Idee per la sinistra, performatività vuota ecc.

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di giuliomozzi

[Prendo spunto dagli articoli che ho già citati qui; sullo stesso argomento anche Valter Binaghi ha scritto; segnalo anche un nuovo articolo di Raimo in Nazione indiana, che però non ho ancora avuto il tempo di leggere per bene].

Spero non sembri un’invasione di campo se io, democristiano da sempre, entro in una discussione attorno a “idee per un nuovo discorso di sinistra”, come ha sottotitolato Christian Raimo un suo intervento (qui). Cercherò di essere discreto e costruttivo.

Nelle settimane scorse un’azienda italiana, la Fiat, ha avvisato che se in un certo stabilimento italiano non le sarà permesso di organizzare il lavoro in un certo modo, trasferirà la produzione – o parte di essa, non ho capito bene – in Serbia. L’azienda è stata accusata di comportamento ricattatorio. Ora, è fuor di dubbio che finché gli operai serbi avranno meno diritti e saranno pagati meno di quelli italiani, l’azienda sarà sempre tentata di delocalizzare, come si dice oggi, la produzione. Il problema è, dunque: come si fa a far sì che gli operai serbi abbiano più diritti e siano pagati meglio?

Cito questa storia perché è recente. Ma mi pare ovvio che, in generale, se le aziende italiane (o tedesche, francesi, statunitensi eccetera) tendono a spostare la produzione dove loro fa più comodo, il problema vero non è la difesa dell’industria nazionale, o cose del genere, ma la disparità di condizioni tra un lavoratore italiano (o tedesco eccetera) e un lavoratore serbo o polacco o cinese eccetera.

Non so come (non è il mio mestiere saperlo) si possa perseguire l’obiettivo di avvicinare le condizioni del lavoratore italiano e quelle del lavoratore serbo o polacco o cinese eccetera. Ma mi pare evidente questo: una politica che voglia salvare quel che resta dell’industria italiana (o tedesca…) non può che essere una politica estera, e non può che essere una politica estera “di sinistra”. Sarà una politica favorevole, nelle varie sedi internazionali e nei rapporti bilaterali, a tutto ciò che favorisce la tutela del lavoratore e la tutela dell’ambiente, la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. Nel perseguimento di questa politica, magari, ci potranno anche stare scelte temporanee di protezionismo, magari nella forma di sanzioni. Ma le azioni protezionistiche sono tattiche, non strategiche. Strategico è l’obiettivo di portare tutti i lavoratori a lavorare in ambienti sani, con orari decenti, con paghe decenti, e così via.

In queste settimane non ho sentito fare pressoché da nessuno – e non certo dai sindacati – un discorso del genere. Dal che deduco che l’egoismo nazionalistico è penetrato in tanti spiriti. Lo nota anche Ida Dominijanni, nell’articolo (qui) dal quale prende le mosse quello di Raimo:

Giorgio Fontana ha scritto un articolo su La verità nell’epoca di Silvio Berlusconi. Faccio una proposta interpretativa: ciò che è avvenuto, è che ciascuno è stato / si è sentito autorizzato a ritenere vera una verità fatta in casa. Tutto ciò che dicono coloro che a me sembra straparlino è in realtà, di solito, vero nell’ambito dell’egoismo nazionalistico, o regionale, o cittadino, o di classe, o religioso, eccetera, del parlante.

Se esiste un’etica della verità – verso la fine del suo articolo Fontana auspica il ritorno alla “buona vecchia etica della verità” -, mi pare che essa consista nel cercare, vedere, dichiarare, discutere i limiti di ogni verità. E’ ben vero – faccio due esempi banali – che la pubblica amministrazione si prende quasi la metà del reddito che io produco: ma è anche vero che in casa ho l’acqua, la luce e il gas; che davanti alla mia casa corre una via asfaltata, illuminata di notte, e dotata di tombini per lo scolo dell’acqua piovana; che gli autobus nella mia città funzionano (anche oggi che è Ferragosto); e così via. E’ ben vero che il partito capeggiato dall’attuale capo del governo ha vinto, alleato col partito secessionista, le ultime elezioni, portando a casa il 46,81% dei voti: ma è anche vero che tutti gli altri voti, ovvero la maggior parte, sono andati ad altri (vedi).

Le migliori verità sono quelle universali, ma di verità universali ce ne sono ben poche (quelle della fisica sono probabilistiche: la fisica non dice che gli asini non possono volare, ma che – stando ai dati disponibili, e alle teorie non ancora falsificate – è assai improbabile che ciò avvenga). La prima “virtù della verità” consiste nel riconoscimento della non universalità, o della limitatezza, delle verità disponibili; e quindi nell’attenzione costante a stabilire e dichiarare quando e dove una certa verità sussiste.

L’attuale capo del governo, considerato da molti un grande mentitore, a me sembra piuttosto un uomo che dice sempre delle verità limitate, e che ha la capacità e la forza di farle apparire come se fossero verità universali (o quasi). In particolare, egli dice sempre, mi pare, delle verità private, cioè delle verità che sono vere nell’ambito del suo egoismo personale; e ha la capacità e la forza di farle apparire come se fossero verità pubbliche, in quanto suscita in molti l’illusione che anche nel proprio privato quella verità sia vera. Così il cittadino si illude che l’amministrazione pubblica non gli dia nulla in cambio dei soldi che preleva dal suo reddito o dal suo profitto nella forma di tasse e contributi (un’illusione che può arrivare fino alla negazione dell’evidenza; e segnalo questo fatterello qui), o si illude che effettivamente l’attuale capo del governo agisca in nome di tutti gli Italiani (in realtà, agisce per tutti gli Italiani).

E’ avvenuta dunque una privatizzazione della verità, che una volta (le favole cominciano con C’era una volta…) era pubblica. Il che mi sembra molto in linea con l’attualmente in corso privatizzazione di qualunque cosa.

Chi voglia opporsi al gruppo di potere che sembra attualmente dominare l’Italia dovrebbe, credo, riflettere sulle proprie operazioni di privatizzazione della verità; e dismetterle. Questa, faccio notare, è un’operazione nonviolenta, ossia pubblica, ossia compiuta privilegiando l’interesse di tutti sull’interesse privato; ed è necessaria premessa a successive azioni positive.

Christian Raimo nel suo articolo ragiona attorno a quella che chiama – felicemente, mi pare – la “performatività vuota” dell’attuale capo del governo:

A che gioco linguistico abbiamo giocato negli ultimi vent’anni? Quale è stato il linguaggio dominante della Seconda Repubblica, di cui Dominijanni dichiara la fine? […] Qual è stata la più significativa trasformazione che ha portato la discesa in campo del ’93, in questo senso? Che Berlusconi ha via via fatto piazza pulita del livello referenziale del linguaggio, sostituendolo con un livello che potremmo definire “performativo vuoto”. Qualunque cosa Berlusconi dice non si riferisce a una questione in sé (che siano le tasse, il governo, il terremoto, le elezioni, o qualunque altro tema): quello che Berlusconi dice è sempre un fare. È un mostrare di esserci, è rassicurare gli italiani con i ghe pensi mì, è farsi vedere sorridente o abbronzato o ferito, è insultare l’opposizione, è fare killeraggio mediatico attraverso i giornali di famiglia, è condizionare i telegiornali pubblici fino a farli omettere le notizie o farli parlare di “strani calzini turchesi”, è vantarsi dei propri risultati o delle proprie virtù sessuali, è divertire con qualche barzelletta, è promettere cure per il cancro… Finisce con l’essere indifferente se le sue frasi siano credibili, sensate, ancorate al reale, non autocontradditorie… Il senso di ciò che dice sta sempre nell’effetto che queste frasi producono (l’articolo intero, qui)

Propongo di pensare questo: dire una verità è un fare molto più spesso di quanto si creda. Oggi è Ferragosto, e dire questo sembra una pura e semplice constatazione. Ma se dicessi: “Oggi è il 15 agosto”, tutti si accorgerebbero che deliberatamente ignoro il fatto che il 15 agosto è Ferragosto. Se dicessi: “Oggi è l’Assunta”, potrei già suscitare le ire di qualche laicista (e se proponessi al mio amico Mario, che è protestante, di “fare una gita per l’Assunta”, lui potrebbe prenderla per una provocazione).

Anche una semplice constatazione, in quanto impone una verità privata a dispetto di una verità pubblica, è un fare. Leggo in un giornale di oggi:

[…] “In media sono stati catturati otto mafiosi al giorno e un superlatitante al mese”, ha detto Maroni, precisando che tra il maggio del 2008 e il 31 luglio del 2010 sono stati 6433 i mafiosi catturati […] (qui).

Non dubito che ciò che l’attuale ministro dell’Interno dice sia vero. Ma non è già un fare, ad esempio, quell’esibire il numero dei “catturati” (cioè delle persone sospettate di essere nella mafia) e non il numero dei giudicati e condannati? Non è già un fare, ad esempio, quell’esibire il lavoro di contrasto alla mafia come se fosse un puro fatto militare? Non è già un fare, in sostanza, ogni operazione che punti a costruire una scena, un set, dentro il quale una verità privata possa apparire come pubblica?

E sospetto che la proposta di Raimo (“imparare a maneggiare un po’ meglio questa retorica ‘performativa vuota’ e rovesciarla a proprio vantaggio”) abbia sì il suo senso; ma che non serva a molto “esasperarla, parodizzarla”. Serve, imparare a “maneggiarla”, per imparare a costruire set nei quali le verità pubbliche risultino pubbliche, e le verità private risultino private.

E Zavattini, cosa c'entra con tutto questo discorso? Niente, credo.

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26 Risposte to “Idee per la sinistra, performatività vuota ecc.”

  1. Sandro Says:

    Tante cose su cui pensare.
    Primo, il fatto che una politica “di sinistra” non può che essere una politica estera, che miri ad innalzare le condizioni altrui, non a fare protezionismo sulle proprie. Esatto. È una cosa che – con molta meno precisione e lucidità – ho tentato di opporre a chi faceva certi discorsi, in certe situazioni – ai leghisti, per esempio.
    Il fatto è che una politica “di sinistra” dovrebbe essere appunto una politica non egoista, che va contro l’egoismo, o almeno così intelligente da essere egoista al quadrato, perché ottiene il meglio attraverso il bene di tutti. E questo è difficile difficilissimo, tanto che anche chi avrebbe queste idee da esporre, pubblicamente, non lo fa per paura di perdere dei voti, perché il discorso dell’egoismo è molto più ferocemente immediato e comprensibile, più stupido e cieco, se si vuole, ma fa presa prima. E quando si tenta di argomentare, la porta è già chiusa, dai più.
    Mi viene in mente d’aver letto diverse volte di come l’internazionale socialista, per statuto, (“proletari di tutto il mondo unitevi”, no?) si opponeva all’entrata in guerra dei rispettivi paesi, perché gli operai di una nazione dovevano trovare stupido andare ad ammazzare, in nome del capitale, altri operai di altri paesi europei. Poi i socialdemocratici tedeschi cedettero, e a ruota tutti gli altri…
    Quanto agli articoli che citi, sono più d’accordo con Binaghi che con Raimo.
    Non rispondere nel merito della questione , ma giocare sulla destabilizzazione del linguaggio, ribaltandola addosso a chi la crea: cioé, non smascherare la privatizzazione della verità, come la chiami tu, ma giocare alla parodia, allo sfottò: Berlusconi è volgarotto, Berlusconi fa le gaffe, Berlusconi è un pessimo attore… Non funziona, è una reazione vecchia come il cucco e mi ha annoiato. Cosa c’è di diverso, per esempio, dal modo in cui una delle trasmissioni televisive più funzionali a Berlusconi (Striscia la notizia) l’ha sempre preso in giro? ” il “cavaliere mascarato”, e via dicendo? Non serve a niente. Fin dai tempi di Cuore lo facevano, presupponendo una superiorità civile e culturale che dalla maggior parte della popolazione non era più riconosciuta

  2. Sandro Says:

    ps: mi scuso per la maniera oscura in cui mi sono espresso. Spero che quel che volevo dire si capisse, nella sostanza. La guerra naturalmente era la prima guerra mondiale.

  3. vbinaghi Says:

    Avverto due livelli nel discorso di Giulio (tanto per restare in tema di “localizzazione” della verità). Il primo lo definirei filosofico: quando scrive
    “La prima “virtù della verità” consiste nel riconoscimento della non universalità, o della limitatezza, delle verità disponibili; e quindi nell’attenzione costante a stabilire e dichiarare quando e dove una certa verità sussiste.”
    Anche se di primo acchito appare diversa, questa enunciazione corrisponde a quella tipica del pragmatismo filosofico americano (Peirce, James, Dewey), secondo cui la verità di un enunciato è accertabile nei suoi effetti pragmatici, cioè nei risultati che permette di conseguire. In effetti, essendo l’operare umano sempre circostanziato, limitato a tempi e luoghi, questa massima pragmatica tende ad escludere verità universali. Come insegna una buona analisi dell’empirismo (da Hume in poi), l’universale è in effetti inverificabile.

    Il secondo livello del discorso di Giulio è politico. Qui afferma che l’unico modo per risolvere problemi locali è quello di avere come obiettivo la realizzazione di una verità universale: “portare tutti i lavoratori a lavorare in ambienti sani, con orari decenti, con paghe decenti, e così via.”
    Ora, a parte il fatto che in termini epistemologici la seconda richiesta contraddice la prima, non io ma la storia insegna che gli uomini si costituiscono in comunità, popoli, nazioni, entità il cui carattere circoscritto non contraddice una tendenza universalistica (gli Imperi ad esempio, sperimentati già nell’antichità) ma nemmeno se ne lascia superare. L’ideogramma cinese di uomo è composto dei due segni di Cielo e Suolo. L’uno irriducibile all’altro. Per questo ritengo che l’orizzonte della scelta politica non possa che essere nazionale o comunque circoscritto. L’universale lo riserverei alla filosofia, cioè all’inesauribile aspirazione alla conoscenza della Totalità.

  4. vibrisse Says:

    Sandro, tu indichi dunque qual è il lavoro retorico da fare: rendere “ferocemente immediato e comprensibile” l’ “egoismo al quadrato”.

    Valter: sì, mi interessava mettere in luce l’esito etico di un discorso che nasce epistemologico.

    Quanto alla contraddizione: il “portare tutti i lavoratori a lavorare in ambienti sani, con orari decenti, con paghe decenti”, a me pare un’utopia: da scriversi sulla porta, però, e meditarla di giorno e di notte.

    Indubbiamente “la storia insegna che gli uomini si costituiscono in comunità”, ma in base a questa premessa, così formulata, si può sostenere un po’ di tutto: anche che noi apparteniamo alla comunità di Pieve di Livinallongo del Col di Lana, ad esempio, e che il nostro orizzonte politico si ferma ai confini naturali, dettati dall’orografia e della particolare variante del dialetto, di tale comunità. Servono insomma, mi pare, delle ragioni per decidere che una certa comunità (lo Stato nazionale, l’Europa, la Nato, la Tradizione occidentale ecc.) è una “supercomunità” – ovvero: fa politica estera.

  5. vbinaghi Says:

    Ecco, questo è il punto. L’Europa.
    Per restare alla questione Fiat che tu ponevi, l’Europa a 25 (con regole comuni e pari dignità dei lavoratori) sarebbe un obiettivo realistico, anche se sospetto che la redditività del capitale come principio non discutibile porterebbe i Marchionne a trasferire lavoro in Burundi, una volta che i Serbi guadagnassero come gli Italiani.
    Schmitt sosteneva che in politica è imprescindibile la distinziono “noi” – “altri” (nel senso di diversi, non di nemici). L’utopismo globalista finge di non sapere che i confini si possono anche superare, ma ci vogliono decenni per omogeneizzare diritti, nel frattempo intere generazioni vengono sacrificate alla delocalizzazione del lavoro.
    In altre parole, la protezione di un’economia (nazionale o continentale che sia) è un elemento imprescindibile della prassi politica (non un dogma religioso).

  6. christian raimo Says:

    Giulio, mi trovi d’accordo su molte cose. Forse sono io il democristiano.
    La prima su quello che per me è il recupero dell’internazionalismo. Un orizzonte politico di sinistra o è metanazionale o non è. Che la sinistra abbia fatto propria e dominante la retorica del “territorio” è un altro piccolo sintomo ridicolo della mancanza di un progetto politico.
    La seconda il recupero del pubblico. Essere di sinistra vuol dire essere per l’uguaglianza. Questa verità lapalissiana è stata devastata da un paio di decenni di retoriche liberali miserrime come solo in Italia potevano esserci. Recentemente ho sentito D’Alema che commentava un libro di Galli, “Destra e sinistra”, in un lungo dibattito. Ecco: le basi che rivendicava per un discorso rinnovato a sinistra erano quelle della rivoluzione francese del 1789. Come se il 1848 o il 1870 – non dico le rivoluzioni non violente, le lotte anticolonialiste del Novecento – non fossero mai avvenuti.
    La terza è che è vero: fai fare un passo in più al mio discorso che per me era implicito. Ogni dire in fondo, in parte, è un fare. Non perché il linguaggio sia plastico della realtà. Ma perché l’etica della verità che Fontana proponeva mette nelle condizioni di ritrovare delle responsabilità. Dire una cosa e non un altra. Dirla in un modo o in un altro.

    Quello che io invece cercherei di ribadire è che la mia strategia linguistica antiberlusconiana non si basa sullo sfottò, ma sullo svelamento del discorso seduttivo di berlusconi.
    Quando Pasolini diceva che il nuovo fascismo sarebbe stato più penetrante perché in qualche modo faceva leva sui desideri più profondi – amato e non imposto, in fondo – questo discorso non poteva essere recepito nella banalità del male in cui si mostra oggi. O trovo un modo per mostrare che il berlusconismo non è seducente, è un film che non fa ridere non solo perché il paese è il rovina, ma perché faccio più ridere io: o altrimenti il berlusconismo avrà sempre vinto. L’essere umano insegue i suoi desideri – non il senso di responsabilità, etc…

  7. Sandro Says:

    Ecco Giulio, la mia nebulosità: “egoismo al quadrato” stava per “ragionamento a lungo termine che, vincendo sull’egoismo immediato, accompagni chi sarebbe naturalmente egoista, a capire che il bene degli altri, infine, con un bel salto mortale da cui si ricadrà in piedi, sarà anche il suo, e a maggior ragione perché sarà il bene di tutti, e quindi anche eventuali problemi futuri diminuiranno, per lui e per il suo orto, perché anche gli orti della gente intorno saranno rigogliosi e quindi lui, oltre a star bene, sarà reso anche più sicuro dal bene degli altri: starà quindi bene al quadrato”.
    vbinaghi: vero, è utopia. Ma se non si tende a quello, non si fa nessun passo in quella direzione, le generazioni sacrificate diverranno due, e poi tre, e poi quattro…

  8. Marco Candida Says:

    “La prima “virtù della verità” consiste nel riconoscimento della non universalità, o della limitatezza, delle verità disponibili; e quindi nell’attenzione costante a stabilire e dichiarare quando e dove una certa verità sussiste.”

    Ecco, questo mi pare un sunto lodevole di quel movimento di pensiero filosofico che va sotto il nome di relativismo culturale. Fontana però relativista culturale non è, e anzi a lui sembra venirgli l’orticaria solo a sentirne parlare, se arriva, come ha fatto nel suo articolo, a sconfessare un intero movimento partendo da una manciata di parole scritte da Gianni Vattimo in un suo libro. Si tratta, per ridire ciò che tu Giulio già dici, di stabilire le condizioni che rendano possibili e forse necessarie talune di quelle pratiche che riteniamo veritative, e non stabilirle una volta e per tutte. Che siano verità con la v minuscola o con la v maiuscola, per il relativista culturale si tratta di inquadrarle in un sistema di pratiche e di valori condivisi e domandarsi quanto siano necessarie, sensate.

    Ora, l’agire politico non si interessa alle condizioni della verità: offre soluzioni, offre verità per ottenere consenso. Se i desideri e le paure delle persone si possono stimolare (ad esempio seminando il panico delle intercettazioni o della magistratura che non funziona), allora sarà più facile creare un consenso attorno a un desiderio o a una paura privata. Per parlar chiaro, se un leader politico ha paura delle cavallette, se è dotato di strumenti che possano convincere i suoi elettori a provare la stessa paura che prova lui per le cavallette, gli sarà più facile ottenere consenso una volta che vorrà procedere alla loro eliminazione. Ciò significa che sì, c’è una coincidenza, come dici tu, Giulio, tra interesse privato e interesse pubblico: ma è una coincidenza straordinaria, che si verifica solo in un Paese che permette che un uomo possa avere a disposizione strumenti di manipolazione del consenso.

    I poveri relativisti culturali qui però non c’entran niente… Il piano filosofico e quello politico qui io non li mescolerei, non in questo modo… I relativisti culturali non sono una banda poco raccomandabile di sofisti e demagoghi… Per piacere, no. Con questo, sia chiaro, non mi riferisco alle parole tue, Giulio. Insomma per spiegarmi proprio bene bene: la verità all’epoca di Silvio Berlusconi non è un esito del relativismo culturale e dei suoi esponenti: Silvio Berlusconi non è un esito del relativismo culturale, e sostenere questo o anche solo suggerirlo per sbaglio andrebbe evitato. Berlusconi è solo un’anomalia politica.

  9. giorgio fontana Says:

    marco, ma nel mio pezzo non ho mai sostenuto che la verità all’epoca di silvio berlusconi sia un esito del relativismo culturale. e non mi pare nemmeno di averlo suggerito per sbaglio. anzi, mi sembra una tesi folle.
    mi dici dove a tuo avviso si coglie questa cosa?

    concordo però sul fatto di essere stato sbrigativo nel dire che vattimo “compie un tipico errore del relativismo”. non era mia intenzione “sconfessare un intero movimento”, ma è comprensibile che si evinca così. in ogni caso sì, con il relativismo culturale per me bisogna andarci pianino. ma il discorso è interminabile.

  10. federica sgaggio Says:

    Essendo però la verità assoluta indimostrabile, in effetti, non ci restano che verità relative.

  11. vbinaghi Says:

    Attenzione: indimostrabili secondo i criteri empiristico-pragmatici, dove dimostrare significa verificare sperimentalmente. Ma il sapere tende ad affermare l’universale: relativa e circostanziale è la prassi, che però senza una pretesa unbiversale al sapere risulta priva di orizzonti. E’ questo il carattere pernicioso del relativismo culturale.

  12. giorgio fontana Says:

    fra l’altro, vattimo sul suo blog fa un breve (breve breve) commento alla questione:

    http://giannivattimo.blogspot.com/2010/08/botta-e-risposta-su-verita-relativismo.html

  13. Marco Candida Says:

    Giorgio, se in un constesto dove stai descrivendo uno dei più grandi mentitori della storia della repubblica (secondo la tua ricostruzione che si appoggia sui libri di Gomez e Travaglio) citi un libro che si intitola Addio alla verità, e assumi toni di rimprovero evidenti (non sei solo “sbrigativo”) nei confronti del relativismo culturale, è possibile ricavare dal testo l’impressione che Berlusconi e il relativismo culturale stiano un po’ sullo stesso piano.

    Detto nel modo più semplice, in un clima dove non è valida più nessuna verità, dove c’è lo spregio della verità (e “Addio alla verità” sembra un esempio di questo spregio), ecco che arriva chi mente spudoratamente o meglio ancora, come dice Giulio, non “mente”, ma dice “verità private”. Tanto non è mentire, no? Tutto è relativo, e quello che tu consideri menzogna, invece per me è verità. Guarda, lo dicono pure i relativisti culturali: stavo giusto leggendo questo libro intitolato “Addio alla verità”!

    Be’, il relativismo culturale non c’entra con tutto questo. Anzi, se si comprendesse il suo valore vero, sarebbe un buon rimedio e non “un rimedio peggiore del male” dove non esiste “alcuna verità codivisibile, come se lo stesso concetto uccida qualunque forma di dialogo o scetticismo”.

    Più o meno, ma il discorso sarebbe lungo.

  14. giorgio fontana Says:

    cerco di precisare la precisazione: ero “sbrigativo” nell’accomunare vattimo al relativismo tout court, senza ulteriori specificazioni (e di relativismi ce ne sono tanti). il mio rimprovero è verso le tesi da lui elencate nel libro, che secondo me non sono una buona soluzione al problema-verità: gettare a mare il concetto non aiuta.

    in ogni caso, insisto, non era mia intenzione (e non l’ho espresso, ma mi spiace si possa ricavare un’impressione del genere) accomunare relativismo culturale e berlusconi o (peggio ancora) stabilire un rapporto causa-effetto fra le due cose.

  15. vibrisse Says:

    Ma: chi pretende di spacciare per universale una verità che è solo privata, avversa ovviamente il “relativismo culturale” o qualunque cosa gli somigli. gm

  16. vbinaghi Says:

    L’unica verotà di cui Berlusconi si fa ossessivamente portatore è quella del consenso popolare: abbiamo i voti, quindi siamo veri e migliori. Diciamo che si tratta di un pragmatismo taroccato, ma sempre figlio della massima pragmatica: è vero ciò che funziona e finchè funziona. Il relativismo culturale afferma che ogni visione del mondo ha la sua ragion d’essere nel suo contesto funzionale, e non esistono criteri di giudizio superiori a questo. E’ veramente così diverso?
    Certo Vattimo è più intelligente, più fine, ma è anche il principale teorico italiano del pensiero debole. Si tratta di derive parallele, non divergenti.
    Con gente come Vattimo si può parlare di post-marxismo o post-modernità, non certo ricostruire una pretesa collettiva ad un disegno politico positivo.

  17. Marco Candida Says:

    Giulio, Giorgio, dico solo ancora questo e poi basta. Credo che la realtà italiana dimostri di essere sempre e in ogni circostanza una grandissima babele. Anzi: una Babele 56.
    ciao! complimenti

  18. federica sgaggio Says:

    Christian, ma secondo te come posso fare a dimostrare che faccio più ridere io?

  19. Marco Says:

    Federica, non farebbe ridere nemmeno con in mano uno scopino e un vestito da nuora.

  20. caliceti giuseppe Says:

    A me del discorso qui, e anche dell’articolo di Christian, è soprattutto quando parla della sua “strategia linguistica antiberlusconiana” che “non si basa sullo sfottò, ma sullo svelamento del discorso seduttivo di berlusconi”. C. scrive:
    “O trovo un modo per mostrare che il berlusconismo non è seducente, o altrimenti il berlusconismo avrà sempre vinto. L’essere umano insegue i suoi desideri – non il senso di responsabilità, etc…” Non so se la parola seduzione è quella giusta – e non oso avventurarmi a parlare di verità più o meno relative – ma ho la sensazione che, in un modo o nell’altro, sia Giulio che Christian stiano parlando, a loro modo, della necessità di riparlare e praticare un’ideologia. E credo che questo sia un bene.

  21. umberto Says:

    A me ha impressionato, per una sorta di anti-teologia implicita, questo passaggio:
    “Chi voglia opporsi al gruppo di potere che sembra attualmente dominare l’Italia dovrebbe, credo, riflettere sulle proprie operazioni di privatizzazione della verità; e dismetterle. Questa, faccio notare, è un’operazione nonviolenta, ossia pubblica, ossia compiuta privilegiando l’interesse di tutti sull’interesse privato; ed è necessaria premessa a successive azioni positive”.
    Dismettere operazioni di privatizzazione della verità (lasciare sgombro lo “spazio” della verità, disoccupare lo spazio del dio). Queste operazioni sono violente. Agire nel nome della verità è violento. Opporsi. Farlo in modo non violento. Dismettendo. Cioè facendo un passo indietro. Questa dismissione è pubblica perché rinuncia alla verità. Vi rinuncia come appropriazione: come se essa fosse ciò che è, credo, nell’Islam integralista. Vi rinuncia come proprietà, o titolarità: come da Lutero in qua, dalle nostre parti, essa è concepita – soggettiva (particolare). E’ non violenta perché alla verità sostituisce eventualmente l’interesse, è pubblica nella misura in cui l’interesse non sia perseguito attraverso l’uso della nuda forza (violenza), è non violenta “ossia” pubblica nella misura in cui non facendo prevalere un interesse attraverso la violenza tale dismissione è intesa alla composizione di due o più interessi (Inter-Essi, dove a far problema è l’alterità di questi essi che deve essere tenuta ferma, altrimenti niente “politica estera”, ossia, mi par di capire, politica tout court).
    Un Giulio politicamente non-comunitario?!
    (scusate, se potete, il delirietto)

  22. federica sgaggio Says:

    L’ideologia è necessaria, in effetti. Non si può fare a meno di un’idea di mondo.

  23. Larry Massino Says:

    Il problema è sempre lo stesso nella modernità (che tra parentesi sarebbe finita da un pezzo): c’è una parte più avveduta della popolazione che vuole insegnare alla maggioranza gretta come si vive. Ma la maggioranza gretta non gliene può fregare di meno di pedagogia, legalità, cultura, solidarietà, si interessa di famiglia, di famiglia, di famiglia, nelle sue varie declinazione, dal gruppetto di amici alla cosca mafiosa. Il presidente alto, infatti, promette agli italiani le tre uniche cose che ad essi interessano: pane, fica e lavoro. Poi una la tiene per sé, indovinate quale. Ma, sondaggi alla mano, fa dire a tutti i telegiornali che due terzi del programma sono stati realizzati. Ahimé, gli italiani, dai politici vogliono solo protezione e aiuti per la propria famiglia, facendo pressione sui singoli in modo indecoroso, visto coi miei occhi per anni, anche sul più inutile dei consiglieri circoscrizionali (questo fu il motivo per cui furono tolte le preferenze, che a quei tempi avvantaggiavano i partiti più clientelari, specie il quasi delinquenziale PSI). L’unico modo per migliorare un po’ le cose sarebbe separare con la forza politici e cittadini. Quest’ultimi, però, troverebbero sempre il modo di avvicinarli per via indiretta, attraverso il clero, per esempio. Io penso che non c’è nulla da fare, gli italiani hanno votato B perché gli piace, perché non li fa vergognare quando, praticamente tutti i giorni, debbono andare a chiedere un favore a un politico (primo sport nazionale, altro che calcio!). Adesso lo voteranno di meno perché i clienti odiano di essere troppo sotto gli occhi di tutti: clienti sì, corrotti e corruttori, ma hanno il capriccio di voler camminare a testa alta… Fatto fuori B, però, gli italiani andranno incontro a gente con gli stessi valori, appena appena più presentabile. Per fortuna i partiti europeisti (di cui il PD fa parte) hanno capito l’andazzo e se ne fregano degli elettori: la commissione se la eleggono da soli, come il capo della BCE e chissà cos’altro. La democrazia è in scadenza, cari figliuoli, quello che ne rimarrà è la sua versione oligarchica, contrapposta a quella becera e populista, ba B e B, a Di Pietro, al comico in declino Beppe Grillo. Vi do un consiglio aggratisse: se volete contare qualcosa iscrivetevi alle logge massoniche, purché abbiate abbastanza senso umoristico, e se vi pigliano (di solito la gente colta la pigliano). Del resto ci troverete tanti dei migliori esperti di qualsiasi disciplina, e ne rimarrete piacevolmente sorpresi. Altrimenti rassegnatevi a non contare un beneamato. Io ho fatto così, non è poi così male. Per concludere, credo sia meglio limitarsi a produrre o consumare bellezza, ché anche lei è una gran cosa, lasciando perdere la politica, la quale pure sta inguaiata per conto suo… E santissimiddio qualche volta ridiamo, con qualunque pretesto, pure di noi stessi.

  24. umberto Says:

    Ah, quanto vero, quanto vero. Il problema della Ragione, specie in tempi tanto estetici, è che somiglia sempre a un tribunale. Somigliasse a una disco, sai che bene che si andrebbe.

  25. caracaterina Says:

    La famigghia, già. Ovvero il luogo dell’apoteosi della verità privata (parcellizzata, personalistica, egoistica)(ma anche nazionalistica, mi viene sempre in mente quando a scuola mi insegnavano, leggendo il manuale Gugliemino, che al “nido” di Pascoli corrispondevano poi le sue tirate nazionalistiche, compresa quella finale del discorso di Barga). Comunque, dal momento che la famigghia è pur sempre un luogo di verità, rendere pubblica, ovvero terza, estranea alla relazione o antinomica o fintamente fusionale io/tu, certe verità familiari non è indecente in sè. Il guaio è che se ne lascia tutta l’iniziativa alla destra che rende pubbliche queste verità particolari imponendole attraverso la macchina bellica delle tivvù e delle miriadi di rivistine di gossip che io non credevo fino all’altro ieri che ce ne fossero così tante, finchè non ho deciso di fermarmi a guardare ben benino, in edicola, tutto il macro (nel senso di spazio) settore dedicato. Ne ho pure sfogliata una, allora, in casa di mia suocera, l’altra sera. Vale la pena di studiarsele, davvero. Ma se ne può parlare un’altra volta. Però non mi taccio un aneddotino personale, a proposito di famigghia, suocera e discorso privato/pubblico: “Ma hai visto quello, che dice che non sapeva della casa in affitto al cognato? Tsè!” “Beh, veramente … anch’io non so niente degli affari e delle case di mio cognato suo figlio e di mia cognata sua figlia. Come faccio a sapere cosa fanno loro, con tutto quello che c’ho da fare io?” Mi sono goduta lo sguardo sconcertato della suocera, quel guizzo di dubbio sulla verità “pubblica” proclamata e così contrastante con l’evidenza di quella privata. “E lei? Sa forse qualcosa degli affari di case delle sue cognate?” E’ stato meno difficile di quanto pensassi.
    Questo su Fini.
    Sugli extracomunitari,invece, è molto più difficile. Non c’è verso di farle aprire gli occhi sulla contraddizione fra la sua simpatia per quelli che conosce lei e il suo astio razzista nei confronti di tutti gli altri. Sarà perchè quelli che conosce lei le servono e lA servono, mentre tutti gli altri le sono inutili e, perciò, siccome sono inutili nel privato, sono solo dei mangiapane a ufo nel pubblico.

  26. andrea barbieri Says:

    Il “relativismo culturale” era una teoria di cento anni fa che si contrapponeva all’etnocentrismo. La frase che ha scritto Mozzi:

    “La prima “virtù della verità” consiste nel riconoscimento della non universalità, o della limitatezza, delle verità disponibili; e quindi nell’attenzione costante a stabilire e dichiarare quando e dove una certa verità sussiste.”

    ha un respiro più grande di quello legato all’antropologia. Potrebbe averla scritta per esempio Popper.

    Quella frase, insieme all’altra in cui Mozzi sostiene che la verità è un ‘fare’, non dicono che la verità universale non esiste, dicono piuttosto che la conoscenza è un cammino fatto di errori e di critica. Questa è una posizione che può avere – e secondo me dovrebbe avere – anche un credente.

    Volevo solo aggiungere una cosa a ciò che ha scritto Mozzi. Quando si parla della verità viene da pensare a qualcosa fuori di noi. Ma il cammino dell’errore e della critica valgono anche verso ciò che noi diciamo a noi stessi. Non sono immuni da falsità le cose che maturano dentro di noi, solo per il fatto che sono maturate dentro di noi. Questo non significa consegnarsi a una religione che avrebbe il potere di assolverci. Significa responsabilizzarsi a rivolgere la critica anche verso noi stessi, verso il soggetto. Che forse sarebbe il grande salto di qualità nell'”etica della verità”.

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