L’esibizione del dolore

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di Gilda Policastro

[Questo articolo di Gilda Policastro è apparso il 25 febbraio 2011 nel quotidiano il manifesto].

Quando Christian, uno dei protagonisti del romanzo La Torre di Uwe Tellkamp, in procinto di partire per il campo di prereclutamento, ne indossa l’uniforme, il narratore ci informa che egli lo fa «non per orgoglio, ma perché voleva farsi compatire…, una sensazione masochistica del genere “guardate qui”, la messa in mostra della sofferenza». Il romanzo di Uwe Tellkamp, ambientato nella Ddr, è scritto in terza persona, ed è un libro corale, affollato di storie, alcune delle quali legate al mondo editoriale. Altro personaggio chiave è infatti Judith Scevola, la scrittrice che sconta con la marginalità pubblica la propria incapacità a irreggimentarsi.
Ma di questo, più avanti; è invece quella finzione della divisa indossata con voluttà masochistica a interessare, adesso: torna in mente la categoria utilizzata sulle colonne del «Manifesto» dal critico Daniele Giglioli a proposito di Gomorra, all’indomani della sua uscita e alla vigilia del suo successo mediatico e planetario (qui). Saviano, scriveva Giglioli, va sui luoghi della malavita e del malaffare «al posto nostro»: sacrificandosi per noi, diventa l’eroe che tutti vorremmo essere e al tempo stesso ci solleva dall’obbligo di esserlo a nostra volta.

Vite poco esemplari

Il masochismo, quando incarnato da un personaggio che dice «io» e che si vuole far coincidere con l’autore, è la categoria che i lettori italiani amano e premiano, a partire dalla Commedia dell’exul immeritus Dante, vero best seller della nostra letteratura nazionale. L’eroe sofferente ci muove a pietà, ma, aristotelicamente, occorre che tale sofferenza abbia un riscatto e un risarcimento, e nella stessa possibilità di parlarne si attua poi tale uscita e risalita: sono qui a raccontarvelo, dunque i Neri non hanno trionfato, e nemmeno i camorristi. Vale anche per le vite che non si pretendono esemplari sul piano politico e civile, quelle storie di persone cosiddette normali, uno di noi che ne ha passate di tutti i colori e poi risale la china, e ce lo racconta. Lo racconta in prima persona, di solito, esibendo il suo dolore per «farsi compatire» e il suo «masochismo» – la «messa in mostra della sua sofferenza» – ci seduce, perché ne siamo fuori insieme a lui, siamo salvi.
Dev’essere questo il meccanismo che ha radunato consensi, ultimamente, attorno ad alcuni libri rispetto ai quali, in modo assai singolare, si sono udite poche voci esplicite e pubbliche di critica se non di dissenso (merito, in qualche caso, degli autori bravi a promuoversi, in qualche altro degli editori altrettanto capaci, ma con delle ragioni forse più profonde, che andrebbero attentamente esaminate): soprattutto La vita oscena di Aldo Nove ma poi anche, e in modo non del tutto diverso, Il male naturale di Giulio Mozzi.
Il primo libro, accompagnato da un poderoso lancio commerciale, passa per autofiction, com’è in uso dire, o testimonianza letteraria della vita «oscena» dell’autore, con l’ambiguità etimologica dell’aggettivo che rimanda tanto a un contenuto extrascenico, ovvero non suscettibile di narrazione per il suo carattere «basso» o scabroso, quanto all’accezione vulgata sovrapponibile al senso di «pornografico», e dunque, probabilmente, mai raccontato prima, non così. La catabasi dell’io che narra è, peraltro, nel passaggio migliore del libro, una riscrittura di Whitman, e dunque la parte più oscena è anche quella più letteraria, alla fine.

Soffro quindi sono

La «vera storia di Aldo Nove» resta invece, a parere di chi scrive, quel Bio sintatticamente disarticolato e straniato apparso per la prima volta sul «Manifesto» nel ’98, e scandito da salti logico-sintattici spiazzanti come il seguente: «i miei genitori erano presenti nel territorio dove io sono arrivato mi circondavano di carezze e mobili per accogliermi e scatolette Simmenthal e altre cose del mondo che avrei visto compresi la Svizzera e l’amore». Già c’erano stati i racconti di Woobinda, del resto, a segnalare una inedita attitudine a scorgere nessi imprevedibili tra le cose (il bagnoschiuma dal nome assurdo e i genitori morti), che era in fondo la vera consegna di questo scrittore così diverso dai suoi effimeri colleghi «cannibali» alla postmodernità del livellamento e della mescolanza delle esperienze. Poi Aldo Nove è progressivamente mutato, passando attraverso la «poetica delle storie» di Roberta («Storie. Urgenti. Sono dappertutto. Vanno raccolte. Dobbiamo dircele») e del libro su Carver e Hopper («Ma non è la storia in sé che credo possa interessare a qualcuno che non sia me… Allora bisogna essere molto onesti innanzitutto con se stessi e scrivere senza trucchi»), e anche, come poeta, al libro su Maria, l’icona materna fattasi carne come il figlio e ridotta a personaggio a sua volta bambino nella favola della mangiatoia, che è la favola prima che ci sentiamo raccontare.
Per il nuovo libro si è parlato ovunque di maturità stilistica, ma gli esempi che se ne sono prodotti non ne hanno mai reso veramente conto: lo stesso Giglioli, che recensisce piuttosto favorevolmente il libro su «Alias» (e proprio nell’ottica della testimonianza di una risalita), ne trae una citazione che sembra rimandare a una specie di Woobinda senza stile: «Le merci mi intenerivano fino a farmi soffrire, fino quasi a strapparmi dalla mia condizione, le merci e il loro povero portato di felicità mercantile, e per un attimo sentii che la capacità di soffrire in vista di un male minore era il senso della vita che mi stava sfuggendo, e il refrigerio di una bibita apparteneva a quei mali minori di cui ci riempiamo per fare la vita, costruirla nei giorni».
Non già la serietà del quotidiano, o l’esemplarità dantesca della propria personale esperienza, ma la banalità e l’apatia linguistica a registrare in modo presunto fedele o senza virgolette di una sofferenza che però mentre ambisce a parlare a tutti sente troppo su di sé il privilegio della marchiatura del dolore. Soffro, quindi sono, non insieme a voi, o al posto vostro, ma sul vostro comodino, nella vostra libreria, nelle vostre classifiche di vendita.

Le incarnazioni del male

In qualche modo attinente, è il caso dei racconti di Giulio Mozzi, già pubblicati nel ’98 e rilanciati oggi dall’editore Laurana (a marcare, forse, la presenza dello stesso Mozzi dietro il nuovo progetto editoriale). I racconti del Male naturale, seppur non del tutto uniformi quanto ad andamento ritmico, rimangono mediamente piuttosto tradizionali nella lingua (senza grosse escursioni nell’alto o nel basso, cioè), ma il tema sembra poi, al netto degli eventi, uno solo: guarda quanto siamo cattivi noi umani, e guarda quanto siamo buoni a confessar(ce)lo (a partire dal tema della pedofilia, che fu al centro dello scandalo suscitato del libro all’indomani della sua prima uscita, scandalo riferito dallo stesso autore nella nota alla nuova edizione). Questi affondi nel male «consustanziale» (all’individuo, alla coppia, all’amore, ai rapporti umani in generale) hanno protagonisti diversi, ma non sorprende trovare tra di essi il personaggio «Giulio», che non sarà l’autore empirico (e poco ci importa appurare se lo sia o meno), e che però in fondo ci vuol portare a crederlo, in qualche modo: sono qui con voi se non per voi, mi faccio carico del male nelle sue diverse incarnazioni, e poi qualcuno magari ci perdonerà, dal momento che abbiamo reso intera e piena confessione.
L’interrogazione sul male, necessaria per la letteratura da quando esiste (il male reificato – di «riduzione cosale» parlava mirabilmente Sanguineti in uno dei suoi saggi danteschi – nel Lucifero di Dante; il male incarnato nei demòni – come pare si debba dire – dostoevskjani) ha bisogno più di sadismo che di masochismo, come metodo di approccio. Il male va sperimentato, letterariamente, dalla parte dei carnefici e non delle vittime, o comunque con la consapevolezza del narratore della Torre che debba essere la divisa e non la persona in sé a catturare lo sguardo («guardate qui», appunto). E la divisa è l’emblema di una mera funzione: quella persona, buona o cattiva che sia non importa, sarà chiamata a uccidere (sì, anche al posto nostro, certamente) ma non in quanto buona o cattiva in sé, bensì in quanto calata in quello specifico ruolo.
È la ragione per cui l’ultimo Pasolini è così malnoto o mal tollerato: tanto in Petrolio quanto in Salò lo scandalo anticattolico è esattamente l’adozione dell’ottica dei carnefici e del sadismo, come sistema di disvelamento della dinamica perversa dei rapporti di potere. Non vi è nessuna possibilità di distinguere i giovani repubblichini dai giovinetti torturati, quando si trovano nel cortile, alla fine del film, contemplati dal binocolo dei signori (mentre capiamo perfettamente la differenza di posizione reale, al di là del gioco del rovesciamento all’interno della fictio mimetica, del più che anonimo idealtipo «un uomo» di Amore di Mozzi, ovvero il pedofilo, e della sua incolpevole vittima – l’altrettanto anonimo «il bambino»).

In assenza di catarsi

Così nella sequenza del Pratone, nel romanzo postumo pasoliniano, dove Carlo, l’intellettuale, si sottopone alla serialità dell’atto sodomitico violento «come obbedendo», ossia per mera interpretazione del ruolo. È la stessa logica che ci chiamava ad attivare un altro libro relativamente misconosciuto in Italia e molto apprezzato all’estero, Le benevole di Jonathan Littell, il cui protagonista, ex ufficiale nazista, ci invita sin dalle prime pagine a riflettere sull’io che racconta una storia efferata non per sua intrinseca crudeltà ma perché si è trovato lì, per «accidente» («le vittime, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono state torturate o uccise perché erano buone, così come i loro aguzzini non le hanno tormentate perché erano cattivi»).
Sapendo che l’autore è nato nel ’67 e che non si è potuto trovare nei campi di sterminio a torturare nessuno, la domanda sottesa alla narrazione non riguarda più l’eventuale, esibizionistica (esibirsi, peraltro, per essere perdonati, vien da ribadire) coincidenza tra narrator e narratum, ma, piuttosto: voi cos’avreste fatto, al posto mio («sono un uomo come gli altri, sono un uomo come voi. Ma via, se vi dico che sono come voi!)». E dunque nessuna catarsi, nessun perdono, ma solo la fragilità, la fallibilità (volendo, la crudeltà) dell’essere al mondo, senza rimedio e senza redenzione alcuna. Dice bene «daniz», blogger e commentatore della discussione sviluppatasi attorno al libro di Aldo Nove nel sito di «Nazione indiana»: «Riversare su di sé il lurido della persona, caricarselo sto capro espiatorio, creare una ambiguità tra narratore e autore carnale è necessario se si vogliono dire cose forti. Cioè sei nella finzione letteraria, ma azzeri i ponti coll’astratto, parli bocca a bocca».

Fantasmi e incubi

Sulla traccia dell’ossessione pasoliniana, l’identica capacità di compiere gesti generosi o, al contrario, di estrema crudeltà non va cercata, poi, solo in aderenza o in conformità allo specifico ruolo o travestimento, ma riverificata di volta in volta, di occasione in occasione, di pagina in pagina, in ogni singolo momento di questa vita. La nostra vita, non la vita fuori scena (o inscenata) ma la vita qui e adesso, di noi che non abbiamo nome, o che ci chiamiamo Enza e Mario (a caso), di noi che non siamo eroi né buoni né cattivi, ma che abbiamo, magari, urgenza di rappresentarci senza il ricatto emotivo della coincidenza autobiografica del récit col nostro vissuto. Noi che non vogliamo essere i nostri personaggi, e che, anzi, li odiamo. Perché sono i nostri fantasmi, i nostri incubi. Nostri. Di un noi che ci chiama più profondamente in causa, e non è l’io «sborone» che si esalta o si svilisce (autocelebrazione e autodenigrazione sono il volto bifronte del narcisismo, com’è noto) «al posto nostro».
Torniamo, come promesso, a Judith Scevola, la scrittrice protagonista della Torre, di cui il redattore elogia «l’autenticità, non nel senso della propaganda». «Qualcosa di autentico, dice il mio redattore! Non so che farmene! Ho l’impressione che il pubblico non lo voglia veramente. I lettori vogliono divertirsi e distrarsi». O soffrire per poi riemergere: che è tutt’uno.

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25 Risposte to “L’esibizione del dolore”

  1. veronica tomassini Says:

    ottimo. già letto. impeccabile.

  2. Luca Tassinari Says:

    Schevola, non Scevola.

  3. Livio Romano Says:

    Non afferro perché mai “L’interrogazione sul male, necessaria per la letteratura da quando esiste […] ha bisogno più di sadismo che di masochismo, come metodo di approccio”.

  4. vbinaghi Says:

    Quando ne avranno abbastanza di fare sociologia del meccanismo vittimario (senza più aggiungere una virgola a Girard), questi giovani critici e critichesse forse arriveranno a giustificare la loro esistenza spiegandoci cosa distingue la buona dalla cattiva letteratura.

  5. andrea barbieri Says:

    Valter ti sei sbagliato. Il sostantivo ‘critico’ viene usato di norma anche per una donna. Se proprio vuoi farne il femminile, nel tuo caso plurale, bisogna scrivere ‘critiche’, non ‘critichesse’ che non esiste e ha evidentemente un tono spregiativo (al contrario di ‘critici’).
    Detto questo l’articolo di Gilda Policastro secondo me è un gioco. La regola di questo gioco è spiegare qualcosa in modo dogmatico-libresco.

  6. vbinaghi Says:

    Ecco, appunto. Trattare un opera come il sintomo (di una malattia diffusa socialmente o privatamente, Marx o Freud pari sono), il che non dice nulla sua qualità artistica. Bonvesin de la Riva e Dante viaggiano entrambi nell’oltretomba, e questo corrisponderà senz’altro a una potente ossessione dell’uomo medioevale. Ma artisticamente parlando il primo è morto e sepolto, il secondo è un classico mondiale. E’ qui che vorrei il critico: per il resto, lo storico, il sociologo o lo psicanalista bastano e avanzano.

  7. francesca pincelli Says:

    dante masochista mi mancava

  8. Gilda Policastro Says:

    @Tassinari vero: Schevola. Ma è la traduzione con più refusi/imprecisioni/ridondanze/sciatterie che io abbia mai letto (”tutti gli sono uomini uguali”, e altre perle): ne sarò stata contagiata. Ma perché nessuno rilegge i libri, presso le case editrici? (polemica a margine della polemica).

  9. demetrio Says:

    a me interessa il discorso su Le Benevole, solo perché io ho avuto un’altra impressione leggendolo, ovvero a quello di impostura. lo stesso effetto che mi ha dato la vita oscena; impostura perché ci leggo qualcosa di finto e di preordinato, che non riguarda l’urgenza del voler dire, ma una sorta di gioco, interessante, ben scritto etc etc, ma alla fine sempre gioco rimane.

  10. Luca Tassinari Says:

    Niente di grave, e d’altronde Scevola rimanda al noto Muzio, che in un discorso sul masochismo è abbastanza in tema. E comunque, a parte i refusi, che ci sono, la traduzione non mi sembra poi così terribile. C’è anzi un caso in cui la distrazione redazionale provoca un’interessante sensazione di spiazzamento: nel capitolo 54, nel bel mezzo di una passeggiata narrata in terza persona, compare la frase “Ci distribuimmo diversamente” pronunciata da un narratore interno del tutto inatteso. Ho fantasticato di una prima stesura del libro in prima persona, con Meno Rohde nel ruolo di narratore, ma ammetto che non è l’ipotesi più economica.

    Demetrio, oso dire che se Littell non ti ha convinto, come non convinse me, Tellkamp ti conquisterà (posto che non ti abbia già conquistato, intendo).

  11. andrea barbieri Says:

    Per dire, sulla questione ‘gioco’, prendiamo questa frase:
    “Il masochismo, quando incarnato da un personaggio che dice «io» e che si vuole far coincidere con l’autore, è la categoria che i lettori italiani amano e premiano, a partire dalla Commedia dell’exul immeritus Dante, vero best seller della nostra letteratura nazionale.”

    Dato che non si tratta di un giudizio di valore ma di un fatto empirico, possiamo chiederci se l’asserzione è vera o falsa. Del resto era già successo qui:
    http://www.nazioneindiana.com/2009/08/28/critica-letteraria-di-nomi-e-cose/
    che Giulio Mozzi chiedesse: “”Gilda Policastro scrive a un certo punto: “L’ultimo choc letterario che si ricordi rimonta agli anni Novanta: quando in Woobinda di Aldo Nove si ammazzavano i genitori perché non usavano il bagnoschiuma Vidal”.
    E’ possibile provare che questa affermazione è vera o falsa?””

    Ma torniamo alla prima frase. Il discorso della Policastro è organizzato su un lessico tecnico, cerchiamo quindi i criteri diagnostici del masochismo sessuale (il masochismo è infatti un disturbo della sfera sessuale) nel DSM IV. Sono due:

    A) Durante un periodo di almeno 6 mesi, fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti, e intensamente eccitanti sessualmente, che comportano l’atto (reale, non simulato) di essere umiliato, legato o fatto soffrire in qualche altro modo.

    B) Le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento.

    Bene, ora abbiamo lo strumento attraverso cui sondare alcuni personaggi narrativi per definire se sono masochisti o no. La Policastro non li elenca, ma sappiamo che vanno da Dante a oggi: la scelta è ampia.

    Individuati i personaggi, vanno verificati i dati di vendita, confrontandoli con quelli di altri personaggi, sui quali non è possibile rinvenire i criteri diagnostici del masochismo, per provare che i personaggi masochisti sessuali battono gli altri nei gusti del pubblico. (Si potranno aggiungere altri criteri, oltre quello delle vendite, che testimoniano ‘l’amare’ e il ‘premiare’ del pubblico).

    Questo sarebbe il protocollo per verificare la verità o falsità dell’asserzione della Policastro. Tuttavia ho l’impressione che sia piuttosto difficile verificare davvero quei criteri diagnostici, che quindi il presupposto dell’asserzione sia, per così dire, flatus vocis.

    Si potrebbe obiettare che il termine ‘masochismo’ è allora usato in senso non tecnico. ‘Masochismo’ nel senso estensivo di compiacersi delle proprie disgrazie.
    Certo, se non si utilizza un concetto rigoroso, se il senso è estensivo e vago, non abbiamo il problema di chiederci se l’asserzione è vera o falsa. Sarà sempre vera e allo stesso tempo sempre falsa, un luogo comune in cui tutti si riconoscono a seconda di come interpretano le parole.

    Ma è proprio questo il punto, sia nel caso di significato tecnico che di significato estensivo, un’asserzione su un fatto empirico è costruita in modo da essere inverificabile. Per questo dico che non siamo in presenza di un ‘discorso’ (nel senso di ragionamento) ma un ‘gioco’ giocato assemblando parole, senza curarsi del principio di realtà.

    Qualcuno si chiederà se ha trovato risposta la domanda posta da Mozzi nel 2009 su Nazione Indiana. No, nonostante una riformulazione e qualche reiterazione, non ha mai trovato risposta.
    Non poteva trovarne, la domanda di Mozzi non rispettava la regola del gioco: la realtà non è pertinente al discorso. Infatti è stata trattata come domanda impertinente.

  12. Gilda Policastro Says:

    Andrea Barbieri non ha mai letto un testo di critica letteraria: non ho altro da aggiungere, e se non ci sono questioni nuove, qui, passerei al prossimo pezzo.

  13. dm Says:

    A me sembra che in questo pezzo siano stati tirati e annodati i fili di alcune vicende letterarie. Non so se è un gioco, forse dipende dai punti di vista (ad esempio per Wittgenstein qualsiasi discorso critico era un gioco linguistico). E non so se la tesi di fondo sia falsificabile o meno. Mi importa poco dal momento che non credo nella scientificità della critica letteraria. Che io sappia il solo discorso di cui si valuta la sensatezza secondo che si possa falsificare oppure verifiare empiricamente, è quello scientifico. La critica può anche limitarsi a estrarre dei significati dai testi letterari e metterli in relazione. Poi per carità lascio le discussioni puntigliose agli intellettuali. (Ho mischiato il pensiero di Popper con quello di Wittgenstein, tipo olio e acqua, e vabbè.)

  14. andrea barbieri Says:

    Scrive Gilda Policastro: “Andrea Barbieri non ha mai letto un testo di critica letteraria”.

    Ovviamente la Policastro non può sapere cosa ho letto e cosa non ho letto: anche questa è un’asserzione su un fatto empirico che prescinde dal principio di realtà. Una continuazione del ‘gioco’ appunto.

  15. andrea barbieri Says:

    Dm, a me interessano quelle asserzioni su fatti che sono contenute nel suo discorso. Solo di quelle posso, anzi devo chiedermi se sono vere o false. Me lo devo chiedere perché stanno a fondamento di giudizi di valore.
    Se decostruisci il testo della Policastro, l’asserzione di fatti empirici è utilizzata ovunque, senza verifica o inverificabile. Questo rende molto debole la sua argomentazione.

  16. demetrio Says:

    andrea, provo a dirti perchè non mi convince il ragionamento che fai tu. non lo smonto, ma provo a prenderlo da un’altra angolazione e vediamo se regge quello che io voglio dire.

    Se il “masochismo” a cui fa riferimento Gilda fosse una sorta di “esibizione della propria sofferenza”? e soprattutto se questa “esibizione della propria sofferenza” fosse posto a garanzia della veridicità di ciò che viene raccontato, detto e scritto.
    Ovvero: io sono un uomo di pena, io soffro, io soffro nel mio corpo e questa sofferenza che ti esibisco nella pagina è quello che mi permette di “dire” il mio mondo. Il fatto che io soffra diventa la motivazione del dire.
    Chiunque si occupi di scrittura dell’Io – e penso che il taglio che l’articolo voleva dare era questo – sa che esiste questa tensione (ne parla in Interpretazione di Malebolge Sanguineti, ne parla Guglielminetti in Memoria e scrittura) che è il fulcro ad esempio della scrittura Dantesca.
    Proprio la sofferenza di Dante, il suo essere separato dalla patria, il suo essere separato da Beatrice, costringe Dante a fare di sé un personaggio che dice “io”. E questo questo “io” e questo “personaggio” esistono per la soffernza sono giustificati in questo dolore. (il discorso paradossalmente potrebbe essere sviluppato anche su Primo Levi, soprattutto quando Se questo è un uomo diventa opera teatrale).
    Il paradigma dell’ “io sofferente” è stato negli anni avvenire utilizzato molto nella letteratura italiana. Pensa a Cellini, pensa a Vittorio Alfieri.
    Ovvio che non si possa stabilire empiricamente quanto, questo perché il mercato editoriale in Italia ai tempi di Cellini e Alfieri era nullo.
    Ma se tu prendi altri due scritture dell’Io più recenti vedrai come questo ha funzionato anche dal punto di vista del mercato.
    Pensa all’incipit dell’Ortis. Non siamo nuovmente in piena figura dell'”exul immeritus”? e non possiamo dire che Ortis non fu, per i tempi, per il mercato di allora un testo di pochi. Cambiò il modo di sentire, mise in contatto l’Italia e la sua cultura con ciò che capitava in Europa. L’idea della sofferenza come conoscenza del mondo divenne così netta che mi viene in mente il Manzoni dell’Adelchi e che scrive una cosa del tipo “vivi, sii grande e infelice”.
    Ma venendo a tempi più vicini a noi, pensa ai libri autobiografici di D’annunzio, dal Notturno, Al compagno dagli occhi senza cigli, ma anche ai romanzi come il Fuoco etc etc…
    Anche in questo caso il paradigma dell’io sofferente funziona e, in questo caso, abbiamo la conferma che anche dal punto di vista commerciale i romanzi di D’annunzio furono un successo.

    ecco spero di aver chiarito cosa non mi convinceva del tuo discorso.

  17. andrea barbieri Says:

    Demetrio, il ‘masochismo’ è una parafilia sessuale, è un concetto finché lo leggi tecnicamente, con gli strumenti della psichiatria, altrimenti nel senso estensivo di ‘mostrare la propria sofferenza’ diventa una parola assolutamente vaga che può significare tutto. Una persona che piange esibisce la propria sofferenza ma questo non dice nulla sul masochismo. Tra l’altro il masochista non esibisce la sofferenza, casomai esibisce la propria umiliazione, la esibisce per provare piacere sessuale.

    Che cosa c’entra il ‘masochismo’ con l’autenticità del discorso? Niente.

    Infatti Francesca Pincelli scrive: “Dante masochista mi mancava.” E Binaghi rimanda alla psicoanalisi.

    Apprezzo che tu cerchi di riformulare ciò che scrive la Policastro, ma la tua riformulazione è un discorso organizzato diversamente. Non usi il concetto di ‘masochismo’ ma ‘paradigma della sofferenza’ che almeno non rimanda alla psichiatria. Tendi a formulare ipotesi, cioè asserzioni in cui la condizione di verità è esplicitamente messa tra parentesi, più che giudizi di fatto.
    Dato che la mia obiezione è soltanto sulla formulazione del discorso della Policastro, e tu lo formuli diversamente, direi che condividi quello che ho scritto.

    Aggiungo che ho comunque delle riserve sul tuo approccio. Mi pare che ti servi di concetti della psicologia (per esempio la ‘sofferenza’), ma il tuo approccio prescinde dalla multidisciplinarità. Perché organizzare il discorso attorno al concetto di sofferenza, restando barricato ai ‘luoghi’ letterari? Penso che sia meglio cercare strumenti nella scienza che studia come si configura la sofferenza nella specie umana. Fare insomma i conti, quando si legge, con la realtà.

  18. paperinoramone Says:

    @ andrea barbieri

    Mettere commenti su un blog e fare critica letteraria cos’altro sono se non giochi? Usando solo asserzioni verificabili il giudizio di valore su di un testo letterario diventa più preciso però forse anche più limitato, o perlomeno necessità di spazi troppo ampi e soprattutto non chiusi come quelli che hanno a disposizioni altri testi. Che l’affermazione sullo choc letterario non possa essere dimostrata vera o falsa ( però può essere accettata come vera o falsa da un certo numero di persone ) non porta a considerare la realtà fuori da quel discorso. La critica letteraria non si occupa ( almeno non sempre ) del mondo fisico.
    Per esempio se si facesse uno studio come tu immagini sulla vendibilità dei personaggi masochisti o giù di lì ancora non potremmo stabilire se il masochismo sia la causa del successo di quei libri. Staremmo ancora nel campo delle intuizioni. Ma a te interessa sapere se è vero o falso che woobinda fu l’ultimo choc letterario oppure far notare la debolezza di questo modo di argomentare?
    Quella che è una debolezza per alcuni per altri è un’opportunità.

  19. andrea barbieri Says:

    Paperinoramone, non puoi utilizzare soltanto asserzioni verificabili nella critica letteraria, il giudizio di valore non sarà mai verificabile o falsificabile.
    Sto soltando dicendo che se si ritiene di rendere convincente un giudizio di valore dentro un’argomentazione che si basa *anche* su giudizi su fatti empirici, allora bisogna essere capaci di sostenere la verità di quei fatti.

    La mia critica è sul modo di argomentare della Policastro, l’ho scritto sopra. Ho trovato curioso che una domanda analoga l’avesse fatta Mozzi due anni fa. Forse non è un rilievo ozioso.

  20. demetrio Says:

    andrea. il mio approccio è letterario e uso strumenti letterari perché sono gli unici che so usare, almeno un po. Però sono un omino curioso e leggo anche altri libri, e vengo a conoscenza di altre “idee”, che uso, mutuo, cambio, mescolo e, perché no?, incasino ma fuori dal loro contesto e portandolo nel mio contesto, che come ti ripeto, è eminentemente letterario e legato soprattutto al testo. (sotto sotto amerei essere considerato un filologo, così per bullarmi che la mia laurea sia servita a qualcosa 🙂 )

  21. andrea barbieri Says:

    Mi raccomando prendi su le idee anche dalle persone, senza la mediazione del ‘libro’. Il ‘libro’ appartenendo soltanto ad alcuni taglia fuori una fetta di realtà. Mi ricordo, è un ricordo abbastanza ottenebrato ma lo dico: Mozzi parlando di Claudio Laudani mi pare avesse usato un’espressione tipo ‘puro’ o ‘autentico’ o ‘semplice’ (li intendo un po’ come sinonimi, e mi scuso per la vaghezza, ma il concetto mi pare quello). Mozzi dubita sempre di quella qualità, sentirglielo dire mi ha fatto impressione. Che cosa aveva Laudani di diverso? Laudani dipinge, ma Mozzi parlava della persona. Deve aver avuto una sorta di insegnamento che non è passato da un libro, è andato da persona a persona. Conoscere gli altri, situarsi concretamente davanti a loro, mi pare diverso da leggere.

  22. carlo carabba Says:

    Per correttezza e completezza, rendendomi conto che alcune delle persone coinvolte nella discussione potrebbero non essere amici virtuali di Policastro, riprendo un mio post dalla bacheca facebook di GP (in cui la stessa ha postato il link che rimandava qui).

    A me gli interventi di Barbieri sono parsi ottimi. Rileva un uso decisamente improprio (o nel migliore dei casi vuoto) di “masochismo” – imputabile peraltro a Tellkamp più che a Policastro. Del resto la stessa Policastro, in chiusura, identifica l’autodenigrazione (che in certa misura coincide con l’esibizione di un proprio malessere, imputabile a se stessi) con il narcisismo. Appurato che il masochismo non c’entra niente e cogliendo il giusto invito di Policastro di rivolgersi al macro, mi chiedo quale sia la tesi forte dell’articolo? Rileggendo il finale mi pare che Policastro inviti gli scrittori a evitare una coincidenza (per quanto proustianamente parziale) tra autore e personaggio e concentrarsi sul personaggio come incarnazione odiata e odianda dei “nostri fantasmi e dei nostri incubi” (però non capisco bene l’elogio di “daniz” di nazione indiana che invita a “creare un’ambiguità tra narratore e autore carnale” – che mi pare proprio il contrario di quanto chieda Policastro). Eppure mi pare poetica troppo restrittiva, come quella di Ostuni che nella prefazione al numero dell’illuminista sulla poesia liquidava la lirica, riprendendo Zublema, perché “banale epigonismo” (invece la postneoavanguardia…).

  23. dm Says:

    Mi scuso per l’intromissione nel “carteggio”. Ma trovo inaccettabili alcune affermazioni di Andrea Barbieri (mi punzecchiano nel vivo):

    “Aggiungo che ho comunque delle riserve sul tuo approccio. Mi pare che ti servi di concetti della psicologia (per esempio la ‘sofferenza’), ma il tuo approccio prescinde dalla multidisciplinarità. Perché organizzare il discorso attorno al concetto di sofferenza, restando barricato ai ‘luoghi’ letterari? Penso che sia meglio cercare strumenti nella scienza che studia come si configura la sofferenza nella specie umana. Fare insomma i conti, quando si legge, con la realtà.”

    Non voglio fare il pedante, ci mancherebbe, sicuramente Barbieri ne sa più di me, ma proprio per questo alcune cose vanno precisate.
    Intanto la psicologia non è una scienza, se scientifica è una teoria formulata attraverso il metodo scientifico e che dunque può essere falsificata o verificata in ogni momento. Per questo tutto ciò che è nel calderone della psicologia difficilmente viene smentito, cioè falsificato, quanto piuttosto superato, oltrepassato da nuove teorie che sembrano più adeguate a rappresentare certi fenomeni. Fatta questa premessa, non vedo come “i conti con la realtà” (ragionare utilizzando strumenti più precisi, che danno maggiore garanzia di verità) si possano far meglio usando concetti propri della psicologia, piuttosto che i “luoghi letterari”, essendo entrambi, alla resa dei conti, prodotti di una non scienza. Visto poi che che la psicologia prende a prestito molti dei propri concetti dalla filosofia e qualche volta dalla letteratura, non capisco come la sofferenza, che non è nemmeno una scoperta del secolo scorso, si possa comprendere meglio attraverso il voodoo della psicanalisi (usò questa espressione, se non erro, Nabokov).
    Cosa ancora più strana, nel commento successivo Barbieri parla di “autenticità”, di come questa misteriosa qualità dell’anima possa cogliersi tu per tu, a pelle. Mentre un approccio “scientifico” farebbe pensare a una qualità della relazione, a dei rispecchiamenti che tra due persone possono entrare in gioco, e che fanno una certa persona: semplice, pura, autentica ecc, nei confronti della persona che ha davanti. (Tra parentesi, il discorso sull’autenticità delle persone mi fa proprio andare in bestia. Suona come una cosa mistica, l’autenticità, che è invece spesso molto relativa, funzionale a una relazione.)

  24. andrea barbieri Says:

    DM, non ho parlato di: “autenticità”, di come questa misteriosa qualità dell’anima possa cogliersi tu per tu, a pelle.
    Sopra ho soltanto scritto di un ricordo molto vago su un’esperienza raccontata da Giulio Mozzi (non riesco a ritrovare il link) che mi aveva colpito perché quando parla di testi o autori Mozzi (mi pare) non utilizza mai quelle parole. Parole che contenevano l’intuizione di un valore che (mi pare) gli stesse molto a cuore. Posso dire di capire fino in fondo quel valore? Sicuramente no.
    Mi interessava solo far vedere che qualcuno riesce a ottenere qualche conoscenza significativa senza la mediazione del libro. Perché quando si parla di sapere (mi pare) si pensa ai libri e molto meno a muoversi verso le persone in carne e ossa.

    Il pezzo critico della Policastro utilizza la psicologia, e anche Demetrio, allora, visto che secondo me è bene dubitare delle parole che si utilizzano, perché potrebbero custodire dei modi automatici di pensare, mi sembrava una buona idea verificare quelle parole con gli strumenti della psicologia, di cui ho una grandissima diffidenza, ma ho più diffidenza per chi se ne serve nella critica letteraria. Perlomeno un riscontro con la realtà la psicologia lo deve evere, altrimenti non si giustificherebbero quei piccoli progressi che anche tu riconosci.

  25. stefano gallerani Says:

    “masochismo” – come “sadismo” – è termine che nasce metaforico, prima ancora che scientifico, dunque non vedo improprietà nel modo in cui Policastro l…o usa per esporre una sua tesi ed un suo pensiero; ed è su questo pensiero e su questa tesi che si può essere o meno d’accordo, non sulla forma, peraltro appropriata, scelta per esprimerli.
    Insomma, stare lì a precisare cosa significhi masochistico è, oltre che approssimativo – come sa chiunque abbia speso un po’ di tempo sui relativi concetti – inconferente, cioè inessenziale al giudizio sulla riflessione di Policastro.

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