Ridefinire l’altro e negare l’evidenza

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di giuliomozzi

[Altri articoli della serie: Chilometri zero]

Una massima morale

Agisci in modo da poter volere che la massima delle tue azioni divenga universale.

Dove per “massima” si intende la norma morale che consente o propone la mia azione.

Esempio: passo davanti a uno che ci ha la faccia antipatica. Mi viene voglia di spaccargliela, quella faccia. Allora mi domando: “Potrei volere che la norma chi trova uno con la faccia antipatica, può spaccargliela divenga universale?”. E mi rispondo: “No, perché non sono mica sicuro che la mia faccia non risulti antipatica a qualcuno; e non solo non ho voglia che quel qualcuno me la spacchi, ma nemmeno ho voglia che si senta autorizzato a spaccarmela”.

Questa è la prima delle tre celebri massime morali definite da Kant nella Critica della ragion pratica. Il suo contenuto non è sostanzialmente diverso, mi pare, dall’ancor più celebre massima di Gesù di Nazaret:

Ama il prossimo tuo come te stesso.

Percorso: amo il mio prossimo come me stesso; quindi voglio che la massima delle mie azioni possa sempre essere condivisa da lui; chiunque può essere mio prossimo; quindi voglio che la massima delle mie azioni possa sempre essere condivisa da chiunque; quindi voglio che la massima delle mie azioni possa essere sempre condivisa da tutti.

Più o meno in tutte (*) le etiche esplicite, laiche o religiose, si trova questa massima:

Non fare a un altro ciò che non vuoi sia fatto a te.

E’ evidente che si tratta sempre della stessa massima. La formulazione di Kant è rigorosa; quella di Gesù è affettiva; la terza è pratica.

La negazione occulta della massima

Ora, quasi nessuno è disposto oggi a smentire questa massima. E tuttavia molti hanno palesemente voglia non solo di violarla, ma di fare del violarla una consuetudine – consentita solo a loro.

Il trucco che si usa, allora, è: lasciare intatta la massima, ridefinendo il concetto di “altro”.

Pensate alla cosiddetta parabola del Samaritano (raccontata nel vangelo di Luca, 10 25-37:

Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso.

Ora, quasi tutti noi, quando si parla del “prossimo”, pensiamo immediatamente a chi ci è accanto, a chi frequentiamo, a chi amiamo, a chi ci è insomma “vicinissimo”. Invece, a leggere la parabola di Luca, è evidente che il “prossimo” è, letteralmente, “il primo che càpita, che si fa vicino”. Il signore samaritano aveva, in quanto samaritano, ottimi motivi (**) per fregarsene d’un giudeo: e invece se ne occupò. Ciascuno era per l’altro “il primo che càpita”, e il samaritano si è comportato come un “prossimo”. Ovvero: non è che un altro sia mio prossimo da prima; lo faccio diventare prossimo, tirandolo fuori dalla condizione di “il primo che càpita”, con la mia azione verso di lui.

L’uso corrente della parola “prossimo” è tutt’altro; è ben differente dall’uso che ne fa Luca; e serve a nascondere l’esistenza stessa del “primo che càpita”.

Tutto dipende da chi è l’altro

La democrazia ateniese, modello mitico di tutte le democrazie occidentali, era una democrazia per pochi intimi: perché non era poi così facile far parte del demos. L’esclusione riguardava: le donne, tutte; gli stranieri, anche se residenti in Atene da molti anni; gli schiavi, ovviamente; i minorenni; e forse (vado a memoria) altri. Se un ateniese appartenente al demos, ossia cittadino, faceva un figlio con una donna non cittadina, questo figlio non era cittadino.

L’operazione politica e culturale della Lega Nord e del Pdl consiste proprio nel ridefinire il concetto di “altro”. A questo è servita, ad esempio, la creazione del reato di clandestinità: a trasformare la semplice esistenza di alcune persone in un reato.

Grazie a questo espediente, qualunque persona immigrata in stato di clandestinità, nel momento in cui ha una qualunque necessità, si espone alla denuncia. Sugli aspetti sanitari della cosa, vedi il mio articoletto Istruzioni per scrivere una legge cannibale.

La negazione dell’evidenza

Un altro espediente assai usato oggidì è la negazione dell’evidenza. Esempio:

A: “Cretino!”.
B: “Cretino sarà lei!”.
A: “Come si permette di insultarmi?”.
B: “Le ho solo restituito il suo insulto”.
A: “Non è vero. Io non ho insultato nessuno. La cultura dell’insulto non mi appartiene”.

Ovvero: faccio a un altro ciò che non tollero venga fato a me, e poi semplicemente nego di averlo fatto. E’ una banalità, ma funziona benissimo. Faccio notare che la negazione dell’evidenza si serve di due operazioni distinte (e necessarie entrambe):
1. nego di aver fatto ciò che ho fatto (“Io non ho insultato nessuno”),
2. dichiaro che è impossibile che io abbia fatto ciò che si dice io abbia fatto, perché non è nella mia natura farlo (“La cultura dell’insulto non mi appartiene”).

Grazie alla seconda operazione, la persona che reagisce (all’oppressione, all’insulto eccetera) viene descritta come persona che ha le traveggole, le visioni: che non ha il senso della realtà.

Se ricordate la famosa dichiarazione dell’attuale capo del governo:

Il presidente del consiglio non può mentire per definizione (19 gennaio 2006),

potreste approfondire la questione leggendo il mio celebre articolo: Niccolò Ghedini dimostra che Giorgio Napolitano è Dio.

La domanda pratica

La domanda pratica è:

– come si contrastano queste operazioni di ridefinizione dell’altro e di negazione dell’evidenza, sulle quali si appoggia la retorica della Lega Nord e del Pdl?

Sulla negazione dell’evidenza, è possibile che la proposta di Christian Raimo (nell’articolo La performatività vuota di Silvio Berlusconi, del quale si è già parlato in questi giorni) abbia una qualche efficacia. Non sono sicuro però che sia dignitosa.

E la ridefinizione dell’altro?

Cominciamo da un’altra domanda: come hanno definito e ridefinito l’altro, le forze che oggi sono all’opposizione, in questi ultimi vent’anni?

(*) Una volta, tanti anni fa, avevo fatto una ricerca in proposito. Ora non so più dov’è.

(**) Motivi religiosi, naturalmente. Che trovate spiegati benino in Wikipedia.

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28 Risposte to “Ridefinire l’altro e negare l’evidenza”

  1. Gutturnio Says:

    Ai nostri giorni di buon samaritani se girano sempre meno, ed il vino usato per curare le ferite è sempre più raro.

  2. caracaterina Says:

    Fra i tanti valori rimessi in discussione da vent’anni a oggi c’è quello di reciprocità. La massima evangelica o più largamente etica “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” è diventata presso larghissima parte dell’opinione pubblica (e dell’elettorato): “Fai agli altri ciò che temi possa essere fatto a te”. La ridefinizione dell’Altro passa attraverso la paura, il senso di minaccia. Altro scritto maiuscolo indica una categorizzazione, una generalizzazione : “tutti gli altri” in cui io non mi riconosco, ovvero di cui non riconosco l’identità con me, la mia identità. I leghisti o i paraleghisti, presi uno a uno, non hanno molte difficoltà a rendere “prossimo” un singolo samaritano ovvero un singolo “altro” ed è proprio perchè i processi di integrazione di stranieri sono capillarmente diffusi (anche nel Veneto, anzi!) gli amministratori leghisti che adottano politiche discriminatorie possono difendersi dall’accusa di razzismo. Tuttavia, quando dai comportamenti singoli si passa a considerare le norme da adottare in modo universale – e da cui poi discendono i comportamenti anche individuali adottati o avvertiti come legittimamente adottabili nei confronti di singoli altri sconosciuti – rispunta la paura e si legifera e ci si comporta sulla base di un principio di reciprocità improntato all’aggressività: l’Altro è per definizione una minaccia. Si è partiti con “ruba il nostro lavoro”, si è passati per “stupra le nostre donne”. Quando queste accuse si sono rivelate nella realtà le stronzate che sono (e anche i “cinghiali” lo sanno benissimo e ne sono convinti, solo che non rinunciano occasionalmente a berciarlo per mancanza di capacità linguistico-argomentativa e/o per tagliar corto), si è arrivati a “ci frega nelle graduatorie delle case popolari, nelle mense scolastiche, nelle attese al pronto soccorso e per esami e visite specialistiche”. Sanità, scuola, casa, cibo. Aspetti basilari della vita. Si teme che “se si va avanti così”, gli stranieri ci fregheranno la pensione, la cui erogazione è già minacciata adesso, figuriamoci fra qualche anno. La Lega si è affermata, in vent’anni, sulla reale esistenza di un’ingiustizia distributiva, amplificata ovviamente ad hoc e che non si è mai iniziato a sanare. Ora, si può anche stare a discutere su come “i partiti di opposizione” hanno definito o ridefinito “l’altro” ma il punto è economico prima che sociale, antropologico o linguistico.
    erica

  3. federica sgaggio Says:

    Sono d’accordo, Erica; però secondo me la questione dell’ingiustizia redistributiva è una questione politica, più che strettamente economica. E come tutte le questioni politiche risente pesantemente del contesto ideologico che orienta le scelte che a loro volta determinano le destinazioni delle risorse.

    In risposta al medesimo epifenomeno di tipo economico (per esempio l’esiguità crescente delle risorse), le linee d’azione politiche possono perlomeno in via teorica essere diverse: non necessariamente ri-definitorie dell’Altro, non necessariamente esclusive.

  4. giorgio fontana Says:

    totalmente d’accordo con federica.

    un’osservazione estemporanea, giulio: un vegano potrebbe farti notare che “l’altro” relativo all’essere umano, in un discorso kantiano-cristiano-umanista è limitante e ingiusto. vedi i dati (abbastanza definitivi) riportati da safran foer nel suo “eating animals” (“se niente importa”, guanda 2010).

    naturalmente, noi sappiamo che qui si parla d’altro. di un contesto limitato a sua volta. ma, appunto, quando e come è giusto tracciare un limite all'”altro”? dove ha fine il contestualismo, e perché?

    se questa domanda vi sembra peregrina, ponetela a un leghista.
    perché una capra no e un magrebino sì?

  5. caracaterina Says:

    Hai ragione, Federica. Avrei dovuto scrivere “politica economica” ma mi è rimasto nella tastiera per una sorta di corto circuito marxiano.

  6. vibrisse Says:

    Erica, scrivi: “il punto è economico [politoco economico] prima che sociale, antropologico o linguistico”. D’accordo.
    Io mi interesso, professionalmente e per vocazione, di parole. Qui ho la mia competenza.
    Per questo limito il mio discorso.

    gm

  7. Luca Massaro Says:

    Prima di tutto: è da ieri mattina mi porto questo post appresso, nel vano tentativo di trovare risposta alla domanda finale.
    Quello che per ora, approssimativamente (mi scuso) mi sento di dire è: la “negazione occulta” della regola aurea avviene perché ad essa vengono “tolti” i “non” trasformando la frase in un falso positivo:
    «fai a un altro ciò che vuoi sia fatto a te».
    Ecco che coloro che applicano la nuova regola possono negare l’evidenza quando patentemente infrangono il suo vero significato, perché è chiaro che “loro” non saranno mai “l’altro” (essendo in una posizione di forza).
    Insomma, come ben dicono T. Cathcart-D. Klein, Platone e l’ornitorinco, Rizzoli, Milano 2007, togliendo i “non” alla frase avviene che anche «un sadico è un masochista che segue la regola aurea».
    Sostituire “leghista” a “sadico”.

  8. vbinaghi Says:

    Post complesso, bello. Prendo una cosa in particolare. L’interpretazione della parabola del Samaritano. Nell’ultimo dei suoi libri (I fiumi a nord del futuro) Ivan Illich mostra che questa parabola rivela all’uomo una libertà che il mondo antico (ebrei compresi) non conosceva. Quella di poter dedicare cure e attenzioni non (come prescritto) al più vicino, cioè al membro della comunità, ma a chiunque Dio ti manda sul cammino, che potrebbe essere anche culturalmente il più lontano da te (come in effetti lo erano il Giudeo e il Samaritano). Una libertà, non un obbligo. Aver trasformato la libertà della carità in un dovere e poi in una istituzione che è prepoposta ad amministrarlo è secondo Illich il peccato originale della Chiesa medioevale.

  9. Marco Says:

    Bello. A me viene da dire che Gesù di Nazareth diceva “Ama il prossimo” e non “Ama il prossimo e odia gli altri o ignorali”. Dunque, non soltanto è il concetto di “prossimo” che è stato alterato, ma anche quello di “amore”. Non mi pare si possa dire che un uomo che ama sua moglie odia il resto del genere umano. Non è detto che scegliere una posizione significhi dichiarare guerra alle altre. E alle volte, ditemi voi se non è questo esattamente quel che accade.

  10. Morgan Says:

    Giulio, non mi convince l’associazione Kant/Gesù. Tanto non mi convince che nella “Critica della ragion pratica” leggiamo: “Tutti i principi pratici, che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà, sono empirici e non possono fornire leggi pratiche”.
    Il percorso filosofico da cui provengono le tesi kantiane sono ben altro rispetto alla massima di Gesù, e scrivere “non è sostanzialmente diverso” è un passo azzardato. Infatti scrivi anche “mi pare”. 🙂
    Quando Kant si scaglia contro le etiche eudemonistiche – le massime di Gesù sono fra queste, riconoscendo nell’amare gli altri un piacere pari a quello rivolto a se stessi, cioè rendere felice l’altro come si renderebbe felici se medesimi – sta espressamente sostenendo che l’amore verso se stessi non può essere una determinazione oggettiva della volontà, in altre parole un punto di partenza del tutto diverso da quello di Gesù, quindi, nella sostanza intenti e scopi diversi.
    Questo per dire, Giulio, che nel definire *l’altro*, come poi fai, parti da un punto, cioè la “massima”, che decontestualizzata fila che è un piacere, ma, a voler fare i precisi, se contestualizzata, pone proprio la questione su che cosa sia *l’altro* in rapporto *all’io*. E lì nascono problemi complessi che sparigliano le carte di partenza. (il verbo sparigliare mi fa sorridere di recente, da quando l’ha utilizzato Vendola continuo a sentirlo pronunciare da molti, e spesso in maniera errata, come nel mio caso, fatto volutamente, anche se ci siamo intesi sul senso).

    Parli di ridefinizione dell’altro da parte della Lega e del PDL. Sì, sono d’accordo. Non posso non pensare a una parte illuminante di un testo che amo: “Una teoria della giustizia” di John Rawls. Se vi capita, andate al capitolo nono e precisamente all’Unità dell’io (85). Magari qualcosa non sarà chiaro a tutti, l’importante è capire il senso del rapporto fra bene e giustizia. Come non posso non pensare a “La politica come professione” di Max Weber. Certo, consigliare il testo di di Rawls mi risulta ostico, anche perché senza un bagaglio discreto di filosofia politica si rischia di capire poco, rimanendo nella superficie concettuale, ma credo che tornare sulle parole di Weber sia oggi quanto meno indispensabile. Poco più di cento pagine, nella versione di Armando editore, sono illuminanti pensando alla Lega e compagni di avventure.

    Perciò, e concludo, la prima domanda pratica è sacrosanta. Si tratta di capire da quale punto di vista affrontarla e temo che i blocchi di partenza siano fondamentali, cioè, fra le altre cose importanti, comprendere nella mentalità leghista il legame fra *potere* e *bacino di utenza*.

  11. vbinaghi Says:

    @Morgan
    Per restare al riferimento a Kant. La contaminazione col cristianesimo e con quello che tu definisci eudemonismo la fa lui stesso, quando parla di “trattare l’uomo come fine e mai come mezzo”. Fa bene a farlo, perchè l’imperativo categorico in quanto tale, che prescrive unicamente il dovere per il dovere (cioè l’azione non-condizionata da inclinazioni naturali) è talmente astratto e incapace di fondare etiche e politiche positive, da giustificare qualsiasi aberrazione, purchè dis-interessata. Questo a mio parere dimostra l’impraticabilità dell’etica kantiana e in generale di ogni filosofia morale (o politica) che si fondi su un concetto puramente negativo di libertà (essere liberi è non-essere condizionati). Quando si vuole superare questo ci si trova a praticare qualche forma di eudemonismo, ispirato alla solidarietà (Rawls) o alla territorialità (Schmitt)

  12. Morgan Says:

    @vbinaghi: “Questo a mio parere dimostra l’impraticabilità dell’etica kantiana”. O madonna mia Valter, oggi volevo starmene tranquillo con le mie carte e mi darai invece da pensare. Ci penso, anche se così, di primo acchito, mi sa che devo riprendere in mano Berlin… poi, non meno importante, siamo così sicuri che Kant abbia generato concetti puramente negativi di libertà? Io no. Proprio no.
    L’astratto così lontano da etiche e politiche positive?

    Sulla contaminazione, sì, certo. Kant era cristiano, non ci si può dimenticare questo. Mi è sempre sembrato bello – bello, sì -, il suo “La religione nei limiti della semplice ragione”.

  13. vbinaghi Says:

    Non voglio fare il cialtrone che liquida un genio come Kant in due battute (proprio io che poi devo spiegarlo ai liceali ogni anno). Semplicemente credo che l’etica per il nostro tempo, il ri-pensamento di cui Giulio qui si fa coraggiosamente interprete, trarrebbe migliore ispirazione da filosofi che hanno espresso una visione più positivamente incarnata dell’uomo e della libertà, dove l’Altro non è qualcosa da dedurre a partire da un Cogito autosufficiente, ma l’orizzonte primordiale della nostra apertura all’essere e al mondo. Uno come Merleau-Ponty, per esempio.

  14. Morgan Says:

    Valter, chiarissimo il tuo pensiero.

  15. vibrisse Says:

    L’altro è il prossimo, cioè il primo che càpita. E càpita (cioè: entra nel mio campo visivo, nella mia attenzione, nel mio ragionamento, nei miei affetti ecc.) perché sono in grado di farlo capitare. E io sono in grado di farlo capitare perché è grazie a lui che io càpito a me, e sono in grado di farmi capitare: senza di lui, non mi capiterei mai.

    Sono stato abbastanza oscuro o serve una spiegazione?

    🙂

    giulio

  16. vbinaghi Says:

    E’ molto chiaro Giulio, ma solo se si parte da una visione già intersoggettiva (e non atomistica) dell’esistenza umana. Si tratta di saltare via cinque secoli di individualismo liberale e due secoli di collettivismo marxista in un colpo solo.
    Dici niente.

  17. Morgan Says:

    chiaro Giulio 🙂

  18. giorgio fontana Says:

    giulio, chiarissimo e l’idea del “se io sono in grado di farlo capitare perché è grazie a lui che io càpito a me” mi piace molto.

    ma: chi definisce, e come, il concetto di “capitare a me”?

    se io grazie a una zanzara càpito a me e non voglio assolutamente ucciderla benché mi abbia punto, poiché se la uccido uccido in qualche modo me stesso poiché abitante della medesima biosfera – devo considerare questo pensiero universalizzabile?

    la cosa non è scontata, e ho usato un esempio veramente banale e stupido apposta.

    cosa e quale è l'”altro” che mi rende “capitabile”? e perché è capitabile?

    in fondo, perché una zanzara no e un uomo che mi chiede la carità sono diversi, dal punto di vista del “capitare”?

    è una domanda seria.

  19. vbinaghi Says:

    Osservo che tutta la discussione si svolge come se il soggetto di una scelta politica fosse il me e non il noi. Non è la stessa cosa, ovviamente, come non si può dedurre la politica dall’etica in modo automatico.
    Se uno che chiede la carità a me pretendo che venga rifocillato e accudito dalla mia famiglia, me lo porto a casa lo presento ai miei genitori e loro non sono daccordo (perchè ad esempio avevano destinato il loro surplus ad Altro o ad Altri), posso anche pensare che il loro comportamento è moralmente scarso, ma dovrò rispettare la loro volontà di disporre dei propri beni.
    Anche questa è una distinzione seria.

  20. Giulio Mozzi Says:

    Giorgio: perché l’uomo ha i neuroni specchio, e la zanzara no.

    Valter: io non ho un “noi” politico nel quale posso ritrovarmi, e quindi è saltata (per me) la connessione (che non è deduzione) tra la mia etica e la nostra politica. E credo di non essere l’unico in queste condizioni.

    gm

  21. vbinaghi Says:

    In questo momento neanchio avrei un “noi” in cui identificarmi nel senso che tu dici (cioè un partito, un movimento che esprima un programma che condivido). Ma questo è un “noi” associazionistico, non un “noi” politico.
    Il “noi” politico è la realtà concreta di una comunità nazionale cui si appartiene non perchè la si è scelta ma perchè è il luogo della propria incarnazione.
    “Noi” italiani, insomma (visto che nè io nè te accettiamo che questo luogo sia qualcosa di diverso, tipo “la padania”).
    Neanche questa è una distinzione da poco.
    Anzi oserei dire che poroprio la confusione fra questi due piani (comunità politica, cioè polis, e associazione tra sodali), sia all’origine della cronica insufficienza civile di questo paese.

  22. Massimo Vaj Says:

    Impostata così la questione sembra avere sempre una necessità di equilibrio stabile per essere logica e accettabile:
    —Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te—
    È, questo, il punto di vista più generale possibile, ed è adatto, proprio per l’indiscussa validità di questa generalizzazione, a essere capito da chiunque, qualunque sia il suo livello di comprensione e di attitudine sociale. Quando si vuole che questa reciprocità non costituisca l’unica ragione di essere per comprendere e attuare la generosità, che è compassione e misericordia, quando ci si vuol porre sul piano spirituale che vede non aver bisogno, il sacrificio di sé, di essere ricambiato, allora questa reciprocità d’intenti, pur non perdendo la sua validità, non è più rigorosamente necessaria per comprendere che il sacrificio del proprio egoismo conduce all’altruismo volontario e l’altruismo apre la via alla centratura universale di sé. Chi ama non ama attraverso le formule matematiche del dare e dell’avere. Il Cristo non sta aspettandoci nell’aldilà per riscuotere ammende.

  23. DANTE TORRIERI Says:

    In effetti le frasi del tuo articolo (del 2010) Giulio, mi ricordano parecchio le spiegazioni di Benigni nei: I Dieci Comandamenti… andato n onda di recente sulla Rai:

    1- Ama il prossimo tuo come te stesso (perche’ il te stesso sta anche nel prossimo tuo, in quanto appartenente alla tua stessa specie. Percio’ e’ nel tuo interesse egoistico e non altruistico, amarlo per salvaguardarti: credo si chiami Darwinismo sociale.)

    2- Non fare a un altro cio’ che non vuoi sia fatto a te (perche’ se ad esempio… uccidi un altro, uccidi anche te stesso – una parte almeno, io direi il cuore: credo si possa chiamare istinto di sopravvivenza Darwinistico.)

    Insomma a scavarci a fondo sia L’EVOLUZIONE DELLA SPECIE di Darwin che i VANGELI degli Apostoli, vanno quasi d’accordo… che sia stata la stessa penna a scriverla? Boh almeno da un punto di vista cromosomico, si’.

  24. Giulio Mozzi Says:

    Dante, mi pare che il “darwinismo sociale” sia storicamente un’altra cosa (vedi Wikipedia).

  25. DANTE TORRIERI Says:

    Giulio, quello che volevo intendere con DARWINISMO SOCIALE e’ questo: non esistono singoli individui ma tanti individui interconnessi… nel mondo. La differenza tra l’uomo e l’animale e’ che nell’animale, vige la legge del piu’ forte (individualismo), nell’uomo vige (dovrebbe per lo meno) esistere la legge del piu’ intelligente (collettivismo). In altre parole un individuo, mettiamo (A), non puo’ guardare un altro individuo, mettiamo (B) e dire: ma chi lo conosce B e che mi frega se crepa o vince la lotteria! Se guardi al microscopio uno spermatozoo umano, vedi che esso assomiglia a un girino cioe’ a una rana… e questa non e’ una coincidenza bizzarra. Se parli con un antropologo, esso ti dira’: per capire chi erano sia (A) che (B) prima di diventare (A) e (B), guarda lo sviluppo dell’embrione, da cui essi sono nati. Alla fine ti accorgi che la colonna vertebrale, non e’ altro che la coda del girino e il girino non e’ altro che una semplice rana. Insomma gia’ lo aveva capito Eraclito 2500 anni fa, quando diceva: Panta rei (tutto scorre). Basta solo saper leggere poiche’ (come c’era scritto una volta sui soldi) la legge non ammette ignoranza 🙂

  26. Pensieri Oziosi Says:

    1. Il darwinsimo sociale propone l’evoluzione biologica come chiave di lettura per lo studio delle società umane. Ha una forte connotazione negativa, visto che è stato variamente adoperato come giustificatione di ingiustizie sociali sulla base della sopravvivenza del più adatto, o come fondamento teorico di razzismo ed eugenetica. Sicuramente non vuol dire che «non esistono singoli individui ma tanti individui interconnessi… nel mondo». E’ tutto su Wikipedia, ma se preferisci anche sulla Treccani, basta solo saper leggere.

    2. Collettivismo indica un ordinamento nel quale i beni appartengono alla collettività. Sicuramente non significa «la legge del piu’ intelligente». Basta solo saper leggere il vocabolario.

    3. «[…] guarda lo sviluppo dell’embrione, da cui essi sono nati.»
    La teoria della ricapitolazione, cioè l’idea anche detta legge biogenetica che l’ontogenesi riassume la filogenesi, è una teoria defunta e sepolta. L’idea che un antropologo la possa tirar fuori oggi è alquanto bizzarra.

    4. Ma siamo sicuri che sui soldi una volta c’era scritto «La legge non ammette ignoranza»?

  27. paolab Says:

    per davide: che l’ontogenesi riassume la filogenesi è una teoria che ha le sue suggestioni, ma è ben superata. quanto al darwinismo sociale, è uno dei più clamorosi e drammatici esempi di come si possano maneggiare in modo rozzo e ingiustificato le teorie scientifiche in ambiti che non gli pertengono, procurando guai e fraintendimenti con metodi abborracciati. tra l’altro, la natura è piena di specie collaborative (ben più dell’uomo) e sicuramente intelligenza e collettivismo non sono sinonimi. che l’altruismo (naturale o culturale) possa essere un esito adattivo da pressione selettiva è argomento di studio e mi sembra tutto molto OT. Per quanto riguarda sopra, invece, mi pare che le massime “ama il prossimo tuo” e “non fare agli altri” non siano poi così sovrapponibili, benché tra loro connesse. è un po’ come dire “ti amo” e dire “non ti farò del male”: si completano, ma fa una bella differenza.

  28. DANTE TORRIERI Says:

    Pensieri oziosi… ti sbagli: su tutti i fronti saper leggere significa saper interpretare. Io poi non mi nascondo dietro un Wikipedia. E poi come direbbe il MARCHESE DEL GRILLO: io sono io e tu non sei un…. ma chi sei? O per diertela alla Terence Hill in Trinita: ragazzo (RAGAZZA?) se vuoi un nome sulla fossa, dimmi il tuo nome?

    Ps: non mi interessa sapere il tuo nome, ognuno ha le sue opinioni 🙂

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