di Demetrio Paolin
[Nella finzione del romanzo che sto scrivendo, questa lettera viene scritta da Enea, ex deportato, a Bruno Vasri, ex deportato e presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati), nel giorno della morte di Primo Levi, ex deportato. dp]
Caro Bruno,
oggi, uscito dal negozio, ho camminato senza una meta precisa e son finito in piazzetta Bodoni. Lì vicino a pochi passi c’è casa tua. E io avevo una voglia matta di salire e stringerti le mani, di abbracciarti con quell’amore che solo noi possiamo darci. Ho pensato di fare i pochi passi che mi dividevano dal tuo portone e suonare al campanello. Sentirne il suono e poi la voce di tua moglie che mi dice di salire.
Perché hai deciso di sposarti, Bruno? E Primo o Bepi? Perché vi siete sposati e avete avuto figli, dopo quello che ci è stato fatto? Certe volte quando ci incontriamo di questo dovremmo parlare; del dopo. Di quando tutto si è calmato, come il corpo alla fine di uno sforzo, e siamo tornati alle nostre case. Dovremmo parlare di come siamo tornati alla vita usata. Io, ad esempio, che ho patito come voi la fame, sono tornato schifiltoso tanto da togliere la pelle del latte, quando mi dimentico il pentolino sul fuoco e si crea patina spessa che proprio non sopporto.
Come abbiamo fatto a tornare a fare le cose di prima? Ecco io volevo salire da te e chiederti questo: e te l’avrei detto stringendoti le braccia forte. Tu che sei un uomo enorme, grandissimo e di una bellezza che ammalia, m’avresti sorriso anche se oggi hai la morte nel cuore. Perché il tuo migliore amico che muore, perché il più grande scrittore italiano che muore e muore per mano sua, fa soffrire anche te, che sei una persona vivissima e potente con una forza da muovere armadi e monti.
Io non sono salito da te, perché non avevo voglia e non ho voglia, neppure ora che ti scrivo, di vedere il tuo sorriso che va bene nelle occasioni ufficiali con gli assessori alla cultura e i politici che ci invitano ai convegni. Io voglio parlare al mio compagno fatto di niente. Non all’uomo in salute dalle braccia forti, dalla postura nobile, ma a quello scheletrico che sembrava una giraffa, dal collo lungo lungo, con lo sterno che s’indovinavano le costole. La “cosa Vasari” che camminava dondolando il capo a destra e a sinistra nella fanga della cava di Mauthausen.
Così ho deciso di tornarmene a casa. Mentre camminavo, sono inciampato su qualcosa conficcato nel marciapiede. Mi sono fermato a guardare. C’era una specie di pietra scura, che sporgeva il giusto per farti cadere. Se ne vedono molte di queste a Torino o nelle città che sono state pesantemente bombardate. I detriti delle detonazioni si sono sparsi per centinaia e centinaia di metri e si sono conficcati in altri muri, nei marciapiedi. Sono segni, come le cicatrici sui corpi, di quello che è successo. Infatti, per quanto nessuno se ne ricordi, 45 anni fa in notti come questa i bombardieri lasciavano cadere il loro carico di bombe su mezza Europa. Ora quel periodo sembra lontanissimo come le guerre puniche. E così capita che senza saperlo uno c’inciampi e cada.
Tu Bruno sei così. Una scheggia infilata in piazzetta Bodoni, un bolide esploso a Mauthausen e arrivato fin qua. Tu sei piantato come un dannato nel cemento e non ti puoi muovere. Sei di scandalo per tutti noi, per la tua voglia, per la tua vita, per il tuo desiderio di ricordare, raccontare e resistere.
Come ogni anno ho trovato nella buca delle lettere il tuo invito per il 25 aprile e come ogni anno io non verrò, ma voglio provare a spiegarti perché, voglio raccontarti perché non vengo alla parata del 25 aprile. E te lo scrivo in questo giorno che va a finire, perché oggi Primo si è ucciso. Rincasando pensavo a Primo che mette prima un piede e poi l’altro sui fronzoli delle ringhiere liberty e fa un movimento minimo con la testa così da spostare il baricentro fuori dal suo corpo e perdere l’equilibro. Cade a testa in giù a conficcarsi lui nel pavimento di marmo appena lucidato dalla portinaia.
Io immagino il tonfo come quello delle uova quando cadono. Una cosa di nessuna importanza, che se stai passando l’aspirapolvere neanche te ne accorgi.
Ora si faranno migliaia di ipotesi sulla sua morte. E mi pare una cosa risibile se pensi che se Primo fosse morto a Auschwitz, nessuno l’avrebbe pianto. Sarebbe stato uno dei tanti che non sono tornati, uno dei molti mangiati in quell’immensa fabbrica di cadaveri.
Ora so già cosa mi ribatti: abbiamo perduto un grande scrittore. Ma quanti di quei sei milioni fatti in cenere, diventati saponi per le mani, paralumi per abatjour, concime per pomodori e insalata, sarebbero diventati grandi scrittori? Oppure lattonieri, infermieri, insegnanti, pittori. Chi ti vieta di pensare, tra quei sei milioni, l’esistenza di chi avrebbe sconfitto il cancro, di chi avrebbe portato l’uomo su Marte?
Primo è tornato e ha scritto, se non fosse tornato non avremmo potuto leggere i suoi libri bellissimi, se non ci fosse stato Auschwitz, sarebbe diventato forse un bravo chimico e nulla più. C’è troppo abisso in questi ragionamenti, il male è così profondo, così totalizzante che è diventato radice di una pianta i cui frutti siamo noi. Siamo i malifrutti, Ognuno di noi è deforme, sghembo eppur esiste, conduce una vita di sopravvivenza fino al giorno della propria morte. Un giorno, ormai maturi e senza significato, cadremo dall’albero e saremo poltiglia. Il giorno di Primo è stato oggi, e il mio? E il tuo?
Io però ti volevo dire perché non verrò neppure questa volta al 25 aprile, ma forse da queste mie parole già lo intuisci.
Ora tu immagina piazza Castello, la nostra bella piazza, nella mattina del 25 aprile illuminata da un sole caldo come oggi. La gente, le bandiere, le fanfare. I suoni di vittoria. Guarda i giovani e i vecchi insieme, antifascisti, partigiani. Comunisti, democristiani: tutti hanno i loro gonfaloni, mentre camminano verso la piazza ricordano i loro giorni, le loro battaglie. Loro sono reduci e i reduci possiedono la prepotente felicità di ricordare le sventure passate. Sono vivi perché hanno combattuto, non si sono piegati, sono vivi, certo hanno ucciso sapendolo. Hanno lottato per un ideale giusto di umanità.
Sfilano e sono felici. Noi veniamo dietro loro, nelle nostre giacche scomode, che ci prudono alla pelle, che ci stanno strane come i vestiti nei giorni di festa. Stiamo a testa bassa, in silenzio. Noi siamo superstiti. Non abbiamo nulla da ridere, solo la nostra esistenza nuda da portare. Ora pensa che se a tenere il discorso conclusivo fosse uno di noi. Le sue parole suonerebbero così
Io sono vivo perché qualcuno è morto al posto mio.
Io non sono vivo per meriti, perché ho avuto coraggio, perché ho combattuto una buona battaglia, ma solo per fortuna. Sono qui perché nel giorno della selezione io ero accanto a uno più magro di me, a cui avevo rubato nei giorni precedenti il po’ di pane che c’avevamo. Le sue costole erano più sporgenti, la sua pelle più sottile e il suo sguardo più vitreo del mio. Così alla selezione lui è andato a destra e io a sinistra. Lui è finito nel camino e io no. E io sono qui e lui sperso nei cieli.
Io sono vivo perché avevo le mani piccole.
I nazisti volevano prigionieri con le mani piccole, infatti non tutti i bambini/adolescenti venivano uccisi. Io sono vivo perché avevo le mani piccole, e si potevano infilare bene dentro le bocche spalancate dei morti. Il gas li uccideva nelle camere. Quando lo Zyclon B aveva finito il suo lavoro, entravano i compagni a caricarli fuori, e li portavano in un’altra stanza e li accatastavano. In quella stanza c’ero io. Non mi facevano impressione i morti, perché sembravano come i vivi, identici, solo fermi, senza più movimento. Il lavoro mio era facile, molti di loro avevano già le bocche aperte, disarticolate e ferme nell’urlo afono. Io prendevo le tenaglie e tiravo via i denti d’oro. Venivano via abbastanza facilmente, e li mettevo poi un secchio che quando era riempito lo portavano via.
Io ero fortunato perché toglievo di denti e per questo mi davano una razione migliore, altri miei compagni anche loro avevano le mani minute e piccole e ricevevano un rancio abbondante. Le loro piccole dita, però, entravano nell’ano di questi morti per controllare se s’erano ingoiati anelli o catenine o qualsiasi cosa di valore.
Io mi sono salvato perché avevo le mani piccole. Alcuni miei compagni pure. Gli altri sono sperduti nell’aria leggeri senza i loro denti d’oro o gli anelli che avevano mangiato per timore che venissero sequestrati.
Chiunque è tornato dal lager sa che un altro, sia esso uno sconosciuto, il nostro compagno di banco, nostro padre o nostra madre, è morto per lui.
Questo ho da dirvi. La nostra testimonianza è veleno, perché dovremmo essere morti e non lo siamo e di questa mancata morte ci vergogniamo.
Tag: Bruno Vasari, Demetrio Paolin, Giornata della memoria, Primo Levi
27 gennaio 2012 alle 10:42
Io volevo scherzare per Demetrio, perché Demetrio è un amico e spesso tra noi scherziamo; ma questo scritto è tanto potente che ammutolisco.
Non so se nella giornata della Memoria il silenzio sia concepibile, o concepito. Se memorizzare significhi, oggi, parlare.
Io non lo farò.
27 gennaio 2012 alle 12:00
Nella finzione del romanzo che Paolin sta scrivendo mi sembra che ci sia tanta parte di realtà. Ottimo.
27 gennaio 2012 alle 12:38
Il pianeta Terra
è in fermento
sembrano probabili eventi che
Bene o Male
ci sorprenderanno
incomprensioni brutali
potrebbero anche rovinarci il divertimento
27 gennaio 2012 alle 13:10
Man mano che andavo avanti a leggere mi dimenticavo che si trattava di una finzione, di un libro, tanto era vivo e reale quello che leggevo. E sono profondamente commossa.
Ora aspetto il libro, se tanto mi dà tanto…..!
27 gennaio 2012 alle 13:43
Splendido.
Una cosa sola (parola) che sento stonata:
“c’avevamo”
27 gennaio 2012 alle 14:09
“Chiunque è tornato dal lager sa che un altro, sia esso uno sconosciuto, il nostro compagno di banco, nostro padre o nostra madre, è morto per lui.”
Una curiosità: che cosa significa qui che un individuo è morto “per” un altro?
27 gennaio 2012 alle 14:16
pp.62-63 “I sommersi e i salvati” (Einaudi, tascabile).
“Hai vergogna perché sei vivo ?[…]. E’ solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia Caino di suo fratello, che ognuno di noi […] abbia il suo prossimo, e viva ”
il ‘per’ che usa Enea nel romanzo ha questa stessa pregnanza delle locuzioni che Levi usa e che io ho segnato con il simbolo
27 gennaio 2012 alle 16:29
E’ una pagina molto intensa, come pure la citazione da i ‘Sommersi e i salvati’ che ispira il ‘per’.
Sulla vergogna come esperienza etica: la citazione mi ricorda un passo parallelo de La tregua (cap. Il disgelo) in cui Levi descrive lo sguardo dei soldati russi su quel che resta del campo:
“Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”
Il medesimo tema (sguardo e vergogna) ritorna, poche pagine dopo (nel cap. ‘Il campo grande’), nella descrizione di Hurbinek, un bambino inerme di soli tre anni, paralizzato dalle reni in giù. Di lui, ‘figlio di Auschwitz, figlio della morte’, Levi dice:
“Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome. (..) La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con un’urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e maturo ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.”
Levi fu straordinario anche per la coraggiosa libertà nell’esplorare le zone d’ombra in cui il male manifesta la lunga efficacia della sua virulenza. La vittima che sopravvive è doppiamente vittima, vittima a lungo, vittima per sempre, in virtù di uno sguardo che ha assistito al male e lo ha impresso nella propria memoria. Uno sguardo che chiama a un indebito e crudele senso di correità.
Per il piccolo Hurbinek, per chi non tornò, Levi si fece testimone e fu la sua via personale per un riscatto che nessun altro avrebbe mai pensato di domandargli: “Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.”
Oggi l’orizzonte dei nostri sguardi è potenzialmente infinito. Assistiamo alla vita del mondo intero in tempo reale. Viene spontaneo chiedersi se esista ancora per le nostre parole un’urgenza di testimoniare per qualcosa o qualcuno oppure se proprio la pervasività delle immagini (sottratte all’esperienza del singolo e finalmente disponibili a tutti) abbia sciolto le nostre coscienze dal compito di provare quel confuso ritegno che Primo Levi riconosceva sul volto dei soldati russi. Se così fosse, sarebbe un danno epocale. Esiste infatti un legame tra quel disagio etico e il desiderio di comprendere e riconoscere l’infezione latente che cova nell’animo umano ed è questo, mi pare, il solo percorso capacedi smascherare, ancora oggi, i dogmi inespressi che alimentano, nella comune incoscienza, una cultura di morte.
27 gennaio 2012 alle 16:38
[…]
Se i profeti irrompessero
per le porte della notte
e cercassero un orecchio come patria
Orecchio degli uomini
ostruito d’ortica
sapresti ascoltare?
[…]
NELLY SACHS da ‘Le stelle si oscurano’ 1944-46
27 gennaio 2012 alle 16:54
elena in discorso sulla vergogna è molto lungo e complesso. sto provando da anni a scriverci qualcosa. vedremo in questi mesi. e le tue riflessioni soprattutto sul piccolo bimbo, e perché non ricordare la cosa somogy o la piccola emilia?, sono importanti.
27 gennaio 2012 alle 19:44
A me non è piaciuto. C’è troppa evidente realtà.
Ho letto tanto su lager e deportazione e, secondo me, questo scritto non è affatto potente.
Se io dovessi condensare in una sola parola lo stato d’animo di un deportato sarei indeciso tra morto e vuoto. Questo scritto non mi richiama nulla di simile: è vitale, pieno, c’è sentimento, curiosità, interesse.Mi sembra un compitino ben scritto: c’è tutto ed è li, in bella vista. E, proprio per questo, non rende.
Io non sono un addetto ai lavori, sono solo un lettore. Quindi non dare troppo peso alla mia opinione, prendila per quello che vale.
27 gennaio 2012 alle 20:14
ciao andrea.
prendo il tuo appunto con molto interesse anche se non lo condivido.
secondo me tu confondi lo stato d’animo del deportato, con quello dell’ex deportato.
l’atarassia del sasso con cui Levi descrive gli stati d’animo dei deportati durante la selezione finale.
però.
chiunque abbia conosciuto tipo bruno vasari, o lo stessi levi, ti potrebbe confermare che sono stati uomini vitali, curiosi e pieni di vita.
ciò non toglie che in certi momenti diventavano funerei e neri.
il romanzo che sto scrivendo non studia tanto il durante il campo, ma il dopo.
27 gennaio 2012 alle 20:56
Andrea: non discuto le attese del lettore. I gusti son gusti. Però lo “stato d’animo di un deportato” condensato “in una sola parola” fa del deportato una (pretesa) categoria dell’essere. Il bello della parola poetica è il suo essere un atto che rompe ogni pre-giudizio e illumina possibilità inattese, moltiplica le interpretazioni.
Il dolore assoluto, come pure l’idea del male assoluto (Hitler era un mostro, chi lo ha sostenuto o mostro o ignorante, …), è rassicurante: chiarisce bene dove stanno i buoni e dove i cattivi. Nel suo essere perennemente sospeso tra morte e vuoto il deportato (alludo al deportato letterario, non certo alle persone reali) diventa santo del suo patire, sconta una pena pregiudiziale, la sofferenza è la patente del suo essere un giusto. Ermengarda muore nel delirio febbrile e l’umanità intera è santificata dal suo sacrificio. E’ un punto di vista suggestivo, ma stretto. Soddisfa le nostre aspirazioni a un mondo comprensibile, ma non ci porta grandi guadagni.
Peraltro: mi pare di intendere dal frammento postato che il tempo in cui si svolge il racconto è il 1987. Sono trascorsi oltre quarant’anni dal ritorno al “mondo dei vivi”. Non mi pare strano che ci sia vita nella voce di chi racconta o in quella del Bruno raccontato. Il dramma è proprio questo: si sopravvive nella propria interezza di uomini e donne. Si mangia, si beve, si desidera, si ama, si respira felici di respirare. E’ accaduto a chi tornava da lì, accade a chi torna da altri luoghi (fisici e non) di dolore e di perdita. A tratti, proprio il desiderio di vita è la pena più difficile da sostenere.
27 gennaio 2012 alle 22:17
Il fatto è che siamo condannati a vivere anche quando lo strazio ci toglie il respiro ché troppe sono le cose che abbiamo viste e inenarrabili. Così ci trasciniamo negli anni speranzosi che sia almeno una condanna a cui ci si possa abituare. C’è chi ce la fa e chi come Primo Levi no.
27 gennaio 2012 alle 23:17
faccio fatica a tollerare un’opera di immaginazione su un evento come la shoah, io credo che si possa fare un romanzo sulla shoah, ma solo al modo in cui manzoni scrisse storia della colonna infame, non al modo in cui scrisse i promessi sposi: ma vedo che tu scegli la via mista. io rispetto la tua ambizione demetrio, e mi pare che queste pagine depongano per un tentativo stimabile. ma se penso a quanti si sono arrovellati perfino sulla mera possibilità della parola di esprimere il fatto in sé, sentito come indicibile e inimmaginabile… se penso alla domanda radicale se esista o possa esistere una lingua per esprimere la verità della shoah, se la parola possa contenere il martirio – cioè la testimonianza – che gli occhi e la carne tutta intera dei superstiti ci rendono… ecco credo che fare fiction sia qualcosa di oggettivamente presuntuoso e artisticamente errato. è lo stesso rispetto che ho provato per il libro di andrea tarabbia su beslan. anche ammirazione, perché ci vuole un sacco di cuore per fare una cosa così senza perdere l’anima (e lui non l’ha persa e sono pronta a scommettere che neanche tu). ma alla fine secondo me la fiction è la strada sbagliata e – al di là dell’intenzione retta – è una strada che mistifica. non voglio trarre un principio da questo mio pensiero. può darsi che questo sia solo un mio limite. ma in tutta sincerità mi piacerebbe instillare un dubbio. sei davvero sicuro di volere scrivere una cosa così?
28 gennaio 2012 alle 01:33
ciao paola
me lo sono chiesto e molto. L’idea del romanzo è nata in me anni fa. e solo tre anni fa – credo in maggio – dopo una lunghissima discussione proprio con giulio ho deciso che sì voglio scrivere una cosa così.
mi rendo conto della enormità di quello che provo a scrivere; è anche vero che la storia narrata del romanzo è più complessa, ma alla fine è la storia di un deportato.
mi sono domandato a lungo come scriverla, dopo che per anni mi sono occupato con saggi e articoli e conferenze di questo argomento. E alla fine penso che io non posso portare testimonianza, perché non sono stato; ma posso creare immaginazioni sulle testimonianze, posso far proliferare quelle immaginazioni. posso – dal punto di vista narrativo – spostare l’attenzione sul “per” oppure provare anche a svuotare stereotipi come l’ex deportato depresso e vuoto.
posso farlo se tengo fermo, per me, l’idea di non tradire ciò che è stato scritto e testimoniato e siccome questo poteva essere generico; ho deciso di usare come materiale solo le interviste, le confidenze che sono state fatte a me. Quindi nella narrazione che tu, spero prima o poi, quando sarà se mai sarà, leggerai ci sono diversi prismi: il narrato schietto della testimone che ha parlato con me, il suo narrato riversato su pagina, le sue impressioni dopo la lettura del riversato su pagina e le mie impressioni. In questo modo anni di conversazioni sono diventati in me come dei segni che ho provato a mettere su carta.
poi dal punto di vista strettamente tecnico ci sono altri accorgimenti. Il romanzo è narrato in terza persona, non in prima. Enea non è l’unico protagonsita etc etc.. ma non voglio come dire vendere la pelle dell’orso.
penutima cosa le citazioni leviane. Ovvio che scrivere in italiano di questo tema significa fare i conti con Levi; per me che Levi l’ho studiato e ristudiato significava o nascondere o mostrare a piena luce. Ho scelto la seconda.
28 gennaio 2012 alle 09:45
Personalmente non sopporto che l’esperienza del lager diventi materia da fiction per scrittori che la conoscono solo per averne letto o sentito dire. Ho detestato anche il film di Benigni.
28 gennaio 2012 alle 10:03
grazie della rsposta demetrio. non mi ha convinta, ma ovviamente è solo il tuo libro che potrà farlo. ciao
28 gennaio 2012 alle 10:56
A parte Levi, il libro più forte sulla Shoah che ho letto è questo, di cui ho postato qualche pagina sul mio blog:
http://valterbinaghi.wordpress.com/2009/10/02/il-farmacista-di-auschwitz-di-dieter-schlesak-garzanti-2009/
28 gennaio 2012 alle 12:12
paola, grazie a te per la domanda. Anche a me serve parlarne, e come sai bene non è mia intenzione convincerti; diciamo che mi interessa più spiegarti che le mie sono intenzioni oneste.
Lucio; io ho lavorato a stretto contatto con alcuni deportati di Mauthausen. A stretto contatto significa molti anni per molti giorni. Non a caso nel mio romanzo si parla di mauthausen e non di auschwitz o di belsen, perché di quei campi io non ho avuto nessuna narrazione diretta, diretta significa che queste persone quando ti parlavano, ti prendevano le mani, ti stringevano i polsi, cercavano di comunicarti qualche cosa, in un modo fisico. Poi credo che bisogna distingere tra l’aver letto e l’essere andato a fondo, con studi, ricerca, anni di lavoro su questi argomenti. C’è da dire che il romanzo narra vicende fuori e dopo il campo; non è quindi una fiction in presa diretta dentro il campo.
sulla vita è bella, credo che il discorso sia complesso. Il film non convinse anche me. e non convince neppure ora. Mi pare che abbia scelto un modo di raccontare lo sterminio ‘parodico’ (il gioco a punti, etc etc), c’è da dire che l’unico modo con cui alcuni romanzi italiani (penso a Nonno Rosentein nega tutto, e Lo zio coso) parlano dello sterminio sia proprio il grottesco e il parodico.
Io ho fatto una scelta diversa, ho scartato questa opzione a favore di un taglio più “serio”.
Io so nello scrivere questo libro che vado incontro anche a un possibile fallimento, lo metto in conto.
Valter: è molto bello sì. Io trovo anche molto bello, e più in linea con il mio lavoro, che Bella domenica di Semprun, credo edito da Passigli.
a tutti gli altri: grazie per la lettura.
28 gennaio 2012 alle 12:51
@demetrio. ecco, appunto, avrei preferito lo sbobinamento e la trascrizione fedele delle narrazioni orali dirette, o magari anche un saggio, però ovviamente fai come credi. il mio parere conta solo per me. buon lavoro
28 gennaio 2012 alle 13:07
Lucio certo, ripeto non voglio convincere te o paola: cerco solo di spiegare che dietro questa scelta non ci sono trucchi o trucchetti; ma scelte ponderate, in cui si tiene conto anche del rischio che voi mettete in risalto, e che in un certo senso io ho cercato di rendere minimo.
e grazie ancora.
28 gennaio 2012 alle 15:15
Mi colpiscono due cose. Primo: scrivere en romanzo d’invenzione che ha per protagonista un sopravvissuto alla Shoah significa parlare della Shoah? Per me non è così scontato.
Secondo: è interessante il tabù della Shoah, che non mi pare assimilabile a nessun altro ambito. Mi pare un tema curioso da esplorare. Perché posso raccontare senza averne esperienza diretta la perdita di un figlio, la disabilità, la violenza, l’assassinio, il carcere, la guerra, … ma non la deportazione?
Mi pare di leggervi una concezione quasi metafisica di quell’evento, ma io leggo la Arendt e mi convinco che questo è il vizio che consente alla banalità del male di dilagare. Non c’è un male più assoluto o un dolore più assoluto, ci sono, oggi come ieri, coscienze banalmente ottuse e anime ferite. Tutto ciò che è assoluto riguarda loro, tutto ciò che è banale e possibile riguarda noi.
Ogni volta che pongo un tabù, anche un tabù estetico, sottraggo quell’esperienza umana alla mia personale esperienza. Per Manzoni, la differenza tra la Storia della colonna infame e i Promessi sposi è nello scarto di verità che rende i secondi più densi di significato dell’opera storica. Con la storia comprendo ciò che è stato e con la finzione vivo, sperimento ciò che come essere umano posso essere. Per questo l’arte può (anche se non necessariamente deve) avere un effetto catartico, evolutivo.
Chi scrive un romanzo storico può fare un romanzo di cappa e spada o indagare la dialettica dei sentimenti e delle relazioni umane incarnata in un tempo lontano. Quel che conta è il risultato. Io credo che la parola tradisca con la felicità o l’infelicità del risultato l’onestà del percorso di ricerca o lo scimmiottamento inutile. E questo mi pare il solo limite a cui lo scrittore deve guardare.
28 gennaio 2012 alle 15:49
Aggiungo, scusandomi per la lunghezza dei post (l’argomento mi è molto caro), che al contrario di altri io sento maggiormente lo scrupolo deontologico della scrittura non inventata.
Lì le scelte possibili mi paiono due: la ricostruzione rigorosa ed asettica dei fatti nudi e crudi (che però non soddisfa il mio desiderio di comprendere e raggiunge pochi lettori, non è popolare nel senso positivo del termine, poiché raggiunge solo pochi specialisti) e la disamina degli aspetti più celati della vicenda, quelli che riguardano le persone e i loro sentimenti.
Questa via per ora è nella voce dei sopravvissuti (che pure raccontando reinterpretano e, per ragioni implicite nell’arte del racconto, fingono essi pure). I sopravvissuti sono sempre meno per ragioni anagrafiche e presto non avremo accesso alle loro risposte, per questo fioriscono e fioriranno opere volte a sezionare le loro parole al fine di farne emergere tutti i possibili (ma reali?) significati.
Ecco io trovo imbarazzante l’inevitabile e illusoria compromissione tra realtà e finzione della scrittura storica che si infila nelle pieghe della storia. Lo trovo imbarazzante almeno finché al mondo esiste anche una sola persona che abbia conosciuto e amato le persone di cui si parla, finché non potremo parlarne come si parla di Epaminonda o di Cristina Belgioioso. Quello è il mio tabù: la loro vita vera.
Preferisco il patto che il romanziere d’invenzione stringe col lettore: “guarda, sono solo un poeta, ti regalo il prodotto onesto della mia immaginazione, lo faccio perché sento anche l’urgenza di testimoniare attraverso la finzione qualcosa che io credo di aver scoperto; dunque non avrai realtà, ma invenzione, l’invenzione sarà la mia verità e tu saprai che potrai scegliere di non accoglierla ma non potrai attribuirmi la colpa di averti mentito”.
28 gennaio 2012 alle 19:09
A mio parere il brano è bellissimo, e credo possa esserlo anche un romanzo intero su queste premesse. Immagino che nessuno pretenda di immedesimarsi nello stato d’animo di un deportato… la Shoah è una di quelle esperienze per cui potrebbe usarsi la (per me) insopportabile banalità del “se non l’hai vissuto non puoi capire” e dunque non ne puoi parlare. Verissimo: chi di noi potrebbe “capire” anche minimamente cos’è successo, cosa è stato subìto? Sì, sono d’accordo su questo. Ma non sono d’accordo sul tabù che non se ne possa scrivere in un romanzo, o in un film. E’ solo questo, null’altro che un tabù. Sarebbe come dire che uno scrittore non possa scrivere la storia di un pedofilo o di un depresso se non ha esperienze dell’una o l’altra situazione; o al limite che un uomo non possa scrivere un romanzo in prima persona raccontando una gravidanza o un parto. Certo questi sono esempi che non reggono, perché il tabù in questi casi non è abbastanza forte.
Paolin spiega di aver raccolto, per anni, testimonianze di ex deportati, di aver vissuto a stretto contatto con loro. Perché non dovrebbe essere efficace nello scriverne in forma di romanzo – cioè mettendoci dentro, accanto alla realtà delle storie ascoltate, la sua introspezione di scrittore, la sua visione di umanità che ha attinto da quelle storie? Leggendo il brano è evidente che questo tema gli preme, non è un mero oggetto di fiction nel senso inteso più “basso” del termine. Dunque, l’unico giudizio dovrebbe essere sul lavoro finale – il romanzo – evitando pregiudizi sullo stile o il tono che, dal punto di vista del lettore, non sembra adeguato a quello che dovrebbe avere un ex deportato. Perché poi, cosa ne sa il lettore che non è stato deportato di come debba sentirsi un ex deportato? Se debba non aver più voglia di vivere o averne troppa? Se debba essere stato un pagliaccio per nascondere l’orrore al figlioletto come nel film di Benigni? E, a dirla tutta, cosa ne sa lo stesso ex deportato di come debba sentirsi un altro ex deportato?
29 gennaio 2012 alle 12:32
io più che di taboo parlerei di responsabilità. Quando si scrive una storia è necessario essere responsabili rispetto alla storia che scriviamo, alle persone che coinvogiamo nel racconto. Ecco. credo che riflettere sul raccontare sia anche riflettere sull’assunzione di responsabilità di uno scrittore rispetto alle sue parole.
29 gennaio 2012 alle 14:55
Concordo. Ho usato la parola tabù in modo improprio riferendomi alla vita vera. La scelta di usare una particolare attenzione con la storia di persone vive o ancora vive nel ricordo di chi le ha amate ha a che fare proprio con l’uso responsabile delle proprie parole.
29 gennaio 2012 alle 17:33
Viva la concordia – valore, nonostante tutto, sempre a galla.
29 gennaio 2012 alle 19:49
marco non ho capito.
29 gennaio 2012 alle 22:49
Che cosa?
29 gennaio 2012 alle 23:08
Il mio commento si riferiva al commento appena precedente di Elena, e non al tuo testo, Demetrio. E’ un po’ fuori tema. Il testo l’ho letto e l’ho trovato subito toccante, la riflessione sulla differenza tra i reduci e i sopravvissuti mi sembra luminosa.
29 gennaio 2012 alle 23:28
Il testo di Demetrio è parso toccante anche a me, come ho detto in principio. Il resto era una riflessione mossa da alcuni commenti infastiditi dalla finzione applicata ai deportati. Spiacente che non le abbia trovate pertinenti.
30 gennaio 2012 alle 10:39
Demetrio, non credo di confondere le due cose ma, ad ogni modo, non è importante: il tuo è un romanzo, non un saggio. La scelta è tua.
A tutti qui è piaciuto molto, e sono persone molto più esperte di me. Ho provato a rileggerlo a mente fredda: l’effetto rimane. Probabilmente sono io.
Comunque, trovo strana l’idea che uno scrittore non possa toccare alcuni argomenti. Più che il cosa, non dovrebbe contare il come?
1 febbraio 2012 alle 18:22
Uno scrittore non dovrebbe ricamare a effetto su questa faccenda, ma fare un passo indietro, rimanere in silenzio e lasciare parlare solo i protagonisti.
2 febbraio 2012 alle 01:23
felice, dove vedi il ricamare nelle cose che ho scritto, mi pare di aver spiegato abbastanza precisamente che ciò che ho scritto è preso proprio dalle parole delle persone che hanno subito quell’evento. potevo farne un libro intervista, ce ne sono molti e molto belli, o scrivere un romanzo. Ho deciso per la seconda. ma in nulla di quello che ho scritto c’è il benché minimo trucco o ricamo.
2 febbraio 2012 alle 10:38
Demetrio, il finale scioccante del pezzo, che trovo bellissimo, mi è sembrato sistemato ad arte. Ottimo per un romanzo.
Per restare in tema. Non ricordo il nome, tempo fa, una deportata scrisse le sue vicende di reclusa. Il libro ebbe un certo successo e l’autrice, accompagnata dal figlio, andava a presentarlo, specie nelle scuole. Il figlio morì e lei continuò a presentare il libro. Credi che avrebbe continuato, se avesse scritto un romanzo?
Senza rancore.
2 febbraio 2012 alle 14:48
Confesso di non capire le obiezioni di Paolab e Felice Muolo.
Sembra quasi che la fiction in quanto tale sia un mezzo inadatto (cosa dovremmo dire allora di un ‘opera come “Maus” di Art Spiegelman?). Il mio punto di vista è che chi scrive abbia il dovere di scegliere lo strumento che giudica migliore per raccontare al meglio ciò che si propone di scrivere. Se lo scrittore decide che questo strumento è la fiction, che usi la fiction. Se scegliesse la via del saggio magari arriverebbe a risultati insoddisfacenti, meno compiuti. E questo, sì, sarebbe irrispettoso nei confronti del tema trattato.
@Demetrio: (”Quando si scrive una storia è necessario essere responsabili rispetto alla storia che scriviamo”). Vero. E vale sempre, sia se si scrive della shoah, sia se si scrive un romanzo comico.
2 febbraio 2012 alle 23:28
Federico, hai dimenticato di citare anche l’obiezione di Lucio Angelini. Demetrio è libero di procedere come crede. E’ una questione di ‘stomaco’ più che di ‘strumenti’. Demetrio, bontà sua, dimostra di averlo. Ce l’aveva, del resto, anche Giulio, quando scrisse il famoso racconto Amore. Per cui, Demetrio, vai tranquillo.
6 febbraio 2012 alle 10:26
federico: infatti in Maus non c’è una briciola di fiction.
elena: ti sbagli. quando scrisse la colonna infame, manzoni considerava superiore quella forma (potremmo dire di saggio storico) a quella del romanzo. demetrio conosce benissimo manzoni e il suo percorso critico. se qualcun altro fosse interessato, consiglio la lettura del saggio manzoniano “Del romanzo storico o dei componimenti misti di storia e invenzione”, di cui attacco qui un brano che mi sembra faccia molto al caso nostro.
«Il mezzo, e l’unico mezzo che uno abbia di rappresentare uno stato dell’umanità, come tutto ciò che ci può essere di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri l’ultime e vittoriose parole che, nel momento più felice dell’osservazione, s’è trovato contento di poter dire a sé medesimo. Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d’alcune specie di fatti umani, ma qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani. È questa, dico, la storia che intendo d’opporre ai romanzo storico; e che s’avrebbe ragione d’opporgli, quand’anche essa non fosse altro che possibile. Ma, del resto, chi non sa che ci sono molti lavori di questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo scopo de’ quali è appunto di far conoscere, non tanto il corso politico d’una parte dell’umanità, in un dato tempo, quanto il suo modo d’essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici. Trovate forse, che, in questo ramo principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un tale intento poteva richiedere, da ciò che i materiali cercati e osservati con un proposito più vasto e più filosofico, potessero dare? che abbia trascurato d’occuparsi di certi fatti, o d’ordini interi di fatti, de’ quali non sentiva l’importanza? che non abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi fatti, che pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli altri, perché, a prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a lei, perché è la sola che possa riparare le sue omissioni. E c’è qualcheduno che, vedendo in particolare questa possibilità di far meglio, intorno a uno o a un altro momento del passato storico, si metta a una nova ricerca? Bravo! macte animo! frughi ne’ documenti di qualunque genere, che ne rimangano, e che possa trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti anche certi scritti, gli autori de’ quali erano lontani le mille miglia dall’immaginarsi che mettevano in carta de’ documenti per i posteri, scelga, scarti, accozzi, confronti, deduca e induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel momento storico, concetti molto più speciali, più decisi, più interi, più sinceri di quelli che se ne avesse fino allora. Ma che altro vuoi dir tutto questo, se non concetti più obbligati?
Che se, in vece di trattar col lettore come tratta con sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l’immagine che, in ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni, è apparsa al suo; la ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co’ rottami di essa e con una materia di tutt’altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata, vuoi farla vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il fine; allora la ragione delle cose, la quale non sa nulla di questi progetti, ed è avvezza bensì a mantenere, e con gran puntualità, i suoi impegni, ma non quelli degli altri, non solo non permette che da un tale impasto resulti una rappresentazione più compita d’uno stato reale dell’umanità, ma nemmeno quella meno particolarizzata, che poteva resultare dal ritratto sincero delle cose reali. Ché il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui, e quindi l’ingrandirlo con del verosimile, non è altro, in quanto all’effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire.»
6 febbraio 2012 alle 17:00
Non sono certa di avere tutti i vostri riferimenti bibliografici, ma provo a dire quel che ho inteso di un autore che ho studiato anch’io e che mi interessa molto. Quando scrissi “Per Manzoni, la differenza tra la Storia della colonna infame e i Promessi sposi è nello scarto di verità che rende i secondi più densi di significato dell’opera storica. ” “Per Manzoni” valeva “per quanto concerne Manzoni”
Il saggio “Del romanzo storico o dei componimenti misti di storia e invenzione” testimonia la coscienza di un nodo complesso al limite dell’aporia: il rapporto tra vero poetico e verità positiva dello storico.
Qualunque dogmatismo in questo campo pare a me (non a Manzoni) inadeguato, si danno a mio avviso (anzi si osservano) soltanto soluzioni più o meno felici a seconda dell’autore e dell’opera.
Constato che il Manzoni che oggi sopravvive è il romanziere non il saggista che testimonia l’esaurirsi del proprio percorso poetico in una direzione che non è più letteraria, ma appunto saggistica. A dar retta all’ultimo Manzoni dovremmo sentire preminente il valore della storiografia e decretare la morte del romanzo; non solo quello storico, dato che neppure le narrazioni contemporanee, nemmeno se fondate sulla propria esperienza biografica eliminano il problema del rapporto realtà/finzione.
Il successo dei Promessi sposi tradisce, è vero, la volontà ultima dell’autore, ma non si tratta di un fenomeno isolato: oggi leggiamo la Liberata con maggior frequenza e piacere della Gerusalemme conquistata, che pure parve al sua autore più risolutiva in rapporto a scrupoli artistici e morali, non meno importanti (per lui) di quelli manzoniani. In entrambi i casi la posterità sceglie e non sempre la volontà ultima dell’autore coincide con il giudizio dei lettori.
Qualcuno associa il saggio Del romanzo storico a un severo giudizio di Goethe sulle parti palesemente storiografiche del romanzo e certo la narrativa ottocentesca si avviava nei decenni successivi a uno sguardo più incentrato sulla contemporaneità; forse ciò ha un peso su uno scrittore che come tutti è inserito nel proprio tempo o forse no. Comunque sia, davvero non c’è alternativa tra fantasia disancorata dalla realtà e storiografia? A me pare che il problema del rapporto tra verità poetica (verisimiglianza) e verità positiva non riguardi solo la narrazione storica, ma quasi tutti i generi narrativi, forse con l’esclusione del fantasy.
10 giugno 2012 alle 02:01
http://www.stormfront.org/forum/t884400/
ho raccolto una ventina di pagine di “testimonianze” sulla shoah,… magari a qualcuno può interessare, cordiali saluti
10 giugno 2012 alle 07:27
Biomirko, ti rivelo una grande verità. In Italia non si è mai svolto il campionato di calcio. Mai. Proprio mai. Certo, tutti ne parlano. Ma basta notare che ciascuno ha del campionato stesso un’opinione diversa – anche sul numero degli scudetti vinti dalla Juve, per dirne una – per rendersi conto che, in realtà, sono tutte fole.
12 agosto 2012 alle 18:30
Mi importa nulla di campionati o altro… mi interessa quello che dicono i sopravvissuti, e analisi storiografiche e i riscontri sulle loro presunte testimonianze.
Un “piccolo esempio”:
Tutti i testimoni cosiddetti oculari affermano che i cadaveri dei cianidrizzati avevano uno strano colore. Riguardo alla prima gasazione:
i testimoni Banach, Kurant e Weber parlano di cadaveri bluastri, il testimone Halgas di cadaveri verdi, il testimone Wolny di cadaveri blu, il testimone Kula di cadaveri di colore verdognolo, il testimone Kielar di cadaveri blu, quasi viola-nero.
Secondo le testimonianze (cosiddette) oculari avremmo di fronte dei cadaveri di individui morti per intossicazione da acido cianidrico di un colore che varia dal blu al nero.
(…)
Il colore delle ipostasi, normalmente rosso vinoso, assume tonalità cianotica nelle morti asfittiche, rosso viva nell’avvelenamento da CO, blu ardesia negli avvelenamenti da sostanze metaemoglobinizzanti, rosso accesa nell’avvelenamento da acido cianidrico e cianuri, rosso-rosee nei cadaveri degli annegati sia per rallentamento dei processi di ossidazione dovuti alla bassa temperatura, che per diffusione di ossigeno attraverso la cute umida. quando sopraggiunge la putrefazione le macchie ipostatiche assumono un colore rosso verdastro.
(…)
fonte: http://digilander.libero.it/fadange/medicina%20legale/tana.htm
….due spiegazioni:
1 – Nei KL nazionalsocialisti si diventava daltonici
2 – I testimoni non hanno MAI visto un cadavere di cianidrizzato (di colore rosso acceso) e quindi hanno mentito.
quale “opzione” sceglie sig. Mozzi???
P.S: le pagine del mio 3d sono aumentate… di “materiale” ce n’è tantissimo.
Cordiali saluti
12 agosto 2012 alle 18:46
Biomirko: le macchie ipostatiche cominciano a vedersi circa un’ora dopo la morte; il loro colore si stabilizza dopo dieci-dodici ore. Se tu e io vedessimo lo stesso corpo a distanza di qualche ora, vedremmo macchie di colore diverso. (La prima stima che i medici legali fanno, circa il tempo trascorso dalla morte di una persona, è basata appunto sull’estensione e la colorazione delle macchie).
Questo dice l’enciclopedia.