[Come ho spiegato qui, pubblico in questi giorni una serie di estratti dai lavori in corso degli “apprendisti” della Bottega di narrazione. gm].
Mi chiamo Silvia Montemurro, sono nata il 10 agosto 1987, a Chiavenna. Mi sono iscritta alla Bottega perché avevo una storia da raccontare e non volevo tenerla solo per me.
Questa è una storia inventata, ma trae spunto da una reale vicenda di cronaca nera avvenuta nel mio paese una manciata di anni fa. È il racconto di un omicidio, ma anche di una crescita. La protagonista è Vanessa, una giovane donna dal passato già segnato, che ritorna al paese natale, per ritrovare sé stessa, prendere una decisione riguardo alla sua gravidanza e soprattutto affrontare ricordi oscuri. (s.m.)
da L’inferno avrà i tuoi occhi
di Silvia Montemurro
1.
Dieci giorni, le hanno detto. Per ripensarci, s’intende. Vanessa non sa se l’hanno ripetuto più volte perché l’hanno vista confusa, oppure se sia la prassi. Forse stavano semplicemente cercando di fare il loro mestiere nel modo più adeguato possibile. Dieci giorni le sembrano un’eternità. Quando uno prende una decisione difficile, dieci giorni per ripensarci sono decisamente troppi. Potrebbe cambiare idea per una settimana e poi ripresentarsi lì più convinta di prima. Certe scelte non dovrebbero avere scadenze.
Vanessa ha una mano sulla pancia, se l’è portata istintivamente, al ricordo dell’incontro coi medici. Forse lui laggiù, o là dentro, a seconda dei punti di vista, può sentire i suoi pensieri. Dicono che sia possibile, perché in fondo non tutto il cervello è conosciuto, molti meccanismi rimangono un mistero. Vanessa vorrebbe avere la facoltà di pensare sottovoce, ma non sa come si fa, allora i suoi pensieri urlano e arrivano direttamente al pezzettino di nuova vita nel suo utero.
Il treno è appena partito, ha lasciato la stazione di Roma Termini con un ritardo irritante, per una che ha scelto di partire il prima possibile. Gocce di pioggia si schiantano sul finestrino, mentre il Frecciarossa acquista velocità.
Ha avvertito solo Luca, della sua improvvisa partenza. Non sembrava molto contento. Vanessa riesce ad avvertire nel suo sguardo un sospetto che non lo abbandona, come se lei fosse capace di nascondere dietro la schiena un coltello e tirarlo fuori quando meno se lo aspetta.
«Non mi avevi detto che partivi», ha protestato mollemente.
«L’ho deciso all’ultimo momento.»
«E quanto starai via?»
«Dieci giorni.»
Si sono guardati e Luca ha cercato di leggerle la mente. Senza risultato. I suoi occhi color ambra si sono spenti. Succede sempre così, quando non riesce a raggiungerla, quando lei scappa nel turbine delle sue tenebre e lo fissa dall’alto della disperazione.
«Dieci giorni. Come mai così tanto?»
«È il tempo che mi serve.»
«Il tempo che ti serve a fare cosa?»
«Il tempo che mi serve. Nient’altro.»
Luca ha acceso una sigaretta e si è ficcato in gola due o tre respiri di veleno. Non gli è servito.
Da quando lo conosce, ha sempre cercato di seppellire il dolore, come se buttarlo fuori gli facesse male. O lo rendesse fragile. Vanessa avrebbe voluto che insistesse. Sarebbe stato meglio se l’ avesse presa per un polso e chiesto che ci devi fare, lassù. Dimmelo o non ti lascio andare.
Invece no. Ha finito la sua sigaretta fissandosi le scarpe.
È colpa di Vanessa. È stata lei, all’inizio della loro storia, ad avvertirlo: tutto ma non una cosa seria. Entra nel mio confine e mi perderai per sempre. Questo in realtà non gliel’ha proprio detto, ma sicuramente lui l’ha capito e ora ha paura di perderla. Altrimenti non avrebbe spento il mozzicone di sigaretta senza proferire parola, non le avrebbe lasciato sulla guancia quel bacio intirizzito di fumo, non l’avrebbe salutata con un allora ci vediamo poi quando torni. O forse sì. Forse a lui sta bene questa situazione.
L’uomo che ha di fronte continua a fissarla, attratto dalla sua mano sulla pancia, dalla valigia interposta tra le sue gambe e quelle di lui, non è riuscita a metterla sul portabagagli, era troppo pesante. Quello sguardo la infastidisce.
Non ha avvertito nessuno del suo arrivo. La paura che il padre le facesse cambiare idea era troppa. Non vuole ricordare le sue parole, quelle stesse parole che le ha detto quando si era proposta di andarlo a trovare, per Pasqua: no non venire, pensaci bene, pensa all’ultima volta che sei tornata, è successo un casino, pensa a come ti guardavano tutti, pensa che mentre stavi passando un ragazzo ha preso un sasso e tu ti sei coperta il viso con le mani, pensa che per te è meglio stare lontana da qui, tu sei nata e cresciuta qui ma questo posto non ti appartiene più.
Lo so papà, aveva risposto allora. Ma adesso è diverso. Ha bisogno di tornare per decidere. È l’unico posto in cui può fare questa scelta. Quando la vedrà arrivare con la valigia e gli occhi stanchi e tutto il resto la farà entrare.
Il signore non le stacca gli occhi di dosso. Ha l’aria di uno che la sa lunga, con quei baffetti disegnati sotto gli occhiali. Potrebbe benissimo essere un professore, ma l’apparenza inganna. Magari è un avvocato. Ma lei non ha tempo per fantasticare sulle vite degli altri. La pioggia continua a scendere, inonda la campagna, e Vanessa si ritrova a pensare che forse a Chiavenna sta nevicando. Da bambina la prima nevicata era qualcosa di spettacolare. Un po’ come una magia. Andava a letto con i brividi nelle ossa e non capiva il perché, si chiudeva gambe e braccia sullo stomaco ma continuava ad avere freddo. La mattina si svegliava e aveva ancora quella sensazione di gelo sulla pelle, faceva fatica ad alzarsi, le palpebre rinsecchivano le pupille.
«È arrivata» sentiva gridare entusiasta la madre, dalla cucina.
Allora si gettava fuori dal letto e correva da lei. «La prima nevicata dell’anno, è arrivata.»
Come sempre, la neve coglieva Vanessa di sorpresa. Aveva sempre trovato piuttosto inspiegabile che proprio mentre lei dormiva il tetto si riempiva di fiocchi bianchi che non facevano rumore e coprivano tutto e davano un senso di ovattato silenzio, tanto che anche solo a parlare, nel manto bianco, uno si sentiva osservato. Capita sempre così, che quando meno ci credi, la vita arriva e ti regala un evento inaspettato. E non funziona se ci pensi, non serve a niente forzarsi di provare i brividi di freddo anche quando non li senti, non serve a nulla forzare qualcosa che non vuole accadere. Ci provò più di una volta a far arrivare la neve quando aveva voglia di sorprese. Non le riuscì mai.
«Signorina, siamo quasi arrivati» La voce proviene dal bianco della neve nella sua testa.
Si tira su di scatto, sente la saliva umida che le cola da un angolo della bocca. Ha dormito davvero così tanto? Guarda fuori dal finestrino e vede solo rotaie e treni che si accodano per entrare alla Stazione Centrale di Milano. Il cielo è offuscato, ma ha smesso di piovere, qui. Il signore baffuto ha un’espressione divertita, magari per tutto il tempo che dormiva non le ha tolto gli occhi di dosso, avrebbe potuto anche accarezzarle i capelli e non me ne sarebbe accorta.
Si sistema la maglietta e prova a infilare il cappotto da seduta. Vorrebbe urlargli in faccia che la pianti di star lì a guardarla, che faccia qualcosa, qualsiasi cosa ma si levi quell’espressione sardonica di dosso. Il signore si alza, indossa il cappello, prende la sua valigetta e si avvia verso l’uscita e così fanno tutti i passeggeri, chi sbadigliando, chi imprecando perché siamo in ritardo di venti minuti e cosa li fanno a fare i treni veloci se poi si rivelano più lenti degli altri. Ecco, è finito il tormento. Chissà cosa si credeva. In fondo era anche normale che la fissasse: gli stava davanti, che altro poteva guardare?
Una fitta alla pancia, mentre si decide ad alzarsi. Solo allora le viene in mente di non essere sola. In mezzo a lei, ma dentro dentro, c’è un cosino che forse si muove e forse no, sottovuoto nel suo utero. È a lui che Vanessa traduce i suoi pensieri, mascherandoli in favole improbabili.
Non è ancora arrivata. Ci vogliono altre due ore di viaggio, per giungere a Chiavenna.
Cerca sul tabellone il capolinea, Tirano e si accorge che il treno partirà tra dieci minuti Si fa largo tra l’ammasso di corpi e odori di gente che si spinge e corre e sbraita e impreca e dannazione fatemi passare e attenta con quella valigia, mi scusi ma non l’avevo vista e la corsa per Parigi è stata annullata per lavori in territorio francese.
Raggiunge un sedile sgualcito e liso, appoggia la testa che le sta pulsando e non può fare a meno di ricordarla, in quel momento. Sarà colpa di quella ragazzina smunta che le è appena passata vicino e aveva le gambe magre e spigolose come le sue. Sarà stato il modo in cui si è seduta sul sedile a fianco al suo, lasciandosi cadere come si lascia andare uno strofinaccio vecchio nel cassonetto della spazzatura. Sì, è stato quando si è seduta quella ragazzina, che Elena le è tornata alla mente.
«Dai, Vane, ci facciamo una bella bigiata.»
«E dove vuoi andare?» Questa è la voce di Vanessa, protesta flebilmente ma le ha già detto di sì.
«Da qualsiasi parte, lontano da queste quattro montagne di merda.»
«Ma dobbiamo tornare a casa per cena.»
«I treni partono ogni due ore, ci riusciamo!»
L’ultima è la voce di Samantha, sempre in bilico conciliante tra il suo scetticismo e la pazzia di Elena.
Quel giorno andarono a Lecco, a un’ora e mezza da casa. Tre sedicenni annoiate, che pur di provare un brivido erano disposte a giocarsi l’anno. C’era il viso di Elena premuto contro il suo petto, la sigaretta nascosta al passaggio del controllore, l’allungare i piedi su un sedile sgualcito uguale a quello dove è seduta adesso Vanessa. Forse era persino lo stesso treno. Da qualche parte avevano scritto con il pennarello nero: Elena, Sami e Vane forever. C’era quella voglia di evadere e provare emozioni nuove che incalzava sempre, era sempre più forte, travolgeva lei e le altre due in un vortice inarrestabile.
Una corsa su un treno con destinazione ignota. Quella non fu l’unica bigiata. Ma sicuramente fu la più intensa. Mentre il treno si ferma proprio a Lecco, la figura alta e snella di Elena le si para davanti, le sue smorfie in riva al lago sono più vere della pioggia che batte contro il finestrino.
Elena che urla, Elena che spaventa i piccioni accoccolati sulla riva, Elena che ci rincorre con un bastone lungo e sporco tra le mani. Elena che poi si siede su una panchina, una mano nella sua e sussurra «Noi da qui ce ne andremo, noi diventeremo qualcuno.»
I suoi occhi di ghiaccio diventavano di un colore ancora più intenso, quando fantasticava. Si perdeva in un tempo tutto suo e Vanessa si lasciava vincere da quelle fantasie, osservando stupita come il lago giocava a formare strani riflessi nelle sue pupille.
«Tu che vuoi fare da grande, Vane?» le chiese quel giorno, mentre sedute al tavolino all’aperto di un bar si concedevano un gelato.
«Non lo so» rispose.
«Come non lo sai, un sogno lo devi pur avere anche tu!»
Il gelato prese il sapore rancido dell’incertezza. Samantha leccava il suo con scarso entusiasmo, la matita sbavata attorno agli occhi color ambra. Entrambe la fissavano alla ricerca di una risposta. Con loro era sincera, ma mai fino in fondo. La versione delle sue idee cambiava a seconda delle loro reazioni. Erano le sue migliori amiche, ma non la conoscevano.
«Voglio guadagnare tanti soldi…»balbettò stupidamente. In realtà non ci pensava proprio, al denaro. Disse la prima cosa che le venne in mente. La più scontata.
Samantha ed Elena scoppiarono a ridere in contemporanea. Erano sempre in sintonia su tutto.
«Puoi iniziare già oggi…»sussurrò Elena, allungando una mano verso la sua maglietta e fingendo di sistemarle il seno «due pere così farebbero impazzire chiunque…»
«Beata te» replicò Samantha, abbassando lo sguardo verso la calma piatta della sua camicetta.
Samantha aveva diciassette anni, allora. Era un anno più grande, ma nessuno l’avrebbe indovinato. Aveva un viso da bimba, era la più bassa di loro tre e anche quella più magra.
Vanessa si vergognava del suo seno, sebbene fosse consapevole che era quello che attirava verso di lei la maggior parte dei compagni di scuola. Elena e Samantha la invidiavano, per questo. Eppure, quando conoscevano qualche ragazzo, dopo un primo scambio di battute era Elena, quella che piaceva di più. Lei conduceva il gioco, lei faceva andare la giostra. Lei decideva con chi dovevano stare.
«Samantha, tu hai altre carte…»la consolò Elena, stringendosi a lei. Il cameriere passò a svuotare il posacenere e Elena leccò il collo di Samantha, guardandolo fisso. Lui fece una smorfia a metà tra il divertito e l’irritato, si allontanò borbottando tra sé. Elena era consapevole del suo fascino, ma lo esercitava in modo volgare, ostentato. Molti scappavano, molti se ne approfittavano. Per lei il sesso era uno strumento di seduzione, nient’altro. Lo usava come un’arma di ricatto, si sentiva potente ad avere tutti ai suoi piedi. Le piaceva parlarne. Raccontava cosa faceva coi ragazzi, diceva di poterli usare per il proprio piacere. Ripeteva spesso che non si sarebbe mai innamorata di uno con cui scopava.
Scopare. Ripetevano quella parola infinite volte al giorno, per sentirsi grandi. Funzionava, ma solo nell’attimo in cui erano insieme, loro tre.
Seba glielo diceva spesso: tu non sei come loro due. Però appena le vedeva arrivare si allontanava da lei. Non le dava modo di capire con chi voleva stare davvero.
«Non mi piace. È solo un amico» rassicurava le amiche, ogni volta che veniva sorpresa con lui a fumarsi una sigaretta nel cortile o semplicemente all’uscita dalla scuola.
«Un amico, sei sicura?» incalzava Elena.
«Sì,non mi piace neanche un po’.»
Sapeva mentire così bene a se stessa. Confondeva i propri pensieri con quelli di Elena e Samantha con una facilità sorprendente. Non solo per quanto riguardava i ragazzi.
La ragazzina accanto a lei si è addormentata. Le montagne appaiono e scompaiono nel riflesso del finestrino, mentre il treno viene risucchiato dalle gallerie.
Sono due anni che non mette piede a Chiavenna. Ma la decisione di tenere o meno il bambino, non può prescindere dal suo passato.
Ha reciso il fusto del ricordo, a Roma. È ora di andare a vedere dov’è finito. I primi petali sono già su questo treno, in quei pensieri che non tornavano da tempo, li sta raccogliendo ora, parlando al mostriciattolo nella sua pancia di Elena e Samantha. Le amiche che avrebbe voluto dimenticare per sempre.
È arrivata. La testa le fa talmente male che anche solo scendere dal treno le provoca uno sforzo enorme. È buio, per fortuna, ma qualche sguardo attento potrebbe riconoscerla lo stesso. Qualcuno potrebbe additarla e allora non avrebbe scampo. Istintivamente preme il cappuccio della giacca sulla fronte. La ragazzina che le sedeva vicino le passa accanto, leggermente intontita.
Si ferma, allarga le mani e sorride.
«Hai visto? Nevica.»
I primi fiocchi iniziano ad avvolgere Chiavenna mentre Vanessa trascina la valigia verso casa del padre e il cuore inizia a batterle forte.
Siamo solo io e te, e la valigia che rovista il marciapiede, pensa Vanessa.
Io, te, la valigia e la neve, che per una volta non mi ha colto di sorpresa.
6 ottobre 2011 alle 15:34
Questo pezzo mi sembra esemplificativo riguardo alla discussione sulla tensione narrativa seguita a un mio commento sul primo degli estratti presentati.
Anche qui abbiamo un incipit che si snoda sulle riflessioni della protagonista, anche qui abbiamo descrizioni e dettagli.
Ma basta la prima decina di parole a farci capire che la protagonista deve affrontare una scelta difficile e questo cattura subito l’attenzione del lettore che è, in tensione, appunto, è curioso di sapere come, quando, cosa e perchè succederà.
Ecco che allora le descrizioni e i dettagli filano lisce perchè il lettore è già DENTRO la storia, nel vivo del suo svolgersi, non è costretto a sorbirsi dettagli minuziosi di situazioni o avvenimenti irrilevanti o poco interessanti.
Si puà fare narrativa “artistica” anche senza lirismi fini a se stessi, anzi si dovrebbe, proprio come in questo estratto che evidenzia uno stile personale e scorrevole e che, senza rinunciare alla profondità, sa come entrare nel vivo della storia e non annoiare il lettore.
Questa è, secondo il mio modesto parere, la strada giusta.
Complimenti
6 ottobre 2011 alle 22:14
Berto, grazie per la tua replica.
Scusa per le precisazioni su Proust…era uno scherzo.
Penso che, alla fine, ci troviamo d’accordo. Questo di Silvia è un pezzo di un altro spessore, almeno per ciò che riguarda la tensione narrativa. Forse qualcosa di meglio poteva venir fuori sullo stile. Ma in ogni caso tutto, davvero, tiene. E tiene bene, tiene solidamente insieme la storia.
I rilievi che avevo fatto a commento del racconto di Stefania, più che essere legati al dettato di quel testo, erano di ordine generale. Quindi vedi che alla fine ci troviamo in sintonia.
Buona lettura… e brava Silvia.
7 ottobre 2011 alle 07:42
Berto,puoi farci un esempio di “lirismo fine a sé stesso” e uno di “lirismo non fine a sé stesso”?
Ti ricordo che il testo di Stefania al quale fai riferimento non è un incipit (lo dice Stefania nella premessa al testo stesso; io te l’avevo poi fatto notare qui): qualunque considerazione fatta su quel testo come se fosse un incipit è quindi fuori luogo.
7 ottobre 2011 alle 13:29
Sì, Giacomo, alla fine ci troviamo d’accordo. 🙂 Anche sul fatto che Silvia può ancora rifinire lo stile.
@ Giulio, sinceramente dalla premessa di Stefania non si evinceva che l’estratto non era un incipit, l’ho riletto bene e non ci era niente che lo dichiarasse ma neppure che lo escludesse. Comunque avevo preso atto della tua precisazione in tal senso e sicuramente questo ridimensiona in parte le mie critiche. Inoltre non voglio assolutamente dar l’impressione di infierire sul lavoro di Stefania che non posso giudicare solo da quel brano e che, come ho scritto subito, denota comunque delle potenzialità.
Appena ho un po’ più di tempo provo a postare qualche esempio.
7 ottobre 2011 alle 14:40
L’affettazione o lirismo fine a se stesso, nel senso di uso di un linguaggio e di immagini eccessivamente ricercate, più per fare sfoggio di capacità tecniche e dialettiche che per dar sfogo ai reali sentimenti finalizzati alla vicenda, la trovo in questo periodo di Alessandra, il cui pezzo ho peraltro commentato positivamente:
“Era una mattina di rugiada trasparente, di trifoglio tenero, d’insalata dell’orto pronta da cogliere di baccelli dolci da mangiare col primosale cagliato a mano. E di frutti in boccio sui rami del susino, del melo, dell’albicocco. Una luce di colori tenui come la vita nuova che si è appena affacciata al mondo. L’odore di un’umidità pulita che nutre le radici, che sfama i campi, che lava le cose e le bagna di purezza.”
Lo sento appiccicaticcio,toglierlo non leverebbe niente alla storia e ai sentimenti della protagonista, anzi.
Un lirismo autentico che, sia pure con l’uso di termini aulici, non infastidisce perchè non è staccato dalla storia, che non si percepisce come uno sfoggio, o una descrizione che proviene dall’autore, ma dagli stessi pensieri e sentimenti ed esperienze della protagonista, è questa del pezzo di Silivia. Migliorabile, se vogliamo, ma non affettata:
“Vanessa si ritrova a pensare che forse a Chiavenna sta nevicando. Da bambina la prima nevicata era qualcosa di spettacolare. Un po’ come una magia. Andava a letto con i brividi nelle ossa e non capiva il perché, si chiudeva gambe e braccia sullo stomaco ma continuava ad avere freddo. La mattina si svegliava e aveva ancora quella sensazione di gelo sulla pelle, faceva fatica ad alzarsi, le palpebre rinsecchivano le pupille.
«È arrivata» sentiva gridare entusiasta la madre, dalla cucina.
Allora si gettava fuori dal letto e correva da lei. «La prima nevicata dell’anno, è arrivata.»
Come sempre, la neve coglieva Vanessa di sorpresa. Aveva sempre trovato piuttosto inspiegabile che proprio mentre lei dormiva il tetto si riempiva di fiocchi bianchi che non facevano rumore e coprivano tutto e davano un senso di ovattato silenzio, tanto che anche solo a parlare, nel manto bianco, uno si sentiva osservato. Capita sempre così, che quando meno ci credi, la vita arriva e ti regala un evento inaspettato. E non funziona se ci pensi, non serve a niente forzarsi di provare i brividi di freddo anche quando non li senti, non serve a nulla forzare qualcosa che non vuole accadere. Ci provò più di una volta a far arrivare la neve quando aveva voglia di sorprese. Non le riuscì mai”
Spero di essere riuscito a spiegarmi.
7 ottobre 2011 alle 19:35
Non condivido il giudizio, Berto, ma ti sei spiegato. Il “pezzo lirico” di Alessandra a me pare legato – molto legato – a tutto il modo di sentire il mondo che il personaggio/narratore ha.
Una cosa si potrebbe dire: che un “pezzo lirico” – inteso come momento nel quale il personaggio/narratore (se il testo è in prima) o il narratore (se il testo è in terza) non raccontano eventi, ma rappresentano le sensazioni e per così dire la struttura percettiva del personaggio – può essere più o meno ben connesso alla narrazione stessa.
Un’altra cosa si potrebbe dire: che vi sono romanzi nei quali l’effusione dell’io del personaggio è strutturale (tanto per fare un esempio semplice e grande: Robert Walser).