[Questo articolo di Claudio Giunta è apparso in marzo nell’edizione in rete della rivista il Mulino].
Molti degli studenti che s’iscrivono alle facoltà umanistiche hanno serie difficoltà ad esprimersi oralmente e per iscritto. Avere serie difficoltà significa: sbagliare i verbi, sbagliare l’ortografia, usare le parole a casaccio. È un po’ come se alla facoltà di Matematica si iscrivessero in massa ragazzi che non sanno fare le quattro operazioni, o come se le aule di Medicina fossero invase da studenti che hanno il terrore del sangue.
A diciannove anni è tardi per imparare a contare, dunque è improbabile che chi è a disagio coi numeri s’iscriva a Matematica. E la stessa cosa vale, immagino, per il sangue e per la Medicina. Ma le facoltà umanistiche sono un’altra cosa, perché nelle aule di Lettere o di Sociologia si parla di romanzi, poesie, quadri, sinfonie, storia antica, filosofia, archeologia, e a questo Bengodi uno può appassionarsi anche senza avere alcuna competenza o vocazione; ché anzi la passione – la passione cieca e inconcludente, la mania – prospera proprio là dove la competenza scarseggia. Ci si iscrive dunque alle facoltà umanistiche per passione, perché – come suona il viatico dei falliti – «l’importante è fare quello che ti piace».
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Tag: Claudio Giunta
14 aprile 2011 alle 08:04
E’ un intervento intriso di “paternalismo”, un volersi prendere sulle spalle il futuro degli svogliati, dei ragazzi simpatici ma ignoranti, eternamente bambini e quindi bisognosi dei consigli del buon padre (adesso vi dico io cosa non fare per non rovinare e rendere inutili 10 anni della vostra vita). Riduce questi ragazzi a una moltitudine suina non in grado di rendersi conto del male che si fanno o che fanno agli altri (terribile il pensiero che possano insegnare ai propri figli, quelli veri). Il problema semmai e’ un altro: offrire a chi davvero merita lo spazio per crescere professionalmente, la possibilita’ di poter contribuire alla crescita culturale della societa’ (cosa che in Italia non avviene in genere nemmeno in campo scientifico, basti pensare al fatto che De Mattei e’ vice-presidente del Cnr). Il problema e’ piu’ che altro il sistema di clientele, politico e “parentale”, che fornisce opportunita’ a molti mediocri. Una delle conseguenze piu’ evidenti di questo malaffare e’ per l’appunto la rincorsa al pezzo di carta, ai “diplomifici”, alle lauree facili, tanto poi qualcuno a cui appoggiarci per andare a insegnare o per esser ficcati in qualche ufficio comunale a guardarci la punta delle scarpe lo troviamo sempre.
14 aprile 2011 alle 09:58
L’articolo è logico e pienamente condivisibile. La lunga sosta dei nostri giovani nelle facoltà umanistiche non è che il riflesso di una società bloccata, incapace di mettere in moto, in tutti i settori, un naturale ricambio generazionale. Ci si balocca per due lustri con il Canzoniere in attesa di ritrovarci vecchi, disoccupati e ignoranti. In aggiunta, Carlo Cannella, nella seconda parte del suo intervento, introduce un tema decisivo dell’Italia contemporanea e cioè l’inutilità della preparazione, scientifica o umanistica che sia. Di fronte alle raccomandazioni, ai nepotismi, all’arroganza dei clan, lo studente preparato sarà sempre scavalcato dall’ignorante. Il paradosso è che anche quello preparato, per trovare lavoro, dovrà cercarsi un appoggio influente perché questo è il sitema: un marciume, una pestilenza dalla quale non riusciamo a venir fuori. Non c’è legge che possa cambiare mentalità. E non c’è appiglio che ci impedisca di scivolare nel declivio della rassegnazione.
14 aprile 2011 alle 10:25
Scrive Giunta: “Ci sono infine studenti – una piccola minoranza – che s’iscrivono alle facoltà umanistiche perché […] sono anche tagliati per fare studi del genere: e posseggono cioè le competenze di base e le attitudini che consentono loro di seguire con profitto una lezione universitaria su questi temi.”
Le “competenze di base” sono possedute da una “piccola minoranza” perché gli studenti e le studentesse (essì anche le femmine studiano) che crescono in famiglie attente alla cultura, altamente scolarizzate, che dispongono di libri, dell’abbonamento al teatro eccetera sono appunto una piccola minoranza.
Il test d’ingresso ratifica questa disparità di base.
D’altra parte sono innumerevoli gli esempi di grandi scrittori non laureati, autodidatti, in possesso di una cultura che non rientra nel canone accademico.
Infine, a dirla tutta, io consiglierei una persona che ha amore per la cultura umanistica di non mettere piede nell’università perché dovrebbe perdere anni preziosi a decostruire – sempre che ci riesca – quel sapere mummificato, e riguadagnare un’attitudine all’intelligenza viva. Quindi appoggio l’auspicio di Giunta, anzi proporrei di arrivare a laureare in materie umanistiche una o due persone ogni venti anni. Due “sacrificandi” insomma. Magari, per ironia della sorte, potrebbero laurearsi su Montale (che era ragioniere e si distingueva dai poeti laureati) o Kubrick (che era uno studente svogliato uscito dal Bronx).
14 aprile 2011 alle 10:41
Rimango veramente basito a leggere certe cose. Come ha giustamente sottolineato Andrea Barbieri, mettere lacci e lacciuoli per accedere all’Università è semplicemente mantenere lo status quo: chi viene da buone famiglie dove la cultura esiste ancora – cioè famiglie agiate, benestanti, dotate di una tradizione culturale ormai consolidata – allora possono passare al livello successivo; gli altri se ne tornino in officina… ops, nel call center.
Intanto, mentre queste menti geniali, oltre che democratiche, hanno queste belle pensate, i vari governi smontano e distruggono la scuola pubblica, il luogo preposto per lo sviluppo democratico della cultura e della conoscenza del cittadino e della cittadina; dove chi non ha i mezzi e la tradizione dovrebbe poter iniziare un percorso di crescita, culturale e quindi sociale.
Ovviamente in Sig. Chiarissimo Proff. uscito nientepopodimenoche dalla Normale di Pisa (ohhhhh!!), nel suo blogghe (come si dice da noi, nella campagna maremmana) si guarda bene di permettere i commenti… eh, si sa mai…
Ma ci faccino il piacere!
14 aprile 2011 alle 10:53
Finalmente qualcuno che ha messo il dito nella piaga! Tutto condivisibile! Condivisibili anche i commenti, che mostrano anche un altro marciume, quello delle raccomandazioni ‘a prescindere’. Mi sono diplomato al Liceo Classico nel 1963, ed un mio compagno di corso che ha seguito la carriera universitaria mi ha detto che la nostra preparazione liceale ci avrebbe fatto guadagnare la laurea in Lettere secondo quello che era diventato il livello degli studi. Sono sempre stato un innamorato delle materie umanistiche, e non mi sono potuto laureare in Lettere per varie vicissitudini, anche perchè i miei pensavano che fosse un titolo senza applicazioni pratiche. Per cui alla fine non mi sono laureato in nulla, se non all’Università della Vita. Sono stanco di guardare in TV gente che non ha le minime basi del lessico italiano, o della consecutio temporum o dell’ortografia e della sintassi, spesso, dolorosamente, anche giornalisti! Ben vengano, al contrario, i ragionieri alla Montale, o gli studenti svogliati come Kubrick.
14 aprile 2011 alle 11:28
(incollo qui quello che ho postato su fb)
tenendo conto che ho fatto lettere classiche esattamente pensando di fare quello per cui non solo provavo ragionevole interesse ma stupido amore, temo di essere una fallita. io apprezzo molti pragmatici ragionamenti del prof. giunta. ma qui mi pare solo esasperato (si sa, avere a che fare con studenti ignoranti è stressante) e poco pragmatico. è vero il problema, è vera la necessità di porvi rimedio. ma: con un test di ingresso? io un po’ di competenza sui test di ingresso ce l’ho e se il prof pensa di poterne studiare uno che riesca a valutare attitudini e competenze di base di migliaia di candidati (dando un esito in massimo 15 giorni), spero lo pubblicizzi perché è una scoperta che varrebbe quanto quella della fusione nucleare a freddo. cosa fa? colloqui per vedere se sanno esprimersi? prove scritte per vedere se sanno scrivere? e come evitare le sperequazioni inevitabili? in realtà l’unico criterio selettivo applicabile, passabilmente giusto e realistico è esattamente quello che il prof respinge: bocciare o promuovere agli esami, dove la valutazione ha assai più probabilità di aderire alle effettive conoscenze, competenze e attitudini degli studenti. dopo qualche anno di vera selezione in itinere, nessuno studente si avventurerebbe a credere più ” facili ” le facoltà umanistiche e a usarle come passatempo. questo è l’unico discorso serio che io vedo possibile (ovviamente ce ne possono essere altri, sono io che non li so immaginare). tuttavia le pure dichiarazioni di intenti che non si confrontano con la realtà lasciano il tempo che trovano e non aiutano e, davvero, immaginare l’accesso a lettere sulla base di domande a risposta chiusa è fuorviante. dopo di che penso che se le facoltà umanistiche sfornassero molti ottimi laureati anziché pochi ottimi laureati il nostro paese ne trarrebbe giovamento. a prescindere che il laureato faccia il lavapiatti o il professore. il discorso è più lungo. però non si può affrontare con il vecchio snobismo gentiliano.
14 aprile 2011 alle 11:45
Sono pienamente d’accordo col commento di Carlo Cannella. Inoltre andrebbe ricordato che le riforme dell’Università fatte negli ultimi anni hanno reso il percorso accademico una risibile passeggiata. Il programma universitario (delle facoltà umanistiche – non mi esprimo su quelle scientifiche poiché non le ho frequentate e l’articolo parla il buona sostanza delle prime, appunto) svolto è ormai ridotto a un bignami. Immagino che non sia diverso nelle scuole superiori, dove oramai la preparazione richiesta è ridicola. Non credo che introducendo un test d’ingresso (e poi, di che tipo, a crocette? Del tipo dove ci sono i puntini va un indicativo o un congiuntivo? Qual è l’anno della Rivoluzione d’Ottobre?) si risolva il problema. Io ero a Scienze della Comunicazione, corso di laurea a numero chiuso, e ho visto studenti che avevano brillantemente passato il test d’ingresso arrancare per tutti i 5 anni (il vecchio ordinamento era di 5 anni) e altri, entrati dopo aver fatto ricorso al Tar (all’epoca il numero chiuso era di 100 persone all’anno e tentavano il test in 2.000-3.000 persone), superare brillantemente gli esami e laurearsi senza problemi.
Mi è capitato di tenere delle lezioni di supporto al corso di Storia e Critica del Cinema. Ho visto studenti totalmente inconsapevoli su chi fossero Fellini o Antonioni studiare, sforzarsi di seguire le lezioni su film magari non facilmente comprensibili e ottenere, alla fine, ottimi risultati (consapevoli della scarsa preparazione da cui partivano, studiavano non solo i libri di testo a loro assegnati, ma facevano ricerche, andavano in biblioteca, guardavano da soli una marea di film). E altri, che partivano con buoni presupposti (appassionati di cinema,con un buon bagaglio di film, benché solo recenti), non sapere cosa fosse un piano-sequenza o che film avesse fatto Godard. Ripeto, non credo sia un test d’ingresso a risolvere il problema, quanto una riforma sostanziale che parta fin dalle scuole elementari. Se su 200 persone che frequentano un Corso di Storia e Critica del Cinema, quasi tutti hanno enormi difficoltà a rapportarsi con la storia del ‘900 (persone che addirittura fanno iniziare la 2° Guerra Mondiale nel 1928 e la fanno finire nel 1948), forse il problema non è solo qualche studente svogliato, perché il fenomeno tende a essere un po’ troppo generalizzato. A me viene il dubbio che, per esempio, in tutta la scuola dell’obbligo la storia venga insegnata poco e male (e non sempre per colpa degli insegnati). E come la storia anche le altre materie.
14 aprile 2011 alle 12:52
“A diciannove anni è tardi per imparare a contare”
Anche oggi, forse, ho imparato qualcosa.
Certo, sarebbe carino avere qualche dato statistico di tutto ciò.
E non posso non pensare a quegli uomini e a quelle donne che, dopo aver combattutto la seconda guerra mondiale, sono tornati sui banchi di scuola per imparare a leggere e a far di conto.
Il test d’ingeresso sarebbe volto a valutare cosa, esattamente, nozioni già apprese? Non sarebbe più produttivo e democratico trovare un modo ed una sensibilità per valutare se vi è la capacità e la voglia di apprendere?
Giunta poi sembra non tenere in considerazione il fatto che nelle università italiane possono anche iscriversi studenti stranieri, immigrati, la cui padronanza della lingua può anche non essere eccellente, studenti con “serie difficoltà ad esprimersi oralmente e per iscritto. Avere serie difficoltà significa: sbagliare i verbi, sbagliare l’ortografia,[…]”.
E quindi? Saranno stupide, queste persone?
14 aprile 2011 alle 13:51
Nel pezzo c’e’ scritto : “Ma le facoltà umanistiche sono un’altra cosa, perché nelle aule di Lettere o di Sociologia si parla di romanzi, poesie, quadri, sinfonie, storia antica, filosofia, archeologia, e a questo Bengodi uno può appassionarsi anche senza avere alcuna competenza o vocazione; ché anzi la passione – la passione cieca e inconcludente, la mania – prospera proprio là dove la competenza scarseggia. Ci si iscrive dunque alle facoltà umanistiche per passione, perché – come suona il viatico dei falliti – «l’importante è fare quello che ti piace»”
Non bisogna dimenticare pero’ che “romanzi, poesie, quadri. sinfonie…”, tutto cio’ che e’ “arte”, sta li’ proprio per “appassionare”. Dunque si decide di studiare queste materie in quanto “appassionati”. Ora, rimproverare a chi si iscrive a queste facolta’ di farlo per “passione” e non per “competenza” sarebbe in pratica come vietare al pubblico di godere di un’opera quando va a teatro o un film quando va al cinema. Perche’ non regge questo rimprovero? Perche’ per appassionarsi di matematica o fisica io devo agirle, conoscere le regole, saperle usare, e poi queste materie non stanno li’ con l’intenzione dichiarata di agire su di me, per appassionarsi all’arte mi basta contemplarla: giacche’ e’ l’arte che agisce su di me. Difatti, poi, in relazione all’arte di mania si parla spesso, di passione cieca e inconcludente (posto che si possa accettare questa definizione di “mania”; o vogliamo forse davvero sostenere che chi ha una passione “vispa e concludente” non e’ affetto lo stesso da una mania?).
La massificazione dell’arte esiste perche’ l’arte e’ massificabile.
C’e’ poco da fare, possiamo lamentarci finche’ vogliamo.
Le elite nel campo dell’arte hanno perso. Sono state smascherate. Forse non lo vogliono ammettere, e lo negano. Ma non sono tenutarie di un “sapere” o di una pratica “esclusiva e inaccessibile”. Cio’ di cui sono tenutarie e’ al limite “potere”, che pero’ non e’ “arte”.
Poi vale la pensa di domandarsi, come mai le arti attirano cosi’ tanto pletore e pletore di “somari”, “incompetenti” e “falliti”? Perche’ uno “stupido” e’ cosi’ “stupido” da pensare di essere in grado di fare “arte”, ma non e’ cosi’ “stupido” da pensare di essere in grado di fare “matematica” o “fisica” o “chimica”?
14 aprile 2011 alle 14:54
Quoto Paola B sui test d’ingresso (io mi ricordo di quello che era stato messo per Scienze della Comunicazione, che non passai).
Quanto al resto (la grammatica etc.), mi pare che la questione andrebbe affrontata a monte, ben prima dell’università. Sul tema dell’occupazione, ancora una volta il problema è altrove, visto che di laureati ne abbiamo meno che in altri paesi: il problema è in un mercato del lavoro bloccato, che non premia certo la preparazione. E infine: è davvero necessaria l’equazione laurea = lavoro? Ho un diploma in ragioneria e una laurea in lettere; non faccio né il ragioniere né il professore, eppure resto convinto di non aver buttato via il mio tempo…
14 aprile 2011 alle 15:28
posso chiederti, Giulio, cosa pensi del test di ingresso per le facoltà umanistiche? grazie
14 aprile 2011 alle 16:28
Questo è lo sfogo di un docente. Di solito chi si sfoga fa esattamente questo, rende universali i propri casi particolari e li colpisce con tutti gli argomenti di cui dispone. Deve fare questa operazione in pubblico, per ricavarne una qualche soddisfazione. In questo modo le persone diventano masse che rispondono a generici automatismi, e nel discorso appaiono i “si” (si iscrivono, si parla). Per questo suggerirei di non considerare seriamente questo scritto.
Spero di non sbagliare. Non fosse uno sfogo fine a se stesso, sarebbe l’opinione più scellerata, retriva e controproducente sullo stato e sul futuro dell’università italiana, scritta da un docente, letta in questi mesi. (Neppure l’esteta Stefano Zecchi, nei suoi momenti di più grande ispirazione, ha risolto i problemi della nostra università in modo così brillante.)
14 aprile 2011 alle 17:24
La prima volta che vidi dal vivo una tela di Picasso pensai fosse la cosa più bella mai dipinta. Se interrogata, non avrei saputo dire cosa, con quel quadro, Picasso volesse comunicare. (adesso lo so? Non credo). So solo che io ci persi lo sguardo e la mente.
La prossima volta, davanti ad una tela di Picasso, mi coprirò gli occhi con due belle fettazze di mozzarella di bufala azzurro turchese. Splash.
14 aprile 2011 alle 19:13
Ho letto l’articolo, e mi è sembrato “esatto quanto un verbale”. Lo dico da laureato in lettere “tornatosene” in un call center.
Mi permetto di aggiungere che forse sarebbe necessaria una discussione preliminare su quale debba essere il ruolo dell’università. Mi sembra che il Prof. Giunta ne abbia un’idea molto chiara:
“si parla di quello che è un lavoro nei termini in cui si potrebbe parlare di una passione disinteressata, di una libera attività dello spirito, confondendo due piani che devono invece restare distinti: quello della piena realizzazione del sé (che non compete all’università) e quello della professione che attraverso lo studio universitario si viene abilitati a intraprendere.”
L’università, quindi, sarebbe il luogo in cui ci si forma per intraprendere una professione. MI sembra che l’intero articolo si basi su questo presupposto, e che alcune critiche, invece, muovano da punti di vista differenti.
15 aprile 2011 alle 08:52
Se il presupposto è quello (università come luogo in cui ci si forma per intraprendere una professione), allora il prof. giunta vive in un altro paese.
E poi, dove sta scritto che l’università deve essere luogo in cui ci si forma per intraprendere una professione?
Dovrebbe essere luogo dove ci si forma, e basta. E non è poco.
15 aprile 2011 alle 10:09
La questione, dunque, è quella dei presupposti.
Se si presuppone che un corso di studi in lettere abbia lo scopo di formare dei “professionisti delle lettere”, è un conto.
Se si presuppone che un corso di studi in lettere abbia lo scopo di educare una “sensibilità artistica”, è un altro conto.
Se si presuppone che un corso di studi in lettere abbia lo scopo di formare degli “artisti delle lettere”, è un altro conto ancora.
Poi:
Se si presuppone che non si possa che ragionare sullo stato di fatto, ossia che all’università arrivano giovani che mancano di determinate competenze di base, è un conto.
Se si presuppone che lo stato di fatto non vada bene, ossia che non è giusto che chi termina gli studi superiori manchi di determinante competenze di base, è un altro conto.
Se si presuppone che lo stato di fatto, per quanto non vada bene, abbia caratteristiche di inevitabilità, ossia che l’intera società si sta trasformando, checché ne pensino e vogliano i cittadini, in una cosa diversa da quella che conoscevamo fino a poco tempo fa, è un altro conto ancora.
Poi:
Se si presuppone che il diritto di tutti a studiare abbia i soli limiti della libera volontà personale e dell’oggettiva (= certificata dai voti ottenuti negli esami) capacità di ciascuno, è un conto.
Se si presuppone che il diritto di tutti a studiare debba essere mediato con le oggettive (= stabilite dalla politica) esigenze che la società ha di determinate competenze, professionalità eccetera, è un altro conto.
Ecc.
Io non ho un’opinione precisa. Non ho un’università alle spalle (poiché nascevo in una famiglia molto colta, decisi vanitosamente a suo tempo che potevo farne a meno). Non ho conoscenze precise sull’efficacia dei test d’ingresso, come oggi praticati, nel selezionare “i più adatti” (ma il fatto che si commercializzino con successo manuali zeppi di quiz da mandare a memoria mi fa venire qualche dubbio). Frequento (da esterno) parecchie classi di scuole medie superiori e vedo che i ragazzi sono in grande difficoltà. Vedo un governo dell’Italia che, senza mai dichiararlo nei suoi presupposti e nei suoi intenti, sembra seguire una precisa politica dell’istruzione. Mi si dice che il sistema dell’istruzione che il governo dell’Italia persegue somiglia molto a quello in vigore da tempo negli Stati uniti d’America. Mi si dice che gli Stati uniti d’America sono pressappoco e complessivamente il paese più ricco del mondo, e che sono anche il paese nel quale il divario tra chi ha e chi non ha è più netto, largo e stabile (e in continuo allargamento).
Sospetto che non sia insensata la proposta di Giunta nel momento in cui la si consideri una proposta squisitamente leninista.
Un intervento di Claudio Giunta sullo stesso argomento, ma più ampio e articolato, si può leggere nella rivista Italianieuropei, qui.
15 aprile 2011 alle 11:15
Ho frequentato la prima elementare nel 1950, a sei anni, e mi ricordo ancora le regole che la maestra prima e l’insegnante che ebbi dalle terza elementare fino alla quinta mi hanno insegnato, ed erano regole precise che non ritrovo nel comune parlare di oggi. Alla mia insegnante delle medie dovrei fare una statua, anche lei mi ha dato le giuste basi, per esempio, di latino. Tra parentesi il latino e il greco servono a maneggiare la lingua italiana con proprietà di linguaggio, e ad aumentare e migliorare il nostro vocabolario.Poi al ginnasio ho avuto un altro insegnante, e al liceo classico una signora insegnante di lettere, amica di maria Bellonci, l’ideatrice del Premio Strega, che credo come modello non esista più. Mi sono diplomato nel 1963, a diciannove anni, in regola. Non ho mai avuto passione per la matematica, ma in italiano, latino e greco avevo il massimo dei voti. Tutto questo per cercare di dire che le basi sono importanti per l’istruzione, e l’istruzione è importante perchè apre la mente e allarga gli orizzonti. Se miniamo alla base l’istruzione, dando ai bambini prima e agli adolescenti poi delle basi insufficienti, si crea quello che si è creato oggi, in un mondo della scuola dove gli stessi insegnanti non hanno avuto delle buone basi culturali, e quindi riesce anche per loro difficile insegnare nel modo giusto. La scuola dell’obbligo è solo un’ottima intenzione, volendo allargare a tutti la conoscenza di nozioni che se non sono immediatamente fruibili, pure servono ad avere un’altra dignità nella vita di tutti i giorni. Perchè il meccanico, il contadino, l’idraulico non devono sapersi esprimere in italiano corretto, per esempio? L’istruzione è un diritto di tutti. La cultura è la base su cui poggia la civiltà di una nazione, senza andare troppo in là. Purtroppo invece di alzare il livello di istruzione, dovendo comunque promuovere tutti senza perdere tempo e senza creare discriminazioni, si è pensato bene di abbassare il livello alla portata di tutti. E di che ci lamentiamo oggi? Non mi sono mai laureato, non appartengo ad una famiglia particolarmente benestante o di professionisti. Ho solo avuto tanta voglia di imparare e curiosità di conoscere. Ritengo, senza falsa modestia, che il mio italiano sia corretto, e tanto basta, ed è molto di più di ciò che ascolto anche in televisione.
15 aprile 2011 alle 20:09
mi riappare l’immagine del solito giano bifronte, come se le due facce della cultura non appartenessero alla medesima testa. e basta! troppo spesso ancora si sente discutere di predisposizione alla matematica e alle scienze di taluni in netta contrapposizione alla propensione verso le materie umanistiche di altri, che per vezzo dichiarano assoluta incompetenza o gravi lacune nel dominio ‘opposto’. quasi sempre invece gli ‘scienziati’ hanno passioni umanistiche (fior di fisici o matematici melomani o con doppio diploma al conservatorio, chimici e ingegneri letterati, biologi poeti o sceneggiatori…, leggono a tutto raggio, scrivono, sono efficaci divulgatori, abili conversatori, per non dire veri affabulatori. sarebbe più sano considerare ipotesi alternative e non necessariamente esclusive. non ha senso pretendere di diventare dei professionisti delle lettere, si alimentano false aspettative: io insisterei piuttosto nel diffondere l’idea che la preparazione scientifica è fondamentale e vale la pena dedicarvicisi (tante teste non credono nelle proprie capacità e sulla base di bizzarri preconcetti e si autoescludono), sviluppando parallelamente tutte le sensibilità artistiche che si ritiene di poter sviluppare, in un percorso differenziato, personalizzato. prova ne sono i laboratori teatrali o di poesia o di scrittura fatti anche in età più tardiva che fanno riemergere qualità trascurate o inespresse con risultati rilevanti. i ragazzi vanno certo guidati a trovare la propria strada ma senza forzature. un controllo sui prerequisiti di qualsiasi studio va compiuto, ma non in forma assolutamente restrittiva e inappellabile.
15 aprile 2011 alle 20:13
una parentesi non chiusa e una ‘e’ di troppo, nella fretta di postare!
16 aprile 2011 alle 08:51
Considerato e, mettiamo, accettato lo stato di fatto registrato dal professore, la risposta cioè la soluzione a tutto ciò sta nei test d’ingresso a crocette? Bah.
Io ho poca esperienza con l’università italiana, l’ho lasciata presto. tra le altre cose mi è sempre sembrata un macello di carne pronta ad esser malamente tritata. (folle oceaniche in aule piccole e cadenti, era persin difficile trovare un posto dove sedersi a terra; insegnati assenti e distanti, annoiati; programmi di studio anonimi, spenti, massificati come mangime per porci; ecc).
Ho esperienza della prova d’ingresso in università inglesi, e non c’è paragone. Ma è un altro paese. E’ un altro tutto, tranne, forse per gli studenti che vorrebbero imparare, fare un percorso, e lì vengono messi in possesso dei mezzi per riuscirci e in Italia no. (Un esempio: è mai possibile che uno studente universitario italiano possa prendere in prestito bibliotecario – dell’università – al massimo 3 libri? Uno che ci fa con 3 libri? In UK io potevo prenderne sino a un massimo di 26 – tra biblioteca universitaria e Senate House Library, con prestito rinnovabile anche per tutto l’anno se nessun’altro richiedeva quel testo.).
Insomma, la mia domanda è: e l’università italiana cos’è disposta a dare e fare per i suoi studenti?
16 aprile 2011 alle 12:19
L’articolo, in parte, è condivisibile. Non è bello vedere migliaia di studenti parcheggiati anni e anni in una facoltà umanistica. Però non mi piace neanche pensare che se a 19 anni non si hanno delle competenze o vocazioni in materie umanistiche ( o in qualsiasi altra materia) allora non si debba intraprendere quel tipo di studio. E se l’innamoramento o l’interesse in qualche cosa nasce col tempo e lo studio? Se la curiosità viene stimolata col tempo e da bravi insegnanti? Io credo che a 19 anni, a 20 anni, si sia ancora in tempo per imparare qualsiasi cosa, anche la matematica. Un mio caro amico, diplomato al Liceo classico, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza per poi, dopo un anno, cambiare per Ingegneria elettronica. Ha dovuto faticare per costruirsi delle basi matematiche che non aveva o aveva solo parzialmente, ma ora sta seguendo con profitto questi studi. Questo per dire che la mancanza di basi non sempre dipende dal fatto che per anni non si è studiato. Può anche essere dovuta a cattivi insegnanti, o a una scuola che funzionava male. E allora? Cosa dovrebbe succedere a questo punto? Non si può più rimediare?
Detto questo, non so davvero se prevedere test d’ingresso può essere una soluzione. So che nel nostro paese i test producono risultati ingiusti, spesso vengono annullati perchè irregolari e, ancora più spesso, si paga sottobanco per superarli, anche in facoltà come medicina.
19 aprile 2011 alle 01:04
E rovesciare la questione?
Chiedersi perchè in questo paese sono così disertate le facoltà scientifiche e disprezzate gli indirizzi tecnici e professionali?
Che c’entri qualcosa il bassissimo livello d’insegnamento delle prime nelle scuole medie e superiori, e la cecità antropologica diffusa da sinistra (vedi l’intervento di Barbieri) sul fatto che chiunque con genitori e insegnanti adeguati può diventare un intellettuale di vocazione e di professione?
21 aprile 2011 alle 13:00
Scrive Valter Binaghi:
“la cecità antropologica diffusa da sinistra (vedi l’intervento di Barbieri) sul fatto che chiunque con genitori e insegnanti adeguati può diventare un intellettuale di vocazione e di professione”
Valter, sentire qualcuno, nel 2011, sostenere che il sapere umanistico passa dai ‘professionisti intellettuali’ mi fa sorridere un po’.
La mia logica non è la ‘sinistra’ come pensi tu, la mia logica è umuntu ngumuntu ngabantu.
21 aprile 2011 alle 17:53
“la mia logica è umuntu ngumuntu ngabantu.”
scusate, ma che significa?
21 aprile 2011 alle 18:50
In effetti anch’io, alla cecità antropologica da sinistra, preferisco la lungimiranza economica da destra, tipo a laurà, barbùn.
E quei vecchi babbioni della sinistra, che sfornavano la parola cultura come fosse un po’ il pane di tutti, ma prima, anni fa, ex babbioni veramente…
22 aprile 2011 alle 09:29
“Umuntu ngumuntu ngabantu” è un motto zulu che significa: sono quel che sono grazie a tutti gli altri. E’ il senso della parola “ubuntu” che proprio per questo viene utilizzata come nome di un sistema operativo linux che è un software libero, implementabile liberamente.
Ultimamente è tornato di moda parlare di Lorenzo Milani. Se ne parla incolpandolo, perché avrebbe in qualche modo determinato un abbassamento del livello d’insegnamento. I ‘revisionisti’ di Milani – nonostante o proprio perché sono altamente scolarizzati – non capiscono il nucleo assolutamente contemporaneo di quelle idee: 1. l’apertura del sapere, cioè ritenere degni saperi non canonizzati dal sistema scolastico; 2. una logica di condivisione (scrittura collettiva, insegnamento reciproco, eccetera). Milani non aveva a disposizione il web, eppure in un certo senso mise in rete la sua piccola scuola portando la lettura dei quotidiani, chiamando persone a parlare della loro esperienza e così via. Oggi, che esiste una rete mondiale, che il sapere è un ribollire in co-implementazione, riferirsi alla figura del ‘professionista intellettuale’ è grottesco. Infatti chi ambisce a agire quel ruolo sociale non può che dedicarsi all’esoterismo. Ma oggi ‘esoterico’ non è un sapere alto per pochi eletti, per così dire a tiratura limitata: è soltanto un sapere destinato alla pochezza.