, convinta che i bambini non dovrebbero lavorare né soffrire. Almeno i bambini, devono essere felici.
L’unica sua assenza che ricordo è stata una sera, quando tardava a rincasare e l’agitazione aveva contagiato anche papà e nonna Alida. Mentre mio padre era già risoluto ad uscire per rifare il tragitto dal supermercato al nostro palazzo, scoprimmo che mamma era sempre stata lì, davanti agli spuntoni d’acciaio che rivestono il portone, trattenuta dalle ciarle di una conoscente.

Da ragazzina ero succube della superiorità affettiva dei parenti. Da ragazzina – ricordo pure questo – mi piacevano le case. Negli averi immobiliari della nostra famiglia, ero affascinata dalla villetta in campagna di zia Maura, sorella di nonna Laura. Era una tipica costruzione rurale accerchiata dal ronzio degli insetti. Un pianterreno e un piano rialzato, che noi bambini adoravamo per una pertinenza di legno dove gli adulti ci spedivano nelle ore canicolari successive ai fastosi pranzi consumati sotto il pergolato del giardino. Le assi chiare scricchiolavano tanto che non potevamo fare i furbi: se non dormivamo, ci sgamavano subito. Camminare lì sopra, tra il mobilio in scala ridotta, allestito a misura di quell’ambiente miniaturizzato, richiedeva una cautela funambolica. Attorno alla villetta c’era un labirinto di campi coltivati. Guidati dai più grandi, li setacciavamo in cerca di frutta caduta negli agrumeti. Le ortiche facevano da muraglia alla nostra impertinenza: oltrepassare i confini segnati da zia Maura significava ritrovarsi con polsi e caviglie infiammati di bollicine roventi.
Altro luogo di amabili visite della mia infanzia era il casotto delle vacanze di Lella, cugina della nonna. Una sintesi emblematica delle contaminazioni naturali del proliferante abusivismo meridionale: costruita sulla spiaggia ionica di Tucci, la casa si apriva su un terreno con aiole di piante che sconfinavano sulle pietre della battigia. Il mare arrivava all’improvviso, subito dopo una barca arenata dentro la linea divisoria tra la terra concimata e la superficie sassosa, dove in mezzo metro di spazio microscopiche pietre friabili maturavano fino a geometrici scogli scivolosi d’acqua salata.
Ricordo che, da ragazzina, mi piacevano le case. E guardavo sempre le ville al mare che si srotolavano ai lati dell’autostrada, e fantasticavo di abitarci. Spiavo oggetti non miei e sognavo di possederli, recitavo da sola la vita che avrei vissuto dentro quelle mura. Non erano giocattoli, ma porte, cancelli, finestre e mattoni. E non ho mai smesso di desiderarli.

Anche il cuore di nonno Giacomo era tutto di Lauretta, la bambina che aveva cresciuto. Ma questo sbilanciamento a me e Ambra non lo faceva pesare. Nonno Giacomo calibrava. Importa poco che molte affettuosità fossero, in realtà, palliativi. Da lui non ho mai sentito una parola ignobile nei miei confronti. Negli ultimi anni vita, catatonico nella sua sedia con il bastone tra le gambe, riusciva ad indignarsi verso certe torture dialettiche che m’infliggeva la nonna. La sua voce era un sibilo, ma irreprensibile: «E lasciala stare, ‘a figghiòla!»
L’ho visto poco esercitare il ruolo di capofamiglia. Da bambina me lo ricordo già vecchio e prossimo al declino. Nonna Laura – che pubblicamente lo magnificava come marito e medico esemplare – con la vecchiaia prese a tormentarlo. Le loro litigate ci facevano sbellicare dalle risate. I parenti li paragonavano a Totò e Titina de Filippo nei film in cui fanno i coniugi cane e gatto.
A me, però, disturbava la ridicolizzazione dell’autorità del nonno, a cui, nel tempo, si era accodata con impertinenza anche Lauretta. Non che io e Ambi, con la crudeltà innocente dei bambini, non l’avessimo preso di mira. Il nonno faceva le vasche deambulando per il corridoio e poi si appollaiava sulla sua sedia, con gli occhi assenti e la bocca schiusa da cui uscivano filamenti di gemiti. Noi arrancavamo sul divano dietro di lui e tendevamo l’agguato lanciandogli sulla testa i centrini fatti all’uncinetto che coprivano i braccioli. Lui si risvegliava: «Statevi quiete!» Ma era un gioco, il rispetto si preservava incolume.
Era stato un signore, un grand’uomo. Da vecchio si sottomise al decadimento fisico, alle sue umilianti inabilità. Un pomeriggio di primavera studiavo a casa dei nonni e accadde qualcosa che non fu possibile tenermi nascosto.
Concitazione tra la stanza da letto e il bagno, poi Santina, la cameriera di nonna Laura, che imprecava stremata da un non programmato lavoro extra. L’aria trasportava prematuri pollini volanti, nel balcone apparvero, stesi insieme alla biancheria, gli enormi mutandoni di lana del nonno. Santina si sfogava con sua figlia, venuta a prenderla a fine turno. Udii un plasma di parole volgari e insieme concrete, efficienti. Come in un racconto da locanda la donna gesticolava della sua impresa, sentii parlare di «tutta quella ‘mmerda ‘a ‘ccòghhiri c’i mani».
Anche nonno Giacomo le sentiva, quelle cose, ma era seduto in balcone, davanti alle sue mutande sventolanti, con il sole che illuminava un’aureola di pilucchi attorno al tessuto. Le sentiva ma non poteva farci niente.
Forse avrei voluto non capirlo. Pensai che non era giusto che una nipote dodicenne sapesse che suo nonno, lo stimato cardiologo, il capostipite della famiglia, si era cacato addosso.

Raffaele ed Angela, sotto l’ala protettiva di nonna Laura, si sono crogiolati, prendendo ciò che hanno potuto. Non credo sia una colpa ma un atto naturale: in fondo chi ha mai rinunciato all’amore per ripartirne una porzione a qualcun altro frodato dello stesso diritto? Ora che lei è morta, nella secolarizzazione della famiglia un nuovo vincolo unisce papà al fratello. Tante telefonate, almeno una visita giornaliera, cumuli di consigli e raccomandazioni.
E’ il retaggio delle tradizionali pretese di Laura, che adesso zio Raffaele, ora reso emotivo pure lui dall’età, riversa sul fratello maggiore che sta invecchiando ed ha bisogno di qualcuno che vigili su di lui. Di mamma come tutrice non si fidano granché.
Ogni volta che mi capita di sentirlo, Raffaele mi saluta ricordandomi di “stare attenta a papà”. E anche con Amalia è premuroso. Le fa regali, cazzeggia papà per il suo innamoramento fulminante da nonno, che lui ha già smaltito con il nipote.
Lentamente, a fatica, tentiamo di ricominciare ora che lei, Laura, non c’è più.
Danilo fa da deterrente, l’ostilità della nonna è scivolata da me a lui nell’ansa di una clessidra. Stavolta sono io ad attirare solidarietà e affetto familiare. Danilo è inviso perché rimane sul margine. Perché non mi riporta a Pomeria, restituendo Amalia ai nonni.
Ma Danilo è il padre di mia figlia e non posso che schierarmi con lui, nonostante quelle piccole stalattiti che pendono su di noi e raggelano l’amore. Non è cambiato niente, io sono nuovamente l’animale pazzo del gregge. Mi guardo da fuori, come un’intrusa, e allora vedo la famiglia a occhio nudo. Vedo tristemente ogni cosa senza palpiti d’affetto, nello stesso modo impietoso in cui lo farebbero gli estranei. E’ in questo perdere i sensi, nella freddezza di questa cinica pentecoste che mi possiede sempre più spesso, che mi sento davvero sola. E adesso con Danilo – tutto quello che ho quando esco dalla famiglia – la solitudine è assoluta.

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2 Risposte to “Cecilia Musella, “Linea della vita”, 5”

  1. Marco Says:

    “ci sono due vasi sistemati in successione, il primo svuotato, il secondo che erutta i rami recisi di una pianta”

    immagine nitida

  2. gian marco griffi Says:

    Mi scuso anticipatamente, ma che due palle.

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