Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti

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[…] Raccontare una storia fittizia come se fosse vera, d’accordo: ma perché raccontare una storia come se fosse la mia storia? Anche per questo bisogna riportarsi al panorama che ho descritto più sopra: ero infastidito, e umiliato, dalla inoffensività a cui è condannato oggi il romanzo, a causa del diluvio di storie che vengono quotidianamente prodotte dai media. Mi ero accorto che leggevo una storia con più interesse, e ne ero più colpito, se sapevo che era una storia realmente capitata a persone vere; allora ho pensato di utilizzare i meccanismi dell’autobiografia (ricordo che rilessi e postillai con attenzione Le pacte autobiographique di Philippe Lejeune), i suoi trucchi anche formali (l’esitazione a fare i nomi, il modificarsi della scrittura a causa di eventi che sopravvengono…), per minare l’indifferenza del lettore. Volevo fargli sparire dalla faccia quel tranquillo sorriso con cui si appresta, di solito, a leggere una storia anche atroce, ma che porta sul frontespizio la rassicurante scritta ‘romanzo’. […]

Queste interessanti pagine di Walter Siti si possono leggere in Le parole e le cose.

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15 Risposte to “Il romanzo come autobiografia di fatti non accaduti”

  1. vbinaghi Says:

    Molto suggestiva la chiusa:
    “Quello che invece non mi convince più è il “tornare a se stessi” come mossa cartesiana per difendersi dalla generale incertezza: non credo più che l’autoanalisi sia garanzia di verità, né credo che l’individuo sia più autentico del teatro sociale – l’io non è più laboratorio di niente”

    Implica che in altri tempi le cose andassero diversamente. Che il processo di formazione dell’io come determinazione singolare (eppure in qualche modo esemplare, visto che si proponeva come narrazione biografica) abbia lasciato il posto a una sorta di pedina intercambiabile in quello che comunque è percepito come un universo di finzione. Visto che non è certo il dettaglio fisiognomico che manca ai personaggi del romanzo contemporaneo, se ne deduce che ad eclissarsi è la libertà e la spontaneità del soggetto. ridotto alla somma dei suoi condizionamenti sociali. Quella di Siti appare come una resa totale all’antropologia positivistica, nel momento stesso in cui ne denuncia il carattere letale. E’ per questo che si può parlare di un nichilismo intrinseco alla cultura post-marxista, anche nei suoi rappresentanti migliori (come Siti, appunto)

  2. enrico Says:

    Siti scrive: “L’ambizione, rinascimentale e poi romantica, che la letteratura fosse una forma di educazione, sta scomparendo”. Oh no, non penso, no. E poi non so come legge Siti i risultati più sconvolgenti delle “ambizioni” post-romantiche in letteratura, cioè la lettaratura come formazione umana non va più in là del romanticismo?… Se non leghi la letteratura a una forma di “formazione dei sentimenti” come vai in una classe a fare lezione di italiano? (Per fare un esempio). Ma, certo: c’è un’altra categoria della “utilità” della letteratura: quella che è una trasgressione (io direi: una avventura nel regno di ciò che chiede di essere espresso ed è senza voce). Ma certo! Ma la “trasgressione”, il pugno nei denti, lo svelamento del dicibile, bhe, ma quello CONTRIBUISCE alla formazione del sentire, se no è una forma di agitazione, è un bisogno – controverso – di venire accettato, forse dal mondo luccicante dei “media”?… (non so: fari l’esempio di Testori, la grandezza di Testori…)

  3. enrico Says:

    @ valter. Un appunto. Se si legge il testo di Siti completamente, l’affermazione: “l’io non è più laboratorio di niente” è radicalmente contraddetta: Siti stesso fa della sua autobiografia (mantiene il nome, ma varia i dati della biografia di “un nome” da un libro all’altro ecc.) davvero un laboratorio dove plasmare un altro “sé” (che a un certo punto pare più reale del sé in carne ed ossa) ecc. Direi che nella tua foga polemica: versus un presunto nichilismo dei post-marxisti (cosa c’entra con il testo di Siti? In più, non so bene di cosa stai parlando…), ti sei dimenticato di ascoltare, persino la lacerazione di una domanda e di una riflessione.

  4. vbinaghi Says:

    @Enrico
    Ho commentato diffusamente il testo di Siti su “Le parole e le cose”. Il post-marxismo c’entra e come, perchè è con quell’idea di realismo e di letteratura che si continua a misurare la decadenza vera o presunta del romanzo contemporaneo. Tu invece, che ti credi così attento lettore, non ti sei accorto che le righe iniziali sono scritte a popsteriori di quello che è un testo di anni fa, e con le medesime Siti confessa la parziale dismissione del suo “esperimento” precedente.

  5. enrico Says:

    Hai ragione,Valter, faccio ammenda: sono stato un lettore “strutturalmente” deficitario: dunque grazie: c’è un Siti 2 che contraddice radicalmente il Siti 1 del “manifesto” ma il Siti 1 non argomenta granché; lo dico senza nessun intento polemico: semmai rimandami a dove hai scritto più diffusamente: mi fai capire cosa c’entra il post-marxismo (il nichilismo del post-marxismo) nel “travaglio” intellettuale di Siti? te ne sarei grato: per capire meglio. Mi piacerebbe acnhe sapere coasa ne pensi tu nel merito. ciao

  6. vbinaghi Says:

    Ho scritto parecchio sul post originario ne “le parole e le cose”.
    Sul marxismo in breve il problema è questo: è marxista la concezione del realismo in nome della quale si riconosceva al romanzo soprattutto ottocentesco la capacità di svelare le contraddizioni del mondo borghese, così come è di matrice marxista la funzione “utopica” e/o “negativa” che si è riconosciuta alla letteratura del novecento (ad esempio da parte della scuola di francoforte). In entrambi i casi, ci si appoggiava a una realtà sociale che appariva dinamicamente abitata da antitesi storiche e antagonismi di classe. Di fronte all’epoca attuale, in cui il sociale appare interamente immanente a sé stesso, sprovvisto di qualsiasi possibilità evolutiva, il marxista è obbligato a dichiarare non la morte dell’arte, ma la sua riduzione a universo puramente spettacolare, ed è questo che in fondo confessa Siti1, che evidentemente da un’estetica para-marxista non si libera. In questo sta il carattere nichilistico del marxismo, nell’impossibilità di valorizzare un mondo non-dialettico, cioè diverso da quello che è nato per interpretare. Ma, se si accetta che l’estetica marxista (e prima ancora l’antropologia che la sostiene) sia solo un’ideologia ottocentesca, per quanto capace di influenzare largamente il secolo posteriore, allora c’è la possibilità di liberarsene, e di restituire all’arte la sua trascendenza sulla prosa del mondo, trascendenza che, come avevano già compreso Schopenhauer e Nietzsche, è di carattere metafisico o se preferisci meta-storico.

  7. Federico Platania Says:

    @Valter (e Enrico):
    Proprio in questi giorni sto leggendo un saggio (a mio giudizio interessantissimo) di Giovanni Bottiroli (“Che cos’è la teoria della letteratura”, Einaudi). Anche Bottiroli stronca senza mezzi termini i teorici post-marxisti, più o meno per gli stessi motivi da te illustrati.
    La cosa piuttosto sorprendente è che nei capitoli precedenti ha magnificato Freud. Tra l’altro, anche in un altro saggio (anche questo meritevole) letto da poco (“Trame” di Peter Brooks, sempre Einaudi) si dava largo spazio alle teorie freudiane nell’analisi letteraria.
    Sarà per una mia diffidenza di fondo nei confronti della psicanalisi (e soprattutto quando viene usata come passepartout per spiegare qualunque cosa), ma resto sempre un po’ stupito nel vedere come Freud ancora cicci fuori quando meno te lo aspetti.

  8. valter binaghi Says:

    E’ che Freud dà pochi strumenti per capire l’arte ma molti per comprendere l’artista. E il soggetto non perde mai di attualità, specialmente nell’epoca del narcisismo conclamato.

  9. Federico Platania Says:

    @Valter: “Freud dà pochi strumenti per capire l’arte ma molti per comprendere l’artista”

    Già, ma non è strano che i più freudiani siano proprio gli strutturalisti i quali (semplificando molto, lo ammetto) dichiarano che è l’arte a essere oggetto del loro studio e non l’artista che l’ha creata?

  10. andrea barbieri Says:

    La chiusa di Siti citata da Binaghi che riporto:
    “Quello che invece non mi convince più è il ‘tornare a se stessi’ come mossa cartesiana per difendersi dalla generale incertezza: non credo più che l’autoanalisi sia garanzia di verità, né credo che l’individuo sia più autentico del teatro sociale – l’io non è più laboratorio di niente”

    letta per quel che dice, dice che Siti ha smesso di credere che l’autoanalisi sia garanzia di verità.
    L’informazione implicita è che Siti prima era convinto del contrario, non che secondo Siti il mondo prima funzionasse diversamente da come funziona ora (rispetto alla verità dell’autoanalisi).

  11. Giulio Mozzi Says:

    Non ho mai creduto che l’autoanalisi potesse essere “garanzia di verità”. Mi ritrovo invece convinto (e non sono in grado di argomentare) che il mio corpo possa essere (possa essere; non che sia senz’altro) una via verso la verità.

  12. monica Says:

    l’autoanalisi contrapposta al corpo? come dire, oltre al corpo siamo qualcosa che ha che fare con l’autoanalisi? poi, che figura retorica è che sembra li contrapponi, ma dei due dici cose non opposte, né contradditorie?

  13. Giulio Mozzi Says:

    L’autoanalisi passa di solito per essere “analisi della propria psiche” (eventualmente: della propria psiche collocata in un contesto economico, sociale, politico). Nella parte greca della nostra tradizione la psiche (l’anima, la mente ecc.) è generalmente considerata in opposizione o in distinzione rispetto al corpo.
    Siti dice: “l’io non è più un laboratorio di niente”, e credo si possa dire che l’ “io” è stato considerato per secoli come un prodotto della psiche, appunto; e non del corpo. La pura e semplice idea di “immortalità dell’anima” (che non è roba cristiana, bensì greca, platonica) dice che il corpo non conta nella costituzione dell’individualità.
    Il mio sentimento, la mia (non argomentabile) convinzione è invece che proprio il corpo fondi l’ “io”, se di “io” ha senso parlare. Tu e io, Monica, potremmo unire in un’estasi ((dal greco ἐξ στάσις, ex-stasis, essere fuori): stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita a volte come estraniata dal corpo; da Wikipedia) le nostre psiche (anime, menti ecc.), ma i nostri corpi resteranno comunque separati.

    Siti non ha mai creduto che l’autoanalisi potesse essere “garanzia di verità”. Io di garanzie di verità non sento particolare bisogno: tendo a percepire come autoritario qualunque tentativo di offrire, e quindi anche di chiedere, “garazie” sulla “verità”.
    Penso, più modestamente, ma credo anche più criticamente, che possiamo individuare delle “vie possibili” verso la verità. Una di queste è il ricongiungimento con il proprio corpo, il riconoscimento della propria individualità come individualità corporea, l’unificazione del sentimento di sé: non più anima che abita in un corpo, ma tutt’uno (e questa è, in effeti, roba cristiana: la promessa cristiana non è infatti di immoralità dell’anima, bensì di resurrezione della carne).

    Sono riuscito a spiegarmi, Monica?

  14. andrea barbieri Says:

    Giulio, ma tu pensi che il corpo sia un dato puramente oggettivo?

  15. monicawinters Says:

    forse sì, grazie

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