di Demetrio Paolin
In questi giorni ho finito di leggere Piccolo testamento (Laurana, 2011) di Gabriele Dadati e La luce prima (Isbn, 2011) di Emanuele Tonon. Le note che stendo sono sotto forma d’appunti perché se ho ben chiaro cosa voglio dire – ovvero che questi due libri sono definiti e presentati come “romanzi”, ma romanzi non sono – non ho ben chiaro come argomentare tutto questo.
L’impressione che non siano romanzi è dovuta a come i testi si impongono nel procedere della lettura. Pur essendo libri che raccontano un lutto a brillare dalle pagine è proprio l’assenza della persona morta. Nel caso di Piccolo testamento Vittorio, il maestro che muore, non è altro che una presenza fantasmatica. E’ un vero e proprio fantasma, così lo definisce l’io narrante, che va a sommarsi agli altri fantasmi delle donne amate/usate. In La luce prima la madre, a cui è dedicato il canto d’amore del figlio, non ha mai una presenza reale nella scena, ma rimane annunciata, vista di lato. Al massimo ne riemergono dalle pagine le tracce: il profumo, la crema per le mani o il pigiama.
Al centro di questi libri, in realtà, c’è l’io e non un Io qualsiasi, ma l’Io di uno scrivente, di una persona che per lavoro, per vocazione ha a che fare con le parole. La riflessione quindi non è tanto sull’altro, sulla persona che scompare, ma su chi resta e su chi resta e sul come la racconta.
C’è in queste pagine un “quid”, una sostanza che è pre-letteraria. Tonon e Dadati, con strumenti diversi, hanno voluto fermare sulle pagine un momento aurorale della scrittura; quando il reale non si è trasformato in qualcosa di narrativo, quando non ha assunto ancora le forme e la sintassi del racconto.
Se mi chiedeste a quali testi canonici stanno dietro a Piccolo testamento e a La luce prima, io risponderei Lettera al Padre di Kafka e Il mestiere di vivere di Pavese. Entrambi i libri non sono opere narrative e neanche opere biografiche nel senso comune della parola. Sia Kafka che Pavese usano la scrittura per provare a sondare quella cosa oscura e strana che è il proprio io. Rifiutano le scorciatoie o l’aiuto della psicanalisi e della psicologia (Pavese in maniera più netta) e lasciano che sia lo scrivere, la parola e l’organizzarsi del pensiero in frase a dire qualcosa su di loro come uomini. I punti di vista di Lettera al padre e del Mestiere di vivere sono ovviamente differenti. Kafka scrive in limine vitae, scrive pensando alla sua vita futura a quello che sarà; Pavese invece ha uno sguardo già morente, e questo fin dalle prime pagine del diario.
Quello che a me interessa sottolineare, sulla stregua di questi due esempi, è che il nocciolo dei due libri, di cui vi sto parlando, non è quindi l’autopsia del cadavere dell’amato, non è neppure una riflessione più generale sull’uomo e sulla morte, perdita e rielaborazione del lutto, ma è – mi verrebbe da aggiungere egoisticamente – una riflessione su Gabriele Dadati e su Emanuele Tonon.
In questo caso non stiamo parlando di autofiction, ovvero non siamo all’interno di quella categoria letteraria in cui il protagonista di un romanzo si chiama come l’autore del romanzo; perché molte volte in questo caso la scelta di far coincidere nome del protagonista e dell’autore ha finalità “universali”, ovvero si tende a presentare la vicenda di uno come la vicenda di ognuno. Il caso più lampante è l’incipit di Troppi paradisi di Walter Siti. Dove la perfetta omonimia dell’autore, dell’io narrante e del protagonista delle storie è sciolta nel “come tutti” a stabilire una sorta di universalità.
Qui siamo nell’esatto opposto. L’esperienza della morte della persona amata in questo caso non si trasmuta in una riflessione generalizzata sull’altro, ma su di sé, e sul sé più personale.
Il romanzo è sempre uno specchio di altro, mostra sempre qualcosa al lettore, qualcosa che il lettore possa sentire come proprio. Qui si assiste a una sorta di autismo della comunicazione, Sia Dadati che Tonon controllano quegli elementi che potrebbero far nascere una sorta di empatia tra chi legge e l’io che scrive. L’esempio più chiaro secondo me è nella scrittura, nello stile con cui queste storie vengono narrate. Dadati e Tonon scrivono in modi totalmente differenti, ma mirando allo stesso fine, forse inconfessato per entrambi, ovvero porre una distanza siderale tra loro, la loro storia e il lettore.
Dadati opta per una scrittura sorvegliatissima, fine, da elzeviro. Lui stesso si paragona agli scrittori delle prose d’arte di inizio novecento (Cecchi per esempio). C’è minuzia e dovizia nei particolari, ogni parola ha un suono e ritmo preciso nel giro di frase. L’amalgama di tutto questo è uno stile algido, freddo controllatissimo che non coinvolge il lettore, che non lo porta a compatire, ma lo porta semplicemente ad osservare come se fosse in un laboratorio chimico.
Tonon agisce su un’altra tonalità. La reiterazione dell’epiteto rivolto alla madre, amore, amore mio e simili, sembra una spia chiara di registro sentimentale, che quindi coinvolgerebbe il lettore. In realtà l’ossessivo ripetersi ha un effetto opposto: il lettore comprende che in quel dialogo amoroso lui non è invitato. Lui non ha diritto di esserci, che in realtà l’autore sta parlando solo per sua madre. Tutto quello che può fare è assistere da fuori come chi da lontano guarda due persone su una panchina.
Torniamo, per un attimo, ai protagonisti presunti ovvero le due persone che muoiono. Come abbiamo detto se questi fossero stati due romanzi avremmo avuto un maggiore peso nell’economia della storia narrata. Prendiamo ad esempio Medium di Giuseppe Genna e Il nemico sempre di Tonon. Se ripercorriamo i due libri vediamo come la figura del padre morente non evapora, ma è macchina dell’intreccio; nel caso di Genna di un intreccio che diventa noir, mentre nel caso de Il nemico siamo davanti al padre la cui vita e la cui morte si fanno allegoria della vita in fabbrica, del dolore degli oppressi. Il morto non ha quindi una funzione evocativa, ma è parte della storia: è in un certo senso la porta da dove il lettore entra. E il luogo privilegiato per l’azione di empatia che è uno dei nodi fondanti del romanzo. Il lettore legge qualcosa in cui si riconosce.
Ora, come dicevamo,i due testi rompono lo specchio, spezzano il gioco dell’immedesimazione: il lettore non si può riconoscere in loro, perché non è loro. La messa in scena del corpo, che era centrale ad esempio nei libri precedenti di due scrittori (Il libro nero del mondo e, il già citato, Il nemico) qui giunge a un livello di esasperazione totale. Io esisto – sembrano dire Dadati e Tonon – in quanto corpo che soffre la morte, ma non la morte generale, ma questa morte – la morte di mia madre, la morte del mio maestro – nessuno può vivere questa morte, ne vivrà altre ma non questa. Ciò sancisce un limite di comunicazione tra me autore e voi lettori.
Se gli autori avessero valicato quel limite, la loro storia, la loro esperienza umana e privatissima, si sarebbe fatta romanzo; hanno voluto scegliere una strada diversa che ha prodotto due libri intensi e che però sancisce forse la crisi di un certo modo di raccontare e narrare storie. Piccolo Testamento e La luce prima sono due storie di crisi, che narrano di due uomini che vivono qualcosa che vorrebbero raccontare con le parole e che invece scoprono non bastevoli a questo scopo.
Son due libri che falliscono e in questo fallimento sta la loro bellezza.
Tag: Cesare Pavese, Emaneule Tonon, Franz Kafka, Gabriele Dadati, Giuseppe Genna
28 settembre 2011 alle 17:31
Io son rimasto imbarazzato da quanto ho letto nei due libri – e dalla recensione di cui sopra.
Sto elaborando a passi lenti, lentissimi un insieme di parole che comunicherò ai tre. Non sotto forma di recensione, perché li percepisco amici e non riesco ad avere nei loro confronti il distacco che mi fa essere analitico come in altri tratti. Però concordo con il Paolin (e il Paolin già lo sa) nel dire che in quel loro fallimento Dadati, Tonon – e, lasciatemi dire, lo stesso Paolin – si confermano tre delle voci più interessanti, oggi, allo stato delle cose.
28 settembre 2011 alle 17:33
fammelo finire il romanzo, per dire che è fallito.
28 settembre 2011 alle 17:42
Non mi riferisco ovviamente a quello…
29 settembre 2011 alle 12:27
Io il libro di Dadati l’ho sul tavolo, di Tonon ho letto il primo.
A tempo debito mi esprimerò, visto che mi riesce raramente di star zitto. Però, Demetrio, questa cosa che nel fallimento stia la bellezza di un’opera è un ossimoro irritante. Se fallisce come romanzo, forse è perchè voleva essere qualcos’altro, o no?
Sarà che invecchio, ma al fascino dell’ambiguo, dell’indistinto e del contaminato sono sempre meno sensibile, anche perchè poi rivela spesso, più che innovazione creativa, il classico “vorrei ma non posso”.
29 settembre 2011 alle 12:37
valter solitamente sì. Cioè solitamente anche a me non piacciono i testi che falliscono, ma qui secondo me il “fallimento” è un altro e non riguarda i testi, o i libri, ma di un tipo di narrazione, che proprio questi due libri vorrebbero seguire, ma che mettono in crisi proprio nel loro svilupparsi.
29 settembre 2011 alle 18:18
a me sembra di ricordare che di fallimento avesse parlato in diversi momenti giulio. quando parlava di romanzi grossi, forse parlava di horcynus orca, o del suicidio di angela b., o forse no e parlava di qualche romanzo letto per la casa editrice, quando voleva convincere a pubblicarlo, diceva che non era riuscito, e questa era una sua forza, o non poteva riuscire, e la forza era questo tentativo contro la necessità. ma adesso che scrivo penso che non direbbe niente di questo. qualcosa che sembra simile, ma non lo è. qualcosa di più bello, e in qualche modo più nobile
30 settembre 2011 alle 07:28
Qualche settimana fa, a chi mi aveva segnalato Piccolo testamento, scrivevo:
“Ho letto Piccolo testamento.
Non mi è piaciuto perchè non c’è giusto climax, non c’è equilibrio fra i due personaggi (l'”indagato” nella narrazione è l’io narrante? E’ Vittorio? Ci sono due “indagati”?), c’è qualche sbaglio della voce narrante (pag. 66: non può dire “…che nelle prossime settimane continuerà a crescere”).
I materiali da cui è nato il romanzo mi sembrano in parte buoni. In particolare, mi sono piaciute alcune righe sulla morte e sulla solitudine di chi, per due lutti diversi, è rismasto solo perchè non c’è più un testimone della sua vita (107-108).
Molto più belle, in generale, le ultime pagine delle prime.
Domanda: di chi è il “piccolo testamento” del titolo? Di Vittorio? dell’io narrante? Dell’autore?”
Forse queste riflessioni “a caldo” possono essere utili al dibattito.
30 settembre 2011 alle 08:16
Ciao Isa, io ti rispondo per me. Io penso che il “piccolo testamento” sia dell’autore.
2 ottobre 2011 alle 09:54
Non mi va che una analisi di due testi non canonici, intelligenti e originali come quelli di Gabriele Dadati ed Emanuele Tonon si chiuda così, senza ulteriori contributi.
Ho mandato le mie impressioni di lettura di Piccolo testamento perchè mi era parso che Demetrio Paolin partisse dalle mie stesse incertezze: come mai non capisco chi sia il protagonista di questa storia? Come mai non riesco a identificarmi con i personaggi? Come mai ho l’impressione che il romanzo sia come incompiuto, opera non bella a fronte di una “bottega dello scrittore” certamente ricca?
Non volevo certo chiudere le riflessioni con uno striscio di matita rossa e blu.
Allora:
“C’è in queste pagine un “quid”, una sostanza che è pre-letteraria. Tonon e Dadati, con strumenti diversi, hanno voluto fermare sulle pagine un momento aurorale della scrittura; quando il reale non si è trasformato in qualcosa di narrativo, quando non ha assunto ancora le forme e la sintassi del racconto.
…
Il romanzo è sempre uno specchio di altro, mostra sempre qualcosa al lettore, qualcosa che il lettore possa sentire come proprio. Qui si assiste a una sorta di autismo della comunicazione, Sia Dadati che Tonon controllano quegli elementi che potrebbero far nascere una sorta di empatia tra chi legge e l’io che scrive.”
Se volete, ripartiamo da qui.
2 ottobre 2011 alle 10:46
Montale, “Piccolo testamento”
Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
Che può reggere all’urto dei monsoni
Sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
Non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
2 ottobre 2011 alle 11:24
isa tu scrivi: “Come mai ho l’impressione che il romanzo sia come incompiuto, opera non bella a fronte di una “bottega dello scrittore” certamente ricca?”. Io penso che sia Gabriele che Emanuele abbiano deciso un tema che li ha portati allla rottura del patto di immedesimazione. E credo che questo faccia di questi due libri due opere importanti per gli sviluppi futuri della loro scrittura.
Giulio io ho sempre amato molto quei versi montaliani di “cosmesi contro il male”.
6 ottobre 2011 alle 08:44
Li ho trovati due libri significativi tra quelli che sono usciti ultimamente e che sono riuscito a leggere. Se volete, restituisco le mie impressioni di lettura (su entrambi) nel blog.
6 ottobre 2011 alle 21:59
Grazie, Alberto.
20 aprile 2012 alle 17:17
“Rifiutano le scorciatoie o l’aiuto della psicanalisi e della psicologia (Pavese in maniera più netta) e lasciano che sia lo scrivere, la parola e l’organizzarsi del pensiero in frase a dire qualcosa su di loro come uomini”.
Grande verità..