Cecilia Musella, “Linea della vita”, 3

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Linea della vita; parte prima: Non osi dividere l’uomo
di Cecilia Musella

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L’immagine qui sopra è un dettaglio di un’opera di Emiliano Ponzi.
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Tre.

La casa a Gallina è una villetta in mattoni a vista su tre livelli per 110 metri quadrati compreso il garage. Il fazzoletto terroso del giardino, cinto da un muretto basso, dà sulla strada. Al primo e secondo piano ci sono due balconi lunghissimi, srotolati come fisarmoniche. Costa 200.000 euro. L’agente immobiliare si ferma sulla scala interna, una mano sorretta alla ringhiera e un piede sul primo gradino. Nella mia scheda siamo già oltre il limite massimo di prezzo ma forse si riuscirà a trattare. Sento la sua voce dietro le spalle: «Se ha bambini il giardino è l’ideale».
A Danilo piacerebbe il camino, un imbuto capovolto di calce e pietre grezze. «Bello, il camino», dico.
L’agente mi incalza: «Ci siamo un po’ più vicini? Alla casa che cerca, voglio dire».
L’ombra del pomeriggio scivola nella congiunzione tra le pareti della stanza con il camino. Sotto i miei piedi si rivelano screpolature bianche sugli esagoni di cotto della pavimentazione, forse sono i segni lasciati dalla lunga residenza di un mobile molto grande e pesante. Quando il cellulare dell’agente inizia a squillare nella sala rimbalza un’eco indebolita.

Stavo per rompere un biberon. Mi è sgusciato dal pugno ma poi ha caracollato e si è fermato al bordo del tavolo con il sincronismo di una trottola, prima di inabissarsi sul pavimento. Però è rimasto lì a ruzzolare sempre più piano, intatto, come un mattarello accidioso.
Da quando siamo tornati a Pomeria, sembra che gli oggetti abbiano deposto le ostilità. A Ramuto me li ritrovo contro, ferocemente agguerriti. Le forbici da cucina che si sventrano e non vogliono farsi ricucire i lombi squartati. In bagno l’alleanza del portasciugamani con Danilo: nello sfiatatoio della nostra ultima discussione, il braccio d’acciaio puntava diritto verso di me, una lancia snudata contro il bersaglio.
Gli oggetti hanno un’anima malevola quando sei fuori dal tuo territorio. Ma forse neanche qui, nel regno tumulato di nonna Laura, sono al sicuro.
Amalia subisce il sopruso del latte artificiale, la balia surrogata che alla prova settimanale della bilancia non fallisce mai. Scruto con un senso di riverenza le bottiglie allineate sulla mensola e mi sento come quando da ragazzina mi sovrapponevo alle perfettine che avevano amori e amicizie impeccabili, benedetti dall’unzione della famiglia, e misuravo i punti dove le cose non combaciavano. Era un assillo, capire quello che si prova a non sbagliare mai – o ad essere comunque in grado di rimediare – ma adesso ci ho rinunciato.
Sabato Ambra si sposa, la vacanza nuziale accordata a noi parenti è lo stoppino in agonia del mio congedo per maternità. La prossima settimana rientro al lavoro e non ho ancora cambiato casa.
Sguazzo nel fatalismo, la mia estrema assoluzione. In fondo, mi pagano per inventare giochi di parole e convincere la gente a comprare bottiglie di liquori. La pubblicità è un adescamento codificato, qualcosa la tirerò fuori dalle meningi e forse avrò il coraggio di chiederlo davvero il trasferimento. Forse mi diranno di sì. E vivremo in questa casa, dove gli oggetti sono numi benigni che stanno di sentinella per scacciare gli spiriti veri, spinti all’attacco da nonna Laura.
Ieri, a casa di mamma, facevo sciacallaggio di mobili. Cosa vorrà Ambra e cosa rimarrà a me. Valutavo con occhio da rigattiere gli ambienti dove sono cresciuta, rimuginavo di tavolini, cassapanche e camere da letto in un paradosso d’infantile illogicità: mamma e papà vivi a regolare il traffico del loro testamento, un’impossibile spartizione d’eredità senza la sua premessa, ovvero la morte. Diversamente non la posso affrontare, questa cosa. Non ho ancora venduto l’anima al demone della Casa.
Dopo la poppata Danilo preleva Amalia per l’addestramento al cambio dei pannolini. Salgo in cattedra mentre lui dispone sul letto creme, talchi e oli idratanti. Quando l’adesivo del Pampers fischia sulla plastica, rivelando il maleodorante contenuto, Danilo fa una smorfia: «’ia la miseria, come s’è combinata…»
Sorrido: «E’ cacca, pulita non può essere.» Ho profezie disastrose per i pomeriggi che questi due dovranno trascorrere insieme tra biberon e poderose evacuazioni indotte dal latte artificiale.
Lui finge noncuranza e inizia a tamponare il culetto di Amalia con un batuffolo di cotone imbevuto d’acqua. La bambina sgambetta impaziente, Danilo sta per lasciarsi sfuggire un’imprecazione ma resiste per non cedere davanti a me: «Tu va’ ti curca e nun fa’ la maestrina.»
Mi infilo dentro il piumone, la mia voce farfuglia attutita dalla coltre di coperte: «Non ti scordare le creme.» E io devo ricordarmi di ringraziare mamma per aver fatto tutto questo per me, quando ero una neonata cacona.

Il matrimonio è un evento stressante che spio dalla mia oasi di serena terzietà. Io e Amalia ci aggiriamo per le stanze trasformate in un campo di battaglia, siamo una presenza diplomatica quanto inutile. L’ultimo intoppo è il clima non pronosticabile di sabato prossimo. Ambra gesticola disperata: «Se metto la stola di seta e poi si schiatta di freddo?»
Alzo le spalle, incapace di immedesimarmi nel dramma: «Fatti dare una mantella, copre di più.»
«Ma non so… la mantella mi ‘ncufa.»
Approvo: «Più che altro, le mantelle sono scomode.»
Ambra tergiversa: «La sarta mi darebbe pure la stola di ermellino.»
«Allora che problema c’è?»
«Che mi dà l’una o l’altra. E se poi fa caldo con l’ermellino sono fottuta.»
Sospiro: «Se fa caldo e hai solo l’ermellino non ti metti niente e basta.»
Lei fa una faccia scandalizzata: «Con le spalle scoperte? Noo, don Vincenzo non vuole le spose mezze nude.»
Mentre la guardo che schizza da una parte all’altra e impreca perché ha perso qualcosa o non trova le chiavi e Alberto è in macchina che l’aspetta esasperato, mi viene in mente che da quando sono partita non ci ho mai fatto caso al fatto che ora è una donna. La guardo e lo specchio deformante della sorella maggiore continua a distorcere la realtà. Da bambina ero possessiva, soffrivo persino del suo amore per mamma, del fatto che volesse bene più a lei che a me. Pativo la gelosia per le mie compagne di scuola che la vezzeggiavano durante le gite aperte a genitori e fratelli. Un giorno di aprile, in Aspromonte con le suore – io avevo dieci anni, Ambra sei – conobbi le prime fitte di sentimenti defraudati. Davanti alla staccionata del laghetto di Citola, stringevo la manina di Ambra per sopraffare la carezza di una compagna, che irrompeva in una foto tutta nostra lisciando la testa di mia sorella. Ma Ambi, allora, mi adorava.
E adesso lei passa da una famiglia all’altra, senza il filtro di coabitazione onanistica con me stessa che ho attraversato io nei primi anni di lavoro tra Ramuto e Rocca.
A cercarlo, un parallelismo tra me e mia sorella c’è. Di fatto, siamo noi due a reggere la baracca: io con il mio lavoro contrattualizzato da poligrafica che dissimula la poco pratica qualifica della mia laurea in lettere, Ambi con il posto fisso all’Asl. Danilo è un precario intellettuale, Alberto un laureato in antropologia che bazzica supplenze, corsi e progetti disponibili. Con i nostri compagni dividiamo vita e spese, ma la sicurezza del conto che si riaggiorna ogni mese e ripara dall’imprevisto economico, quella pende da una parte sola.
Adesso non è facile discernere chi di noi sorelle è realmente scappata. L’imputata del reato sembrerei io, che sono andata via lasciando nel loro cantiere friabile le fondamenta di ogni futuro plausibile, per poter dare la colpa del crollo alla lontananza e convincermi che, altrimenti, tutto sarebbe durato per sempre. Anche Mirko.
Ambra invece è rimasta, ricalcando lo schema di una condotta collaudata. Dopo l’università, una sequela di concorsi fino a quello giusto. E un unico fidanzato fino alla meta delle nozze. In controluce ora mi accorgo della verità, che manda barbagli finalmente nitidi, crittografabili. Alberto è stato, dall’inizio, la fuga di Ambra. La sua scappatoia dal vicolo cieco lei se l’è costruita da medico, monitorando la tumescenza del dolore. Intanto nonna Laura continuava a ferire lei al posto mio.
Lo noto ora, nella perdonabile frenesia della vigilia matrimoniale, il suo astio che non si cicatrizza, l’introflessa colpevolezza di mamma e papà. La rabbia di mia sorella, meditata, ponderata e poi esplosa al massimo della sua potenza, è più violenta della mia. Io sono il cane che abbaia e non morde, da me certe cose te le aspetti. Lei invece è perentoria: se salti in aria sopra le sue mine sei deturpato, per sempre.
Con Alberto Ambra è migrata, scientificamente. Perché mamma e papà si erano resi complici della tirannide dinastica di nonna Laura avallandola con l’apatia. Ambi, come me, aveva bisogno di sapere che in lei non c’era niente che non funzionava.
Per noi l’infanzia è stata una lunga parentesi ariosa, dalla quale ci hanno strappate con un parto prematuro, gettandoci impreparate in un mondo improvvisamente ostile. E per Amalia, che respira lo scontro sospeso tra me e Danilo, come sarà? Quando ci penso, tento di proiettarmi nel mio passato di figlia. Ricordo la fiducia, soprattutto. E le ultime certezze della vita, da bambina. Perché mamma e papà allora racchiudevano interamente la pratica deontologica del mondo dove avrei dovuto imparare a vivere, erano un tracciato obbligatorio e naturale verso l’unico futuro assegnato.
Che anch’io adesso sia diventata la teleologia di qualcuno – di Amalia – mi sembra improbabile. Calcolo quello che ho attinto dalla mia famiglia. Alcune cose sono caparbiamente opposte al modo in cui mi hanno cresciuta: ho fatto la furente sessantottina, volevo solo contestare. Ma l’imprinting di mamma e papà è ugualmente rimasto tatuato da qualche parte, e non si cancella.
Non so quali sviluppi avrà la personalità di Amalia. Potrebbe scientemente non volere una vita come la mia, fino ad estremizzare la sua diversità da me e Danilo. O potrebbe diventare uguale a noi per inconscia assimilazione. Come ogni genitore, desidero trasmetterle la felicità che mi è capitato di avere, e respingere indietro gli errori.
Mi sento difettosa, inadeguata. Non sono la prima della classe come lo è stata mamma, probabilmente farò danni.
Però ci sono le eccezioni, ci siamo io ed Ambra. Mi chiedo come sia possibile crescere con genitori che ti danno tutto, eppure essere, da qualche parte dell’anima, infelici. Non so rispondere.

Amalia protesta distesa sul fasciatoio, odia la nevosa infarinatura di talco che segue l’altrettanto vituperato bagnetto. Impilati sullo scrittoio della mia ex cameretta ci sono i nostri vecchi album di fotografie, copertine illustrate con i personaggi Disney miste a panorami locali. Beccheggio con il mento in direzione della pila: «Ma’, e quelli da dove spuntano fuori?»
Mamma risponde in fretta, si vergogna sempre dei sentimentalismi: «Ambra… li ha voluti vedere so’ maritu».
Appena resto da sola, sollevo la copertina del primo album, quello con la Banda Bassotti che attacca il Deposito di Paperone, e ci sono io neonata avvolta in un telo, tra le braccia di nonna Laura. Sul pavimento, vicino al lettone di mamma e papà con la testata di ottone ancora lustra, vedo una bacinella ovale blu, nella quale sono stata lavata da qualcuno.
Gli album sono sette e a un certo punto io scompaio nel nulla. Nelle foto sono estinta: all’improvviso, più o meno dopo la pubertà, nelle pagine si allarga un’escoriazione che mi ha cancellata dalle vicende familiari.
Per Amalia sto facendo incetta di foto. Stampe, scatti emergenziali da sfogliare sul cellulare e il pc. Mia figlia da sola e con me, con Danilo, con i nonni. Conservo tutto, anche le fotografie mosse o scure. Travalico il futuro, accumulo prove che noi siamo stati veri e qui.
Per il resto, mi tiro fuori. Amalia, con i suoi colori bruni, somiglia al padre. L’incarnato candido e la bocca, che costituiscono l’unica osmosi genetica tra me e lei, sono state estromesse dagli osservatori. Ci sono due fronti di giudizio: i parenti e amici di Danilo, che propendono per i caratteri ereditari paterni; dalla mia parte, invece, Amalia è come mamma, dunque diversa da me che somiglio a papà. Dicono così i miei con l’avallo testimoniale delle foto di mia madre bambina. Negli album non basta il gonfalone della mia infanzia: sono stata inghiottita da un cratere troppo profondo perché possa controbattere.
Danilo si vanta della sua bambina così simile al papà. Dovrebbe essere un dono, invece quando litighiamo lui mi immiserisce. Come se non fossi stata capace neppure di questo, di travasare in Amalia qualcosa di mio. Come se, alla fine, io fossi inutile: tutti loro, in proiezione, possono fare a meno di me.
Controllo l’ora, ho bisogno di altro tempo privato. Trovo i nostri vecchi quaderni della scuola elementare, nel mio temario di quarta c’è un lapsus temporale, la controvertibilità del mio languido attaccamento al passato. Scrivevo che “penso con nostalgia agli anni dell’infanzia ma sono contenta di essere cresciuta perché voglio essere più vicina al mio futuro”.
Ho poi trovato il diario che tenevo a diciotto anni e fatico a leggere perché è senza righe e la grafia è fitta, fa i cavalloni tra le pagine. Penna blu, a volte rossa e poi il masochismo del tratto stinto di matita sulla carta verde, che stanca la vista. Conosco la storia ma voglio riappropriarmene, da esegeta. I fatti sono noti ma il mio cuore è cambiato. Leggo le parole di un’adolescente patetica, riesco a spremermi qualche battito empatico soltanto quando si parla di Mirko, che è stato il primo spartiacque tra vissuti inconciliabili. Non posso impedirmi di commentare che usavo frasi leziose, ma il male che provavo è lì, chiuso per sempre nella memoria. Se faccio pressione sulla ferita brucerà, ogni volta.
Le confidenze al diario sono un romanzetto, il tipo di cosa che piacerebbe ai lettori di inquiete autobiografie giovanili. Non sono più io, il mio passato raccontato così mi suscita la tenerezza dovuta a chi è sincero anche quando rischia il ridicolo. Anche se anni fa, leggendo un vecchio diario di Danilo, avevo provato disgusto per certe sue rozzezze ormonali.
La maturità permette di stilare un’ironica agiografia dei nostri martiri. Ma mi chiedo cosa rimarrà di me se non ho nessuna comprensione per il mio dolore mentre lo schiaccio sotto le scarpe chiudendo le pagine verdi di questo diario. Sulla copertina, un tessuto lucido che sfarfalla di rosa e oro imitando un tramonto, c’è qualcosa che ricorda un mare incendiato. La serratura del diario, priva della chiave, è violata. Per colpa della mia stessa incuria ho potuto fare a brandelli l’altra Ornella, quella che non sapevo più che fine avesse fatto. E poi celebrare un irriverente funerale da aguzzina impunita.

Sul matrimonio sono bipolare. Ho deciso di non sposarmi per un’idiosincrasia ai legami giuridici con un altro essere umano. Se provassi a psicanalizzarmi scoprirei che dipende tutto dalla mia sfiducia nel prossimo, dal terrore di essere prima o poi buggerata da qualcuno. Danilo me lo dice sempre, secondo lui sono curabili manie di persecuzione a cui dovrei seriamente pensare di porre rimedio.
Atea ma arroccata nel romanticismo, mi commuovo all’avanzare della sposa, bianca e sottobraccio al padre, verso l’altare. Poi, subito, interrompono l’incanto il banchetto e i girotondi della coppia ai tavoli dove gli invitati gozzovigliano o abbordano la gente spaiata.
Oggi però a sposarsi è Ambi. L’ingresso di casa è inondato da un lungo tappeto blu che esonda sulle scale e sfocia oltre il portone del nostro palazzo. Lì, dove esce la sposa, ci sono calle e papaveri bianchi dappertutto.
Mia sorella è in vestaglia, il collo tirato in su per fare da tavolozza all’estetista che si districa tra ombretti, fondotinta e fard cavati fuori dal un bauletto di finto coccodrillo. Poi si consegna alla parrucchiera, che con il phon rimedia ai danni climatici subìti da boccoli e frangia, un inconveniente connaturato all’umidità primaverile di Pomeria. Alla fine, mentre Ambi sguscia dalla vestaglia sorvegliando con sospetto i seni spinti in alto dal bustino setoso e, immagino, insopportabilmente rigido, la parrucchiera agita la spazzola rotonda nella mia direzione. «Faccio un ritocco anche a te?»
Abbozzo una resistenza: «Io? Veramente di solito li lascio così, al naturale…»
Lei sgrana gli occhi, trasecolata: «Ma è il matrimonio di tua sorella! Non ci puoi stare, in quel modo. La piega è già rovinata… e poi tu metti anche la pinza.»
La parrucchiera scuote la testa, io tento un’attenuante: «Era solo per tenerli a posto in casa. La pinza me la levo, chiaro.»
«Sì, ma intanto così li hai guastati. Va’, te li sistemo, ci metto un attimo.»
Il vapore bollente del phon si fonde con la temperatura del mio rossore. Forse ha ragione la parrucchiera. Ma non sono io la persona che tutti guarderanno tra poco, in chiesa. A cosa serve tanta cura? Ho un bel vestito, vado bene così. Lo penso e non ne sono del tutto convinta. Mi chiedo se non sto delegittimando un rito, scavando un altro piccolo fossato tra me e la famiglia. Amalia non ci sarà, è troppo piccola per tollerare un’ora di funzione religiosa, auguri ed effluvi di colli stuccati dal cerone. Danilo rimarrà con la bambina, io sarò con mamma e papà: i miei affetti nativi che, oggi pomeriggio, chiederanno il nulla osta al presente, reclamandomi.
Danilo mi guarda le gambe, la scollatura profonda, e scherza: «Va’ ti vesta, che in chiesa il prete non ti fa tràsa». Invidio la sua agevole tenuta casalinga, Amalia sonnecchia con le pupille che brillano come brace sotto le ciglia. Ha occhi così grandi, quando dorme non riesce mai a chiuderli completamente finché io non le passo le dita sul dorso del naso: è stata la nostra prima ninna nanna.
Ambra è pronta, in salone il fotografo illustra la regia artistica del servizio nuziale. Danilo mi sussurra all’orecchio: «E’ diversa… così pare un’altra, tua sorella.»
«Le spose fanno quest’effetto, non lo sapevi?»
Forse se ci sposassimo vedrebbe così anche me, sarei di nuovo bellissima come quando ci siamo incontrati e lui mi adulava con spontanea venerazione. Ma tra e me e Ambi rimane comunque uno squilibrio inamovibile. Lei ha già avuto due abiti da sposa, oggi e per la prima comunione. Io invece avevo preso l’ostia nella tonaca di una suorina, la croce al collo e il velo grezzo, penitenziale – un’altra previsione errata, se oggi non credo in Dio. La gioiosa eccentricità delle spose dunque non mi si addice, è una visione incompatibile con il mio destino.
Poi, insieme agli album delle foto e il diario patetico, ho trovato una lista scritta a mano da mamma, con l’elenco del corredo per me e Ambi. Mi si è stretta la gola di gratitudine e amarezza, perché a me quella scrupolosa lista di lenzuola, coperte e tovaglie non servirà. Ma l’amore non si disperde: lo tramanderò ad Amalia insieme al mio corredo illibato.
Dalle scale segnate nella vena del tappeto si catapultano in casa zio Raffaele e Carlo, il figlio di Lauretta, vestito da cerimonia, che va subito a salutare Amalia solleticandole il piede. Lei si ritrae dentro la sacca termica della tutina.
Intanto noi siamo la famiglia della sposa. Ci avvicendiamo nelle foto e a me girano in testa ricordi catalogati alla rinfusa. E’ il mio giudizio universale: da una parte l’eredità buona, dall’altra quella cattiva. Alla destra di Dio, tra gli eletti, metto mamma che ad ogni stagione smontava i lampadari di cristallo per pulirli, lasciando riposare gocce, ciondoli e pendenti su ampi teli come sul lettino di un’estetista. E c’è la processione serale in pigiama di noi sorelle per i baci della buonanotte, che abbiamo rispettato, premurose ed esauste, fino alle soglie dell’adolescenza. E ancora, papà che seleziona i cocomeri buoni dalle “cucuzze”, e io e Ambra nei letti a castello delle vacanze in hotel a Bianchi, con le lenzuola ruvide di granelli di sabbia che ci restavano incollati tra le dita dei piedi dopo le giornate al mare. E certe chiavette della parete attrezzata, che mamma teneva nascoste dentro portapenne o vasetti di terracotta per impedirci di incasinare i libri.
E poi però risalgono in gola pure le dannazioni di famiglia. Le apparenze da tutelare, a costo di crivellarti il cuore, e quei vizi di papà – farsi servire e non alzare mai un dito da solo, fino a quando si diventa davvero incapaci, dalla pigrizia all’handicap di un’incolpevole inettitudine.
Certe cose, invece, finiscono in purgatorio: è un bene che sulla nostra tavola ci sia sempre stato tutto, un benessere del desco, simbolico e consolatorio, mantenuto pure nelle situazioni difficili che io e Ambi ignoravamo? Papà continua a non mangiare il pane vecchio di un giorno, mamma eccede nelle porzioni e mette sempre troppo olio e sale.
Troppo, per principio e precauzione. Eppure i miei non se la ricordano la guerra. Primo, secondo, contorno, frutta e dolce. Una cena con pomodoro e mozzarella a casa nostra è un abominio, giustificabile solo in contingenze estreme come un trasloco o una partenza imminente.
In questo io e Danilo non saremo mai all’altezza, anche se avessi una casa e una cucina vera al posto di un fornello per studenti o l’angolo cottura del bilocale – quello era stato comunque un passo in avanti. Certi pensieri mi trapassano rapidi, quasi volessero negoziare l’intensità con una durata più sopportabile. Prima o poi dovrò fare una scelta di campo: non avere una casa mia non mi autorizza a vivere nell’incompiutezza. La faccenda dei mobili, demotivato impegno nella pulizia e la cura dei dettagli, irresponsabilità di guasti e dissesti fin quando non interferiscono con i bisogni primari dell’abitazione. Dovrò accettare un affitto come un figlio adottivo, elargire lo stesso amore e rispetto. Fino ad ora ho deciso pure per Danilo, ho finto di non vedere che, mentre ci si adagia molle, lui questa tentacolare precarietà la subisce. Ma Amalia non posso truffarla con un facsimile di civile convivenza.
Continuo a compilare il mio archivio morale e sento la nuca che scotta. Le anomalie di famiglia sono un contagio quasi inevitabile. M’indigna essere paragonata a papà, quando mamma ha qualcosa da ridire è la sua litania: «Sei come to’ patri». Mentre da bambina una parente romana già allora decrepita, di cui non ricordo il nome, motteggiava: «Laure’, Laure’…», duplicando nella mia irrequietezza il carattere vulcanico di nonna. Il collo prude, somatizzo l’eventualità che questa perversa prossimità corrisponda al vero.
La mia sessione fotografica è esaurita. Adesso c’è solo Ambra a posare leggiadra davanti allo specchio del salone, sul divano di velluto verde acqua, tra le composizioni floreali. Zio Raffaele rompe gli indugi, richiamando Danilo dal suo esilio: «Vacci pure tu.»
Lui è colto alla sprovvista, forse vorrebbe accettare ma la reazione non ha ingranato nel modo giusto: «No, voi state tutti eleganti… magari stasera, al ristorante…»
Mamma arruffa la cresta di capelli fissata dalla parrucchiera: «Me l’ha fatti troppo ‘ntisi…» Ci guardiamo i piedi e sorridiamo di complicità, preveggendo la tortura obbligata dei tacchi: io con la gravidanza mi sono convertita alle ballerine, lei non dovrebbe metterli perché ha una gamba che da qualche mese le fa male. Le ho raccomandato non so quante volte di farsi vedere da un medico, ma il tempo non si trovava mai. C’era da concordare la cena di nozze, o completare il corredino di Amalia, occuparsi della scadenza di qualche documento per il matrimonio o la nascita. Lo sento dire praticamente da sempre, è la liturgia di casa nostra: fare, prevedere e rimediare “pi’ figghiòli”.
Questo rimarrà, lo voglio salvare. Essere famiglia, non lasciarsi mai soli. Danilo e Alberto sono entrati nella nostra linea della vita perché io e Ambi li amiamo, ma mamma parteggerà per noi due, qualsiasi cosa accada. Dal ruolo di madre non ci si dimette, lo si è per sempre. E’ una cosa che capisco solo adesso.

Ambra attraversa l’altare del Duomo al braccio di papà, insieme sono una coppia impacciata, male assortita. Però in prima fila io e Lauretta iniziamo a piangere. Mia sorella raggiunge Alberto, che se ne sta impettito nell’abito da sposo. Per entrarci si è imposto mesi di dieta, mentre Ambi, da parte sua, lasciava crescere i capelli preconizzando l’acconciatura di nozze. Penso che anche questi piccoli sacrifici sono un atto d’amore, l’inudibile passaggio tra un’egoistica condizione di apolide e la comune cittadinanza del matrimonio.
Durante la funzione mamma stenta appena un po’ a governare l’impaccio dello scialle nei momenti in cui ci si deve alzare o stare in ginocchio davanti a Dio. Quando, come suggerito da don Vincenzo, salutiamo l’unione con un applauso, io mi preparo ad aggirare il crocchio di parenti e amici, un fugace doppio bacio d’auguri sulle guance di Ambi e Alberto per disobbligarmi dai riti familiari del matrimonio ecclesiastico. Ma zia Angela mi arpiona il gomito: «E tu a cu ‘spetti? Deve venire pure per te ‘stu ‘iornu!» Poi mi abbraccia forte. Non ci ha pensato su, credo sia la prima volta che fa qualcosa di spontaneo che mi riguarda. Un gesto famelico, amplificato com’è dal magnetismo del matrimonio: per un attimo anch’io mi lascio andare, dimentico il resto. A sedici anni, quando bazzicavo gli pseudo bigotti di un’ilare comunità di vita cristiana retta dai Gesuiti, avevo fatto la cresima e lei era stata la mia madrina, ovvero la persona che poi dovrà seguirti e consigliarti nella vita. Forse per questo ora le è uscito quel moncone d’affetto. Ma è venuto fuori strabico.
Sua sorella Rosa non perde tempo a girare attorno all’argomento della mia disdicevole convivenza: «Eh, giusto. Ora dobbiamo venire al tuo, di spusaliziu».
Annodo i capelli tra le dita, finalmente posso ricorrere alla pinza senza essere additata come la sorella trasandata della sposa: «Io ormai… è la stessa cosa!»
Rosa solleva un pugno, che oscilla parallelo al mio naso: «Non dire cazzate, capiscìsti?»
Per sottrarmi a questa esegesi sul mio concubinaggio, ho la scusante della bambina. La tabella della poppata mi reclama, fuori della chiesa sbuco nel tiepido sole d’aprile e all’ombra delle statue degli Apostoli cambio i tacchi con rinfrancanti mocassini.
La gente è scompigliata sulle scale della Cattedrale, tutti aspettano che esca la sposa.

«Dobbiamo arrivare tardi pure al matrimonio di sòreta?»
Danilo tamburella le dita sulle ginocchia. Con lo sguardo puntuto mi guarda rimpinzare il borsone di plaid e pannolini. Passo accanto alla specchiera e noto un paio di orecchini a clips. Solo bigiotteria, dorati con una perla finta al centro. Erano di nonna Laura, chi lo sa come si sono salvati dall’epurazione. Me li provo e non c’entrano niente con il vestito. Li infilo in borsa, conservo la mia reliquia trafugata per future occasioni, quando potrò immedesimarmi in lei al riparo da occhi indiscreti.
Danilo dondola nervosamente la carrozzina di Amalia: «Insomma, ti dai una mossa o no?»
«Mica è colpa mia se lei ha fatto la cacca.»
«Giusto, e pure noi ci faremo una figura di merda.»
Spazzolo i capelli, se li tengo sciolti non si nota che mancano orecchini e collane. L’unico ornamento che ho è l’anello con l’ametista che mi ha regalato la mamma di Danilo, ma mi va largo e sotto la fedina che lo trattiene fermo la pietra ruota continuamente attorno al dito, si nasconde negandomi una civetteria poco allenata. Mirko, fanciullesco, una volta me lo aveva chiesto: non ne porti, non ti piacciono i gioielli?
Ma l’osservanza della tradizione non ammette deroghe. Se a una non servono solitari di fidanzamento o pegni di nozze, non ha necessità di accedere agli scrigni di famiglia. Oppure, stando alle nostre arcane e malauguranti tradizioni meridionali, prima di mettere un anello ereditato devi aspettare come minimo la morte di qualcuno e allora piuttosto fai gli scongiuri. Io sono comunque fuori dai giochi. Stavolta è Amalia a soppiantarmi nelle pianificate suddivisioni di mamma sui gioielli aviti.
Rispondo al torvo malumore di Danilo: «Non mi mettere fretta, sennò finisce che ci scordiamo qualcosa.»
«Senti, se non usciamo mo’, io non ci vengo più.»
«Hai paura di perderti l’antipasto? Tanto si inizia sempre in ritardo, poi vedi.»
Invece ha ragione lui, ci perdiamo un giro di formaggi e crostini caldi che, ovviamente, Danilo valuta come la cosa migliore della cena, sfumata per colpa mia. Amalia non ci fa mangiare granché altro: facciamo turni di vasche su e giù per il salone, ricalcando il perimetro del locale più degli sposi nei loro giri di convenevoli.
Io sono galvanizzata dai complimenti, sembrano tutti sinceramente sorpresi della mia forma fisica a pochi mesi dal parto. Non mi allarma il fatto che, al matrimonio di mia sorella, praticamente resto digiuna. Investigando la roba nociva al latte, primi e secondi li pilucco svogliata, per poi riempirmi il piatto di dolci che non riesco ugualmente a mandare giù.
La torta e un gelato alla vaniglia riacutizzano la colpa. Ma non credo che faranno grandi danni al peso, rimedierò da domani con il ripristino del mio esangue regime alimentare.

Eccetto la seconda tornata di foto con i parenti e le occhiate intenerite verso Amalia nel suo vestitino da cerimonia che presto perde le scarpette, noi tre siamo piacevolmente invisibili.
C’è solo un’amica di Ambra – la nubile del gruppo, in chiesa stoicamente incaricata di sovrintendere al velo della sposa – che si avvicina mentre siedo con la bambina in un raro intervallo dalle passeggiate concesso dalla minuscola tiranna. Mi dice: «Io sono Antonietta. Ambra parla sempre di te… si capisce che ti vuole bene». Rispondo “piacere” o un’altra locuzione adattabile alla circostanza, ma le sono grata per l’autorevolezza affettiva che mi sta conferendo.
L’ultima poppata serale, che oggi si dilaterà in ritardo sulla solita tabella, spetta al latte artificiale. Preparo il biberon e lo immergo nel pentolino oblungo e colmo d’acqua bollente messo a disposizione dal ristorante per la sorella della sposa. Negli ultimi giorni la capienza dei seni ai turni di mia competenza è un’idea sempre meno angosciante. Sono rassegnata all’imminente siccità, compensata da un altro flusso, il sangue mestruale che mi restituirà al metabolismo della fertilità attiva. Non so se domani mattina ad Amalia basterò io o avrà bisogno dell’aggiunta. Ormai l’orologio mi è sfuggito di mano: il tempo gira in un tragitto conchiuso, devo solo aspettare che le lancette arrivino a destinazione, assottigliandosi una sull’altra fino a scomparire.
Dopo il latte, ci serve un posto tranquillo dove cambiare la bambina. Una maitre sorridente e gentile con la coda di cavallo da Barbie ci accompagna al secondo piano e apre per noi una camera dell’hotel.
Mi metto all’opera con il fasciatoio portatile e i vari intrugli di bellezza che Amalia non sopporta ma stasera, già sul ciglio del sonno, tollera senza pianti. Quando le infilo i collant puliti, gli occhi sono chiusi, la bocca incurvata nel broncio battagliero di una che non vuole indulgere a segni di cedimento.
Danilo adagia nostra figlia nella carrozzina, poi si stende sul letto e insinua una mano sotto l’orlo della mia gonna. D’istinto mi assicuro che Amalia ronfi abbastanza, poi tasto il suo pene duro e innervato: «Sì, anch’io ho voglia…»
Lui sorride: «Guarda che se i tuoi non ci vedono scendere, lo capiscono…»
«Hanno altro da pensare. Dài, spogliami tu…»
Danilo mi abbassa le spalline dell’abito, libera i seni dal reggipetto e rigira un capezzolo tra due dita, poi lo morde con voluttà. Con le mani mi palpa le natiche, alza la gonna e lascia scivolare gli slip attorno alle mie caviglie.
Facciamo l’amore come un sacrilegio, rubando la legittima notte degli sposi. Celebriamo le nostre nozze irregolari, la passione che vorremmo fermare prima che diventi fumo e si disperda in pieghe d’aria dove la lasceremo disintegrare.
Danilo è invischiato dentro di me, mi ama con la sregolatezza di un ubriaco: «Sei tremenda…». Poi ammicca ad Amalia: «Piccoli’, lo sai che màmmeta è ‘na peste scatenata?»
Finiamo in fretta e ci laviamo alternandoci in fugaci visite al bagno. Stiamo attenti a non lasciare tracce, siamo gli adulteri di noi stessi.
Danilo mi bacia sul collo sapido: «Mmm, sai di sesso. Secondo me se ne accorgono tutti…»
Mi specchio davanti alla cassettiera adornata da impersonali depliant dell’albergo e posaceneri con le marche di superalcolici. Lui sta trafficando nel frigobar, solleva una bottiglia di Ferrari in miniatura: «Brindiamo?»
Gli tiro via lo spumante dalle mani: «Non fa neanche un bicchiere. E tu non puoi permetterti un sorso di Ferrari da quindici euro.»
Fuori sta piovendo, scorrazzate d’acqua a lavare via una giornata di primavera afosa. Alle spose porta bene, se uno ci crede.

Torniamo nel salone, dove i camerieri stanno facendo girare l’ennesimo carrello di dolci e spumante. Gli invitati, nei loro ghetti di sobrio pettegolezzo, sono chiazze classificabili per ceto e gradi parentali con gli sposi.
Due donne sovrappeso, insaccate in tailleur simili – tutti e due neri con pantaloni ampi e casacce profilate di perline – si intrattengono con don Vincenzo, il sacerdote che ha officiato la messa nuziale. Una delle ciccione, quella che sotto i pantaloni indossa scarpe con il tacco di metallo lucido, commenta: «Li avete visti crescere, ‘sti figghiòli…». Don Vincenzo assentisce con la testa, compiaciuto. I ragazzi li ha sposati e per un prete è un punto di merito, una tacchetta in più nel curriculum ecclesiale. Però penso laicamente che forse ha ragione lui, che la felicità di un matrimonio sta nel tirocinio. Se conosci tuo marito da abbastanza tempo, sai anche come sarà passare la vita insieme a lui. Mia sorella e Alberto sembrano sapere esattamente che la loro convivenza sarà piacevole, un buon motivo per invecchiare in due anziché soli. Io e Mirko, invece, avevamo capito che per noi non sarebbe stato così.
Ambra e Alberto sono nel privè insieme ai consuoceri dietro un paravento di ficus e felci piumose. Irrompo alla ricerca della mia giacca. Ambi si affaccia sulla carrozzina di Amalia: «Cucciola… dorme.»
Lei e Alberto sembrano già marito e moglie rodati. Mentre raduno le nostre cose e Danilo fa la spola dal ristorante all’auto per caricare navicella e ruote pieghevoli, segati in due pezzi come la valletta di un prestigiatore, li sento discutere per qualcosa. Ambi lo rimbrotta, Alberto finge una debole protesta: «L’ho sposata oggi e già questa mi cazzìa…»
Noi tre ce ne torniamo a casa dopo un lunghissimo giorno, l’autostrada dimezzata dal cantiere è una striscia rachitica con puntini luminosi da unire finché non si arriva da qualche parte, come in un gioco di enigmistica.

Gli ultimi giorni a Pomeria sono di nuovo ventosi, le foglie s’infilano nei rovesci d’aria senza tentare resistenza. Io e Amalia ci stressiamo nel percorso ad ostacoli del corso Sinisgalli, tra auto posteggiate davanti agli scivoli per disabili e marciapiedi inaccessibili alle ruote della carrozzina.
Mi capita di incontrare altre mamme e con tutte si sprigiona un’istintiva solidarietà femminile. Accade anche per Lauretta, e persino per donne con cui c’è sempre stata incomunicabilità. L’esperienza di un figlio annulla le altre, e l’effetto scatta dopo il parto. Ci ritroviamo transitate oltre lo stesso crocevia temporale: il passato non conta più, presente e futuro ci accomunano, distanziati da qualche irrilevante manciata d’anni.
Mi capitano cose come ricevere consigli da una commessa del supermercato, madre di una bambina tre mesi più grande di Amalia. E soprattutto, non c’è mai stata tanta vicinanza con mamma: forse è il limite massimo, non posso pretendere di più, io sono sua figlia.
Non potremmo essere più diverse, io e lei. Ma adesso dividiamo l’equidistanza dalla nostra direzione, che per me si chiama Amalia, per lei Ornella e Ambra.
Contro questo nuovo afflato solidaristico la mia incapacità ad allattare erge una barriera divisoria che non posso abbattere. Ho l’impulso di rifuggire le altre madri per non sentirmi raccontare come hanno dato il latte per anni ai loro bambini. Magari incontro pure quelle come me, ma sono una minima parte, e lì a squalificarmi c’è comunque altro: i soldi, l’affitto, compagni più responsabili.
Lauretta allattando è ingrassata tanto, il pensiero sale anche se vorrei ricacciarlo. Forse la mia scala di valori è sballata. Il lavoro, l’ossessione della bilancia, la casa, che stanno rovinando questi mesi gioiosi, hanno preso il posto di Amalia e l’hanno surclassata?
Mi chiedo se la sorellanza funzioni anche con la moglie di Mirko, o se la sinergia in quel caso fallirà, incagliata in implicazioni meno nobili. Nella memoria storica dei nostri amori, noi due dovremmo essere rivali. Dove finisce la madre e ricomincia la donna, il discrimine è quello.
Non so neanche se me ne importa. Mirko non lo vedo da oltre un anno, se decidessi di interrompere tutto potrebbe anche non essere una ferita: a questo punto abbiamo già asportato gli organi deteriorati, il dolore non riuscirebbe ad agire dentro corpi svenati, per entrambi. Alla fine la cosa potrebbe anche non tangerci. Però so di stare meglio con lui nella mia vita, anziché senza. Il nostro cordone non reciso si nutre di questa debolezza amicale. Ed è più coriacea di quello che c’è stato prima dell’amputazione.
Guardo l’ora sul cellulare, dobbiamo rientrare per la poppata. Nella borsa ho due telefonini, mamma mi ha regalato un Nokia solo per noi, e vuole che le mandi le fotografie della bambina. Entro nella videocamera e immortalo Amalia con un broncino affamato.
Non possiamo evitarla, questa dolce, utopica sconfitta. Io e Ambra volevamo emanciparci, ma abbiamo ancora bisogno della famiglia. Io, poi, altra non ne ho. Ho un uomo che non sarà mai la fusione dal due all’uno. La famiglia è il suo inganno da aggirare prima di rimanere gabbato. Non si ricrede, per testardaggine e paura.
Io e Amalia soltanto siamo famiglia, un ceppo che parte da mamma e papà e si congiunge alla mia bambina. Amalia è l’unica cosa buona che io abbia mai fatto. Una famiglia nonostante tutto.

3.

Al parto voleva assistere mamma, invece poi c’era Danilo, ed è stato giusto così. Non credevo che lei ci tenesse tanto, né che avrebbe subodorato una macchinazione, ovviamente cospirata da Danilo. In realtà, tutto accadde così in fretta che, quando Amalia era ormai nata, fu proprio lui a ricordarmi che forse sarebbe stato il caso di telefonare ai miei, che si erano messi in viaggio per Ramuto lineari e assennati, nella previsione di un travaglio più lungo.
Come avrei potuto sapere che su quell’equivoco si sarebbe cementata, come stesa su calce fresca, la radice della loro avversione? Certe volte non ci pensiamo, ma il congegno delle successioni ha ovunque il medesimo funzionamento: causa ed effetto, una nefasta consequenzialità pronta a ripetersi e ripetersi senza possibilità di un intervento che dirotti le cose.
Così ben prima che mamma, irritata, mi dicesse che Danilo le ha sottratto la nascita della sua prima nipote, da entrambe le parti il rancore rimasticava, un alito livido nel cambiamento di rotta delle nostre vite.
Amalia fu magnanima con la sua ansiosa mamma, non mi diede il tempo di pensare a nulla. Era la sera della pizza-premio, il contentino goloso dopo un’altra settimana di restrizioni ripagate dalla bilancia inchiodata sul suo ago e i complimenti del ginecologo. Dopo la cena mi sistemai sul divano a gambe incrociate accanto a Danilo per guardare la tv. La sera prima avevamo finito “Dov’è Anna?”, un vecchio sceneggiato su vhs, di cui lui si ostinava a rispettare la scansione a puntate mentre io avrei preferito vederlo tutto di seguito. Lo scatolone vuoto della pizza era ancora in bilico sul ripiano di marmo dell’angolo cucina, odorava di forno. Mentre lui faceva zapping, sentii un liquido caldo inondarmi i pantaloni del pigiama. Corsi in bagno: «Oddio, si sono rotte le acque!»
Ero fradicia e continuavo a perdere, a distillare una piena bollente. Mi lavai, indossai due paia di assorbenti per l’incontinenza, che facevano parte del corredo da ospedale prescritto al corso pre-parto. A gambe larghe fuori dal bagno, incrociai la faccia sbigottita di Danilo.
In auto, mentre andavamo verso l’ospedale, stavo attenta a non muovere un muscolo. Mi ripetevo che era il momento: se si rompono le acque, devi partorire entro ventiquattr’ore. Danilo guidava con dolcezza: «Come stai… che cosa si sente?»
«Per ora niente di speciale, solo bagnato. Ma ho paura, il liquido era scuro.»
«E allora?»
Esitai: «Dovrebbe essere trasparente».
Lui annuii guardando la sbarra all’entrata dell’area ospedaliera, che si sollevava per farci entrare e mandava lampi trasversali nel buio: «Mo’ non ti stressare con ‘ste paranoie. Mica sei medico, tu.»
Al pronto soccorso mi fecero un’ecografia e decisero di ricoverarmi. Prima però dovevo fare un tracciato cardiaco, e l’ostetrica mi sigillò dentro una serie tentacolare di cinghie e stetoscopi. Sul monitor collegato alla pancia apparvero vermetti luminosi che guizzavano impazienti. Sentivo il cuore di Amalia, più che un battito era una corsa a scavezzacollo. Mi strinsi a quel galoppo, mi facevano paura silenzio, e quell’acqua che continuava a straripare indolore, attonita come il mio utero senza contrazioni. Anche Danilo era stranito: «Tutti ‘sti fili… fa impressione.»
Morsi un labbro: «Non è il genere di cose da dire a una che deve partorire, lo sai?»
Lui fece un gesto ampio con la mano: «Scusami, ma… è che non me l’immaginavo così.»
L’ostetrica interruppe il battibecco in cui ci stavamo impegolando e mi staccò dalla macchina: «Dobbiamo aspettare le contrazioni, non sappiamo quanto ci vorrà.»
Il vuoto lasciato dalle pulsazioni di Amalia mi sconfortava, volevo restare lì, collegata a quel cuoricino trafelato: «E io cosa devo fare?»
L’ostetrica stava asciugando le mie perdite con certe salviettone di carta porosa: «Dovete andare in camera e aspettare, signo’. Quando vi vengono dolori forti, ci chiamate e vi facciamo partorire.»
Nella stanza, dove c’erano altre due degenti, gli uomini non potevano entrare. Era l’una passata, decidemmo che Danilo sarebbe tornato a casa fino ad ulteriori aggiornamenti della situazione.
Iniziava la nostra notte, mia e di Amalia. Io me ne stavo accovacciata su un fianco, adesso qualche fitta si faceva sentire, ma non erano lancinanti, non capivo se fossero davvero quelle, le famigerate contrazioni. Nel letto alla mia destra dormiva una puerpera. Il piccolo era nella sua culla di plexiglass dove restava tranquillo per pochi minuti, la continuità erano pianti e urla. Di lui si occupava la nonna, una donnona con una specie di camice nero e braccia muscolose, segnate da bracciali di carne proprio come quelle dei neonati. Il pianto del bambino, sommesso e un po’ roco, mi sembrò di buon auspicio. I bambini chiamano altri bambini: la mia Amalia cominciò la sua discesa nell’utero quasi asciutto, annusando la vita.
L’intensità del dolore lievitò sbaragliando la cognizione del tempo. Era una lacerazione sorda, mi saturava fino a quando non ne potevo più, poi si riaddormentava lasciandomi spossata. Respiravo a fondo, stringendo le lenzuola, con la faccia nella stoffa grossolana, da ospedale, del cuscino.
Danilo lo chiamai che ero già in sala parto, di nuovo attaccata alla macchina per il tracciato. Amalia non aveva mai smesso di correre dentro di me, il suo cuore era straordinariamente potente. Si sgolava di vita.
Venne a visitarmi una dottoressa. Le contrazioni mi toglievano la forza di fare domande, anche se ne avevo tante. Durante le pause mi lamentavo con Danilo, poi l’onda rimontava e io trattenevo il fiato, sperando che avrei fatto un lavoro migliore, che sarei riuscita ad ammortizzare il dolore. La dottoressa infilò una mano guantata nella mia vagina: «La dilatazione è quasi completa, mancano due centimetri, una cosina piccola come mezzo dito». Sollevò un mignolo incappucciato di gomma e lo piegò, riuscivo a vedere il solco dell’unghia sul guanto.
Deglutii: «Io… non ce la faccio».
La dottoressa aveva la mascherina a tracolla sul mento e la pelle del naso che si sgranava gibbosa sotto la luce artificiale: «Vuoi l’epidurale?»
«Non volevo farla, ma forse ora… è che sto malissimo, non ce la faccio.»
Lei piegò la testa: «Come vuoi. Ma è un peccato, manca così poco. Se resisti ancora un po’…»
Danilo s’intromise: «Perché devi prendere droghe? Se la dottoressa dice…» Lo fulminai con un’occhiata, la ginecologa promise di chiamare l’anestesista. Concluse: «Intanto tu continua a respirare. Se senti il bisogno di spingere, mi chiami.» Notai di sfuggita che mi dava del tu. Eravamo donne, e io me ne stavo con il corpo aperto davanti a lei. In questi casi il pudore, come le formalità tra medico e paziente, sono le prime cose che dimentichiamo.
L’anestesista non arrivò mai e quasi subito lo sentii, quel bisogno di espellere Amalia dal mio ventre per averla tra le braccia. La ginecologa spazzò via ogni reticenza: «I bambini nascono con una spinta forte della mamma, ora dipende da te».
Ce la misi tutta, la bambina nacque dopo poche sgroppate: un ragnetto tutto testa e guance, la vidi spuntare fuori tenuta per un piede dalla ginecologa. Non me resi conto ma a Danilo erano venute le lacrime. Io, invece, ero soltanto completamente felice. Quei terribili dolori erano scomparsi d’un colpo dopo la nascita, senza lasciare traccia. Provavo un lieve indolenzimento, potevano essere i postumi di un lungo amplesso, qualcosa di sfiancante e piacevole.
Amalia era con noi da pochi minuti e apprendevo del nostro imperscrutabile legame. Mentre lavava la piccola, la dottoressa confabulava con l’infermiera: «Guarda, aveva due giri di cordone…»
Capii il motivo del liquido tinto e mi tornò in testa la strana tensione degli ultimi giorni, che avevo attribuito all’impazienza di partorire, un momento che non arrivava nonostante il tempo fosse concluso. Come si dice da noi, ero “uscita di conto” da una settimana e c’era lo spauracchio del parto indotto, che mi terrorizzava per il riflesso amplificante dei farmaci sulle contrazioni. Poi Amalia si muoveva poco, perché dentro la pancia non c’era più spazio. Ma io pensavo che non stesse bene e la mia impotenza sui fatti accresceva l’agitazione che trasmettevo alla bambina. Adesso scoprivo che la colpa era di quell’anello accartocciato: Amalia piangeva, aveva bisogno di nascere. E così, visto che io non potevo aiutarla a districarsi, si era data da fare.
Quante ore erano passate dal pancione? Il tempo degli accertamenti canonici fu riempito dalle premure di Danilo. Un’infermiera lo aveva provocato: «E mo’ il maritino non glielo piglia un regalo a questa mamma tanto ‘sperta?»
«Come no! Tutto quello che vuole.»
Io avevo fame, dalla pizza della sera prima sembravano trascorsi anni: «Mi pigli qualcosa di dolce? Tipo… un pandoro.»
«Un pandoro? Ciotare’, e mo’ dove lo trovo?»
Ero consapevole dell’assurdità della richiesta, ma al bar dell’ospedale lui rimediò davvero un pandorino Motta da colazione, che in quella fine di gennaio era sopravvissuto al mercato post-natalizio. Lo mangiammo insieme, lui sbocconcellandomi la pasta soffice e io prendendola dalle sue dita.
Dopo le medicazioni, mi alzai da sola e, al braccio di Danilo, tornai in reparto sulle mie gambe. Scortavamo la culletta di Amalia. Mia figlia, che appena nata mi aveva messo addosso due occhi apertissimi e infiniti, dormiva imballata in una tutina bianca. Lui mi teneva una mano sulla spalla, a ritroso da oggi è stata l’ultima volta che l’ho sentito completamente ammirato, fiero di me. Anch’io ero orgogliosa di come avevo gestito il parto, dello stato in cui mi trovavo, fresca e raggiante. Amalia nasceva e mi faceva donna. Potevo allungare la mano e prendere tutto quello che mi era stato precluso.
Credevo fosse una conquista. Avrebbe potuto essere così per sempre, anche per noi.
Alle dieci arrivarono mamma e papà e ci trovarono intente in una prova di poppata, la cieca bocca di Amalia che sbatteva contro la mia mammella. Venne Anna, la sorella di Danilo, e Teresa, che era ricoverata lì da una settimana per una non ancora identificata sindrome di nausea e vomito. Concreta, mia suocera sbirciò la bambina e commentò: «E’ ‘na bella guagliona.» L’avrebbe vista un’altra volta soltanto prima di morire.
Non avevo punti, mi dimisero la mattina dopo. Nell’angusto bagno della stanza d’ospedale scrutavo il mio corpo e senza il pancione sembrava un altro. Le gambe erano un lungo corridoio linfatico e acquoso, la pelle diafana come se mancasse uno strato d’epidermide. Ero trasparente, avrei potuto guardarmi attraverso.
Stavo bene, avevo voglia di muovermi, sgranchire le ossa. Scendemmo a casa a piedi, io, Danilo e Amalia nella carrozzina, tenendoci per mano, con il sole spiovente sulle strade della città. Quel giorno eravamo indissolubili. Pensai che dovevamo rispetto alla nostra piccola famiglia. L’uomo non osi dividere quello è unito, anche se non lo ha fatto Dio.

La prima notte a casa io e Danilo ci aggrovigliamo a letto liberi dalla barriera del pancione. Per il sesso c’era l’embargo del mio pannolone da puerpera, restammo annodati con le gambe come su una zattera galleggiante tra le lenzuola. Lui mi baciò il lobo dell’orecchio: «Hai visto che bella bambina abbiamo fatto?» Gesticolava dipingendo in aria il visetto di nostra figlia: «E’ molto proporzionata, il naso, la bocca…»
Quella notte Amalia di dormire non ne volle sapere. Proclamava la sua inutile protesta contro il mondo fuori dal pancione con pianti che si placarono solo quando me l’attaccai al seno. Tentai di rimetterla nella culla, ma alla fine per riposare un po’ non c’era altra soluzione di quel segmento che ramificava la mia tetta alla sua bocca avida: Amalia s’installò da padrona nel lettone, io e Danilo fummo di nuovo separati.
Non chiusi occhio per la paura di schiacciare il suo corpicino, lei mi succhiava vorace, le labbra strette a ventosa erano una favilla bruciante sul capezzolo. Danilo ci teneva il muso, rivoltandosi sul materasso.
Quando dai tagli della veneziana entrarono prematuri fili d’alba, io avevo occhiaie profonde come fossi ma continuavo a cullare mia figlia: «Cucciolo, non piangere dài…»
Danilo sbuffava: «Ma quale cucciolo, lasciala perdere…» Mi accarezzò i capelli: «Tesoro, ora devi dormire.»
Mamma e papà, accampati nella casa sfitta di mia suocera, che era ancora in ospedale, portarono una ipercalorica colazione a domicilio. Io bevvi solo il cappuccino, nel dilemma dell’alimentazione propizia all’allattamento. A grassi e creme ero già disabituata, ma anche i biscotti che mi ero concessa in gravidanza adesso erano sconsigliati perché troppo secchi.
Il mio microcosmo di umanità si capovolgeva, diventava bifocale. Papà e mamma, all’improvviso erano più vecchi, io ero cresciuta di botto. Il tempo rotolava come se qualcuno mandasse avanti un nastro, lo strappo faceva male ma quello lo avremmo sentito dopo, senza capire perché.
Amalia dormiva incurante della luce diurna. Ne approfittai per lavarmi e truccarmi alla meglio, indossai un vestito corto e un cappotto sartoriale, esaltata dal giro vita già rimodellato, che nei prossimi mesi mi avrebbe causato un’incontrollabile ipnosi da shopping. Il cellulare ronzava telefonate e messaggini d’auguri. Pietro si vantava di aver indovinato la data della nascita, Chiara mi martellava chiedendo bollettini telegrafici sulla fisionomia di Amalia. Mirko chiamò appena lo seppe, era felice, e basta. Da Fabrizio mi arrivò un sms. Diceva solo che avrebbe voluto essere al posto di Danilo.
Dovevamo andare in municipio per registrare la nascita di Amalia. Io e Danilo uscimmo abbracciati, ed è l’ultimo frammento di totale felicità che ricordo prima che le cose cambiassero. Anche allora a decidere, rapidissimo fu il nastro. Non potevo frappormi per fermare tutto, inserire quello che mancava né cancellare gli errori in eccesso.
Al nostro ritorno per le scale del palazzo echeggiava la voce urlante di Amalia, intervallata dalle invocazioni ritmate di mamma. Danilo fece un sorrisetto maligno, ma io non ci feci caso. Volevo soltanto calmare il pianto di mia figlia, i capezzoli ardevano sotto i vestiti, votati al sacrificio. L’unica cosa che capivo era l’amore.

Iniziarono con i regali di Amalia. Li sentivo discutere sull’assemblaggio della navicella, papà che studiava le istruzioni e Danilo che lo guardava cupo come se fosse un invasore venuto a dettare legge a casa sua.
Poi si passò all’attacco verbale. Danilo sviliva la roba che i miei avevano preso per la bambina, che era praticamente tutto, tranne il fasciatoio regalato da sua madre. Parlava con se stesso, ma a voce alta, in modo che noi sentissimo. Bocciature sibilanti come “questo non serve a niente”, e “quello non funziona”. Quando mamma si presentò con la bilancia e non riuscivamo a capire come tararla, lui riesumò lo scontrino dalla busta e fece una faccia compassionevole: «Guarda quanto l’hanno pagata… ma questa non vale manco un euro». Rimarcava il valore dei soldi, che erano il discrimine tra lui e la mia famiglia, quello che loro potevano elargire al posto suo, riempiendo la menomazione del nostro nucleo sbilanciato, dove il mantenimento di Amalia era ufficialmente assegnato a me, seppure nella sicurezza fittizia che può dare un posto aziendale. Danilo si acquattava dietro l’ottusa incomprensione degli oggetti per dimostrare che i soldi potevano fallire. Mamma e papà, verso cui io non potevo che mostrare sconfinata gratitudine, per lui erano due imbranati: Danilo voleva aprirmi gli occhi per insediarsi, definitivamente, nello spazio che loro occupavano.
In quei primi giorni io ero frastornata. L’iniezione di fiducia del parto, della mia splendida bambina, mi elettrizzò di un’illusoria autorevolezza. Papà, ovviamente, adorava Amalia. Ma io gli impedivo di tenere sua nipote, gli inveivo contro provando un’euforia di rivalsa. Era come se volessi ferirlo per sistemare i nostri conti in sospeso, nonna Laura e il resto. Gli toglievo la bambina dalle braccia con un’inconsapevole gioia cattiva. Non poteva replicare, su mia figlia non aveva voce in capitolo.
Lo stesso accadeva per mamma. Quando le risposi a tono, sgarbata, rifiutando la sua offerta di provare ad addormentare Amalia, che continuava a piangere per la fame, lei s’irrigidì. Eravamo sole in casa e si mise a riordinare non so che piatti e bicchieri. Il rumore delle stoviglie era secco e cadenzato, emanava risentimento. Ero in tuta, non mi cambiavo da tre giorni, dormivo vestita per risparmiare minuti di sonno e non sentire freddo quando Amalia imponeva ronde notturne. Mi avvicinai al lavello: «Ti sei offesa, mamma? Senti, io non so da che parte cominciare, faccio solo quello che dicono i medici.»
Mamma teneva le mascelle serrate, la ruga che cadeva a perpendicolo dalla narice al mento, recintando le labbra, era dura, immobile. Una delle poche rughe che ha a 64 anni. Scosse la testa, poi mi guardò e nei suoi occhi c’erano delusione e rigurgiti d’orgoglio: «Guarda che io e tuo padre non ci mettiamo niente ad andarcene.» Lo ripeté in dialetto, come se potesse dare più forza all’intenzione: «’Ndi imu, capiscisti?»
Espirai con sforzo: «E che c’entra questo. Chi vi sta cacciando?»
Lei proseguì come se io non avessi parlato: «Quello ci guarda storto e a te non va bene niente. All’età mia non permetto a nessuno di trattarmi così.»
Era proprio quello. L’età, l’esperienza. Danilo attizzava il fuoco, manipolava la mia impressionabilità con la tentazione dell’autonomia. Agivo in quel modo per provare, a me stessa e a loro, che ero autosufficiente. Potevo farcela da sola, non volevo interferenze, neppure quelle affettive. Pensai alla decisionalità esercitata dagli zii. Raffaele e Angela si erano sostituiti a Lauretta nell’educazione del figlio, e mi dissi che io l’avrei impedito. Dopo la morte di nonna Laura papà sembrava più unito ai fratelli, ancora una volta faceva la sua scelta di campo abbandonando noi. Adesso nella partita io avevo una pedina vittoriosa, Amalia. Se papà voleva rientrare in gioco, doveva seguire le mie regole.
Mi accorsi che stavo scivolando in una guerriglia insensata quando vidi il modo in cui papà guardava la bambina. Uscii in fretta dal bagno sentendo Amalia che piangeva, era in braccio al nonno. Scoppiai, liberando l’astio: «Papà! Ti avevo detto di non toglierla dalla culla! Stava buona, non lo vedi che ora strilla?»
Invece Amalia si era calmata e faceva su e giù nel breve perimetro del salone insieme a papà. Lui la fissava incantato. Capii che stavo sbagliando tutto, la rabbia m’impallidì sulle labbra e tacqui.
Invece Danilo trovò sua figlia con il nonno e continuò a tessere la sua offensiva. Dentro aveva riserve inesauribili di rancore per me, ma non credevo che potesse farlo deflagrare proprio in quel momento.
Amalia aveva ripreso a piangere, lui la requisì con freddezza: «La faccio smettere io.»
Mamma agitava davanti al faccino della piccola un carillon a forma di polipo della Fisher Price, ce lo avevano regalato Ambra e Alberto. Danilo si allontanò con un mezzo giro del busto: «No, con quello è peggio, non lo vuole».
Lo guardai scioccata: «Ma che stai dicendo?»
«Ti dico di sì, l’ho fatto suonare qualche volta e lei piange.»
Com’era successo? Stavo precipitando dalla felicità al dolore, un mantice mi soffiava via la benedizione lasciando un vuoto che ricominciava a fare paura. L’improvviso, aperto conflitto tra loro slabbrava gli orli alla reciproca affabilità di prima, che adesso identificavo nella sua reale natura, solo ipocrisia. Non riconoscevo più nessuno intorno, ero un ostaggio in balia di due parti che non avrebbero mai trattato per me, per liberarmi.

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6 Risposte to “Cecilia Musella, “Linea della vita”, 3”

  1. Felice Muolo Says:

    Continuo a leggere. Lo trovo sempre ottimo. Non capisco perchè Einaudi non si faccia vivo.

  2. Giulio Mozzi Says:

    Felice, ma tu sai chi si è fatto vivo e chi no?

  3. Felice Muolo Says:

    Ho pensato che, se Einaudi si fosse fatto vivo, la pubblicazione sarebbe stata sospesa.

  4. Giulio Mozzi Says:

    Qualcuno si è fatto vivo, e la pubblicazione continua.
    Io, peraltro, lavoro per Einaudi.

  5. Felice Muolo Says:

    Posso tirare a indovinare? Sarà pubblicato da Laurana e a Einaudi non interessa. Comunque vada, a me il romanzo piace.

  6. Giulio Mozzi Says:

    Ci hai preso per metà.

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