Ogni tanto succede che Elizabeth mi dica: «Ma tu di me conosci di mia nazione piu’ cose!». Elizabeth mi dice questo con il suo dolcissimo italiano sgrammaticato da straniera quando io dimostro di conoscere letterati o musicisti o canti o dettagli del suo Paese proprio come se appartenessero anche al mio – e noto pero’ come pur nel suo sgrammaticare Elizabeth scelga quasi sempre la parola «nazione». Da quando sono qui negli Stati Uniti d’America – ossia da cinque mesi che si sommano ai cinque mesi e mezzo dei soggiorni precedenti – sempre piu’ spesso mi domando che cosa mi sia realmente successo nella testa ogni volta che in passato mi sono dedicato alla lettura di libri americani. Per la verita’ so esattamente che cosa e’ successo: conservo la memoria di intense giornate di lettura quasi meglio di altre esperienze assai piu’ movimentate, a volte piu’ drammatiche, altre piu’ avventurose: e insomma semplicemente e’ successo di essermi in gran parte immaginato quel che stavo leggendo come lo vedessi scorrere sullo schermo di un cinema.
27 aprile 2010 alle 13:33
grazie giulio
29 aprile 2010 alle 08:51
Ciao Marco, ciao Giulio,
io sono rientrato in Italia dopo quasi 5 anni di vita all’estero, non in USA ma tra Australia e Nuova Zelanda. Il risultato di questo lungo soggiorno e’ stato essere esposto alla produzione in lingua inglese (dagli States all’Inghilterra, dall’Australia alla Nuova Zelanda, appunto, fino al Sud Africa etc) in una maniera differente da quanto avveniva in precedenza. Guardavo David Letterman e altri show americani, ma anche show della bbc e serie televisive varie. Ho trovato che la dialettica che si instaura all’interno del “mondo in lingua inglese” e assai piu’ vivace di quanto avviene in Italia.Ne deriva anche una maggiore creativita’, un piu’ spiccato senso della sperimentazione e una piu’ forte certezza nella propria identita’.
Esempio.
Mi capitava di vedere House, e al telefono con mia madre scoprivo che anche lei lo seguiva. Stessa cosa dicasi per CSI, Desperate housewives, NCIS, Heroes, Lost, eccetera eccetera…. Ho cosi’ realizzato (cosa che avrei dovuto sapere gia’ da prima, ma che finche’ vivevo in Italia non avevo pienamente compreso) che moltissimi italiani seguono serie televisive che con l’Italia, la cultura, la tradizione, l’identita’ italiane non hanno nulla a che vedere. Cose che sono divenute parte del nostro immaginario senza essere state tratte dalla nostra vita quotidiana. Parlando con un amico sceneggiatore, poi, ho scoperto che la maggior parte di queste serie in Italia non sono fatte 1 per mancanza di soldi, 2 per assenza di coraggio (cosa ben piu’ importante). Infatti, verita’ risaputa, una serie come House o Lost non sarebbe mai accettata da nessun produttore nostrano, perche’ troppo fuori dagli schemi. (incredibile a dirsi, visti gli ascolti).
Concludo il mio ragionamento.
Di ritorno in Italia trovo una nazione priva di una identita’, in cui nessuno sa piu’ in cosa riconoscersi. Il panorama politico e il crollo delle ideologie sono semplici cartine di tornasole di un processo di “spersonalizzazione” cominciato anni fa, (Pasolini, esatto….).
Mia madre, insomma, senza realizzarlo (infatti tutti i protagonisti delle serie televisive sopra citate parlano un italiano perfetto), si nutre di qualcosa che non le appartiene, e di cui non fa parte. Vede un mondo in cui non vive ma si convince di esserne parte. Tante’ che non si accorge nemmeno, (non nel senso piu’ ampio del termine) che la nostra colazione e’ cappuccino e pasta e non bacon and eggs o pancakes. Accetta quello che vede senza filtri. Non si vede.
Mi e’ venuto in mente un esperimento, che qui propongo a mo’ di sondaggio on-line:
e se da domani tutte le serie televisive in lingua inglese smettessero di essere doppiate? Se si passasse d’un tratto ai sottotitoli. Se d’un tratto decine di casalinghe italiane scoprissero che le storie che ci vengono raccontate in televisione non ci parlano piu’ di noi, se ci trovassimo d’improvviso di fronte a ore e ore di programmazione in una lingua che non comprendiamo, canale dopo canale, ventiquattrore su ventiquattro, realizzeremmo finalmente la nostra mancanza di investimento nel nostro futuro? Ci accorgeremmo finalmente di quanto poco scriviamo o guardiamo o leggiamo storie che realmente ci appartengono?
Matteo
29 aprile 2010 alle 13:07
Matteo, adesso spero solo che non si dica: si doppiano i film e si importano dall’america perche’ non abbiamo i soldi, e’ molto piu’ economico… Cioe’ che non ci si metta a fare i famosi “discorsi realistici”. “Realistici”, infatti, per chi? No, perche’ a forza di questi “discorsi realistici”, come tu hai avuto modo di comprendere, noi la stiamo distruggendo la nostra realta’.
Le case editrici italiane pubblicano libri stranieri (che dal punto di vista economico sono quelli che contribuiscono in modo determinante a fare andare avanti la baracca) e si distribuiscono film stranieri: e tutto questo per molto realisticamente fare soldi. Se devo dirla tutta, io non ci vedo, pero’, un grande affare, ormai: nel senso che non mi sembra piu’ conveniente per tutti. Forse e’ conveniente per i soggetti che ci lucrano, ma gli altri vengono modificati, influenzati, e si distrugge una cultura, e si distruggono, anche, se ci pensi bene, le vita delle persone. Perche’ se tu a un bambino a un ragazzino fai vedere un mondo che non e’ quello reale (ma che appartiene a un altra realta’) lui nutrira’ delle illusioni che gli complicheranno solo la vita.
Guarda me, che da piccino leggevo gli scrittori americani e mi ero convinto che essere scrittore significava quella roba li’ fichissima: ma provaci un po’ a fare lo “scrittore americano” in Italia. In Italia non ci sono nemmeno le riviste dove pubblicare. Per dire, se ti metti a fare il Bukowski, ossia lo spiantato totale, non puoi nemmeno salvarti in corner pubblicando ogni tanto qualche racconto o poesia in qualche rivista (che ti paga! in america ti pagano se scrivi!). Se ti metti a parlare di scrittura creativa, se non pensano che e’ uno shampoo, qui in italia cominciano a deriderti e a sbertucciarti, mentre in america hanno palazzi su palazzi dove si insegna scrittura creativa. Persone pagate per insegnare scrittura creativa. L’insegnante di scrittura creativa in america va a ristorante e mangia, si compra la macchina, paga il mutuo della casa, e alle feste si mette in un angolo e ride e scherza con i colleghi degli altri dipartimenti, sorseggia drink, l’insegnante di scrittura creativa, si diverte, ha una vita. Queste cose le fa tutti i giorni, non in un fantomatico periodo di vacche grasse, tutti i giorni! No, ecco, giusto per visualizzare di che cosa stiamo parlando… Questo significa insegnare scrittura creativa negli Stati Uniti. Come piu’ o meno fare il geometra, l’ingegnere o l’avvocato da noi. Che un erudito europeo con le pezze nel sedere glielo vada a dire a un insegnante di scrittura creativa (con pubblicazioni di ogni tipo alle spalle) che quello che insegna non esiste, che non si puo’ insegnare, che non si puo’ trasmettere… Quello ti ride in faccia non una, ma diciotto volte. Sono questi, ecco, i discorsi realistici: i discorsi realistici sono quelli che fabbricano la realta’, non quelli che la fanno a pezzi a beneficio solo di quattro gatti arricchiti che poi se vogliono avere un cane d’amico se lo devono mantenere pagandogli la cena a ristorante e il biglietto al cinema. Vabbo’.
29 aprile 2010 alle 16:02
Purtroppo pero’ in parte e’ vero. Importare un film costa meno che farlo. Punto primo.
Punto secondo (e mi sembra che concordiamo anche su questo) a forza di vederci raccontare la realta’ d’altri abbiamo perso la capacita’ di raccontare la nostra. E di riconoscerla. – Come anche dici tu quando parli degli scrittori americani che leggevi. –
Tu leggevi (e sei uno dei pochi, pochissimi in Italia). Pensa ai milioni che guardano i film o le serie in televisione.
Non sono qui a dire che film o serie televisive sono il demonio, ne’ voglio lanciarmi in un’ennesima (quanto stupida) crociata contro le produzioni estere o la colonizzazione culturale americana. Per me la cultura si nutre di curiosita’, e prima di appartenere ai popoli appartiene ai singoli. Guardare “Lost”, leggere la letteratura d’oltreoceano va bene, va benissimo. Diviene un problema quando il destinatario non realizza la fonte di provenienza (e in televisione avviene spesso).
Da questo, la mia folle proposta di trasmettere tutte le produzioni televisive e cinematografiche nella loro lingua di provenienza. (come fanno ovunque nel mondo, tra l’altro, ad eccezione dei paesi latini e del terzomondo – il doppiaggio nasce da necessita’ legate all’analfabetismo come ben sappiamo….) Forse in questa maniera ci sveglieremmo. Forse sarebbe una buona maniera per far scoprire a mia madre (o a chi per lei) quanto poco stiamo investendo in noi.
29 aprile 2010 alle 17:50
Prima di tutto, Matteo, non mi pare una questione di madri ma di figli e figlie. Siamo noi figli che ci siamo fatti intortare, che produciamo una letteratura sempre piu’ americanizzata, che siamo sempre piu’ americanizzati: e forse sarebbe ora 1) di conoscerla per davvero questa america; 2) di imparare la lingua americana per davvero.
Poi quando scrivi che la cultura si nutre di curiosita’, si’, sono d’accordo, tenendo presente che quel maledetto apparecchio chiamato televisione che teniamo in casa sa come attirarla la nostra curiosita’: e’ uno stillicidio quotidiano davanti al quale chiunque, probabilmente, cederebbe. Ora, la soluzione non e’ prendere a martellate la televisione gridando” “Cattiva maestra! Cattiva maestra!” oppure levare di colpo tutto il doppiaggio (su alcuni canali a pagamento si possono vedere i film in lingua originale). La soluzione, invece, potrebbe essere cominciare a fare discorsi realistici che, accidenti, tengano conto della realta’ e non soltanto del profitto. Discorsi che gia’ si fanno, per carita’. Io infatti qui mi diverto a usare la parola “stillicidio”, a citare popper, a far friggere un po’ l’aria. So che questa roba la ‘sappiamo’. Ma la sappiamo a parole, a chiacchiere, sulla carta. Ma sai quanti sento parlare d’america e non ci hanno mai nemmeno messo il becco? Ma non ti sembra ridicolo, inaccettabile? Guarda ma ti arrivo a dire questo: la letteratura che facciamo qui in italia e’ totalmente finta. Gia’ la lingua italiana e’ stata costruita a laboratorio e nessuno la parla. In piu’ ci ispiriamo a persone, personaggi, storie, che stanno in tutt’altro mondo. Un mondo dove un insegnante di scrittura creativa guadagna come primo stipendio 45 mila dollari all’anno. Dove ci sono mille riviste di letteratura che pubblicano racconti e ti pagano. No, ma poi questi, che parlano d’america, che mettono nomi americani ai loro personaggi, che americanizzano la prosa, stanno ancora li’ a dire parole altisonanti (“altisonanti” fa il paio con “stillicidio”) come “La letteratura parla della verita”’. “Io faccio letteratura, percio’ mi occupo della verita’”. Ma come si fanno a dire cose come queste? E magari ne sono convinti, anche – sono onestamente convinti della loro disonesta’. Altroche’, la letteratura italiana e’ per la maggior parte fiction allo stato puro: anzi e’ sempre fiction. Sempre. E non puo’ alzarsi uno e dire “No, ma veramente io mi ispiro ai russi…”. Vale lo stesso discorso. Cioe’ il discorso e’ che usiamo categorie e rappresentazioni per raccontare le nostre storie che vengono da tutt’altri posti e culture e abbiamo una lingua che non esiste… Anche chi vuole cercare una lingua pura… si’, ma e’ comunque un lavoro su una lingua artificiale creata da dante, creata da quattro gatti… D’altra parte scrivere in dialetto tortonese non mi sembra nemmeno la vera soluzione. Dobbiamo renderci conto che facciamo la letteratura piu’ fiction del pianeta, e che quindi siamo scrittori di romanzetti sempre, e tutti, e che tutti i tentativi che facciamo di avvicinarci alla realta’, sono pretese inutili, sciocche e disoneste. Se diventiamo consapevoli di questo, appunto, forse possiamo smetterla di fare disorsi sciocchi e disonesti sulla letteratura e sulle sue possibilita’ (di cogliere il reale, di parlare del vero, di penetrare le essenze) e cercare delle soluzioni. Trovata la radice del problema (“radice del problema” va con “stillicidio”, “popper” e “altisonanti”) forse si puo’ agire.
29 aprile 2010 alle 20:14
Mah, Marco, che dire… Come gia’ scritto non sono qui a dire che la TV e’ il demonio, ne’ che a sottotitolare i film si cambia una nazione. Ma un’attitudine, quello si’. L’attitudine a percepire un prodotto o una storia, quella si’ che cambierebbe. Eccome. La mia sul doppiaggio e’ ovviamente una provocazione, dotata di cognizione di causa, ad ogni modo. Tu parli di romanzi in un mondo dove la cultura e’ fatta dalla televisione prima, e dai libri poi.
Sono partito dai film (cioe’ dal presente) perche’ partire da Dante a mio parere complicava invece di chiarire. D’altra parte era Madame de Staël nel 1816 a sollevare questioni sul panorama della produzione letteraria italiana e sulla sua incapacita’ di parlare del proprio presente….
Oggi, letterariamente parlando, mi sembra che le cose siano cambiate, pero’. Basta pensare alla capacita’ che un libro come “Altai” ha di parlarci di noi (NOI, OGGI) pur riferendosi a fatti di secoli fa. E non solo.
Il mio discorso si riferiva alla “cultura popolare” cosiddetta, che, almeno in Italia, non esce dai libri ma dai Media, purtroppo, e nello specifico dal Media Televisivo.
Sulla tua visione della letteratura italiana (“facciamo la letteratura piu’ fiction del pianeta”) quindi non riesco a concordare (pur riconoscendo che la letteratura americana e’ ovviamente piu’ ampia e variegata.)
Concordo pero’ sul fatto che avvicinarsi alla realta’ e’ difficile quando non la si produce piu’ neppure sui mezzi di comunicazione di massa. I libri, almeno loro, a dare un’immagine del mondo piu’ vicina al nostro quotidiano ancora ci provano.
Che poi gli insegnanti di scrittura creativa oltreoceano guadagnino bene e i nostri debbano fare l’elemosina, capisco la tua rabbia. Ma siamo da capo e coda col ragionamento. Molti scrittori d’oltreoceano scrivono libri come creano fiction (anche televisive) e film. Spesso insegnano nelle Universita’. Te lo immagini se vivessero in una nazione dove la maggior parte dei libri pubblicati e delle produzioni televisive/cinematografiche provenissero da un altro paese? Cosa farebbero in quel caso?
Finirebbero anche loro a raccontare la storia d’altri… o andrebbero a vendere i gelati sotto casa ai turisti.
Mio nonno diceva: occorre arrangiarsi con quello che si ha.
“E guardare quello che passa anche oggi il Grande Importatore” aggiungo io.
Intanto ti consiglio di vedere cosa programma la tv stasera, in Italia e in America. Mia madre (e la maggior parte dei figli nella citta’ in cui vivo) non leggono i libri dopo cena. E di certo non guardano sul satellite film in una lingua che non conoscono, (anche se sottotitolata). Non sono stati abituati a farlo e lo trovano troppo faticoso. Meglio adagiarsi a vedere come l’FBI risolvera’ l’ennesimo caso a Miami o cosa s’inventera’ questa volta Doctor House. Che a guardare i film in lingua originale mica e’ semplice.
In quel caso si farebbe prima a leggere un romanzo.
Per il momento ti saluto. Devo tornare anch’io a vendere i gelati sotto casa…
29 aprile 2010 alle 23:52
Matteo, chiunque tu sia, il mondo di cui parlo e’ un posto dove esiste la cultura. La cultura non e’ fatta prima da questo e poi da quello: non e’ come uno sport, la cultura, e non ci sono graduatorie reali. Che televisione e libri debbano per forza confliggere in eterno non e’ sancito da nessuna parte. Si puo’ pensare di costruire un ponte tra i due “media” e che i due media concorrano insieme a formare la cultura del nostro mondo. Il problema non e’, sai, salvare. Io non desidero salvare i libri. Ne’ desidero distruggere la televisione. Il problema che e’ che abbiamo una televisione che fa contenuti che contraddicono la cultura italiana di cui facciamo esperienza quotidianamente e che studiamo sui libri di scuola (dopotutto a scuola studiamo ancora la letteratura italiana e la storia italiana e la cultura italiana). La presenza della televisione (con le serie televisive che tu citi, e i film) disdice il lavoro delle scuole e crea una crisi d’indentita’ (magari esangerando un po’). Insomma abbiamo una televisione (generalizzando in modo un po’ impreciso e ingiusto) che non tiene conto del fatto che si rivolge a una cultura determinata (nella fattispecie quella italiana), e che non si preoccupa nemmeno di rispecchiarla. Rispecchiare e’ la parola da tenere presente. Lo specchio delle narrazioni (televisive, dei fumetti, di quello che ti pare) serve a imparare a conoscersi e a sviluppare una coscienza di cio’ che si e’ individualmente e collettivamente. Non solo questo passaggio manca, ma addirittura noi siamo costretti a confrontarci con uno specchio che restituisce un’immagine che non ci appartiene. Immagina: tu ti specchi, e vedi quasi te stesso, solo con vestiti diversi, con i capelli di colore diverso… E allora che cosa fai? Ti guardi, e ti dici: ma io sono diverso dall’immagine nello specchio. Solo che siccome vedi questa immagine tutti i giorni, o quasi, dopo un po’ ti convinci che e’ quella la tua immagine: e ti adegui all’immagine allo specchio. Ti compri gli stessi vestiti dell’immagine allo specchio. Ti tingi i capelli dello stesso colore della immagine allo specchio. Lo specchio (che e’ chiaramente un finto specchio) a poco a poco ti modifica. Solo che questa modifica non avviene in tutti alla stessa velocita’ e insomma crea una gran confusione. Al punto che collettivamente non sappiamo piu’ chi siamo, che cominciamo a dirci che poiche’ non sappiamo piu’ chi siamo e in fondo non lo abbiamo mai saputo chi siamo non vale nemmeno la pena di provare a costruirla nemmeno un’identita’ collettiva. Piano piano queste storie che non ci appartengono ci stanno sfibrando e indebolendo, ci tolgono le forze di costruire l’identita’. Crei che negli Stati Uniti siano tutti uniti e compatti e sappiano chi sono? Sono bianchi, neri, gialli, pellerossa, cristiani, protestanti, mormoni… c’e’ un casino, a pensarci… Eppure il loro senso di identita’ (anzi il loro impegno costante a ridabire un senso d’identita’) e’ cosi’ forte che li porta persino ad accogliere le diversita’. Hanno un’identita’ cosi’ forte sotto la loro bandiera da non temere nemmeno la diversita’.
Altro che gelati, fermati un momento, e riflettici, perche’ gli americani hanno invece ancora molto da insegnarci, e noi dovremmo cominciare ad imparare da loro per davvero, cosa che non abbiamo ancora cominciato a fare, se mi guardo intorno. Li imitiamo, forse, ma non impariamo.
Vabbo’.
30 aprile 2010 alle 10:01
Marco, ti ringrazio della risposta, e di questo scambio di opinioni che, a ben vedere, ci hanno aiutato entrambi a spiegare e spiegarci.
Concordo con te. Non voglio fare una gerarchia della provenienza della cultura. Ovvio che tutto contribuisce a creare una cultura e, conseguentemente, un’identita’. A mio parere in un Paese come l’Italia dove nessuno legge (l’ultimo sondaggio del Manifesto ci mette come al solito in fondo all’Europa) pare che sia un mezzo come quello televisivo a fare gran parte del lavoro, insieme al bar e alle pizzerie.
Io ho insegnato italiano all’estero per la Dante Alighieri, ho lavorato come editor in piccole case editrici, ho pubblicato qualcosina (robe giovanili per lo piu’, di poco valore) e, appunto, venduto gelati, lavorato nei bar, dato ripetizioni…. insomma, come tanti, ho fatto e sto facendo del mio meglio per sopravvivere. Tra le altre cose, e a titolo totalmente volontario, leggo manoscritti di sconosciuti, che vengono spediti con molte speranze di futuri riscontri.
Leggendo queste storie mi rendo conto che anche la realta’ italiana e’ varia ed eterogenea (ma non multietnica e variopinta come quella americana, concordo di nuovo con te), quello che ci manca e’ la capacita’ di raccontarla dando voce a tutte le sue istanze e sfaccettature.
Sembra che tutti abbiano imparato una sola maniera di raccontare sempre la stessa storia. Non facciamo altro che ripeterla.
Tu hai parlato della letteratura americana di cui ti sei nutrito da ragazzino (ho fatto lo stesso, so cosa intendi dire), io ho parlato della televisione e dei film perche’ l’impressione che ho e’ che la maggior parte delle persone che scrivono (o provano a scrivere) in Italia non leggono libri. Guardano la Tv.
La mia provocazione sui sottotitoli e’ nata dalle riflessioni che il tuo post “L’idea di una Nazione” mi hanno suscitato, insieme con lo stupore di rilevare quante persone, qui, (sono tornato in Italia solo da poche settimane) si nutrono di storie, film e fiction che non appartengono al loro mondo, senza pero’ realizzarlo.
Certo, dall’ America abbiamo molto da imparare. Neppure abbiamo cominciato, dici giusto. Mi domando se una delle ragioni vanno ricercate nel fatto che, fin dall’inizio, abbiamo assunto un atteggiamento passivo nei confronti di quello che ci arrivava.
Ho amici tedeschi, olandesi, danesi, e ti posso assicurare che hanno mantenuto un rapporto di dialettica maggiore nei confronti della “cultura inglese” mantenendo viva la differenza linguistica. (In piu’ hanno imparato la lingua, cosa che in Italia ancora non facciamo e che, converrai con me, e’ il primo mezzo, indispensabile, per dialogare e imparare da una cultura differente).
Questo e’ quanto. Non credo che smettere di doppiare la televisione risolvera’ il problema, come gia’ detto. Resto convinto che cambierebbe l’approccio alle e la fruizione delle storie, pero’. Pensa che la prima volta che ho fatto vedere ad alcuni amici del bar De Niro e Al Pacino recitare un film in lingua originale, tutti i presenti sono rimasti inorriditi. Hanno realizzato, forse per la prima volta, che quei due non erano italiani, e che quello che stavano mangiando erano dei pancake (che la maggior parte degli italiani neppure sanno cosa sono). Ne e’ nata una discussione su abitudini alimentari e stili di vita, in alcuni e’ sorta anche la curiosita’ di vedere qualche altro film in lingua originale (con sottotitoli),
Ecco, e’ una semplificazione, un esempio stupido se vuoi, ma sono convinto che se il film fosse stato trasmesso come suo solito, con quelle voci in mezzo romano che ci fanno apparire i personaggi, “nostri”, anche quando non lo sono, tutta quella curiosita’, quella dialettica, quell’interesse non sarebbe mai nato. Avremmo visto il film e saremmo ritornati a parlare della partita.
Ovviamente avrei anche potuto cercare di convincerli a leggere un libro, ma e’ difficile creare un’attitudine che per secoli non e’ esistita.
Magari, in un domani senza doppiaggio, avere cosi’ tanti film e serie televisive in lingua inglese spingerebbe alcuni a studiarlo l’inglese, altri a desiderare maggiori produzioni in italiano. Magari tutti realizzerebbero quanto poco stiamo investendo e producendo in quel settore. Magari si incazzerebbero un po’ anche loro a leggere che l’ennesima manovra di governo ha tagliato gli ennesimi fondi alla Cultura e allo Spettacolo. Che so…….
Sono tutte generalizzazioni, vero, verissimo, ma alle volte anche dalle generalizzazioni possono nascere spunti di verita’.
Io la mia lezione l’ho imparata. Credo. Mi spiace per quelli che, come dici tu, continuano a guardarsi allo specchio e hanno smesso di riconoscersi. (Metafora perfetta, tra l’altro).
L’ America dalla sua crisi d’identita’ sembra essere riuscita. L’Italia ci si rigira dagli anni 70…….
30 aprile 2010 alle 10:58
Ovviamente quando ho scritto “L’idea di una Nazione” intendevo “Un’idea di Nazione”. I apologize.
1 Maggio 2010 alle 10:55
ciao mattiu, grazie di avermi segnalato qst discussione.
io come sai sono una tagliatrice con l’accetta, epperciò dal mio punto di vista la questione si semplifica molto: la nostra cultura (italiana, ma a ben guardare anche europea) ha, semplicemente, perso. una guerra, e tutto il resto.
non esprime un potere di nessun tipo: economico, militare, politico, energetico, tecnologico.
e non può esprimerlo: per tante ragioni strutturali, sulle quali non ci sto neanche a piangere sopra, tanto mi appaiono storicamente inevitabili.
L’impero centrale, come si fa da che mondo è mondo, ci trapana più o meno apertamente e più o meno benevolmente con la sua propaganda (che è cultura a pieno titolo, io credo) e noi cosa abbiamo da ribattere?
in un quadro così, io sono molto favorevole a una presa di consapevolezza. Ad avere film senza doppiaggio, per esempio. all’apprendimento della lingua dell’impero. allo studio dei meccanismi della sua propaganda.
capisco meno bene in che modo si potrebbe raccontare (non solo in termini di narrativa) la nostra identità: la nostra identità è sull’orlo di scomparire, io penso. chi gliene frega niente di una cultura in via di estinzione? poco, a chi se la vede estinguere davanti agli occhi giorno per giorno. figurati ai nuovi cittadini globali del mondo globale.
al massimo, potrai avere dei monasteri dove tenerti da parte i tuoi codici miniati, casomai, passati quei due o tre secoli, per qualche ragione tornino a servire a qualche cosa (perchè sulla lunga distanza, certo, non si può mai dire).
…lo so che tu non sarai d’accordo 🙂
PS: infatti mi è piaciuta molto la foto, la trovo davvero azzeccata. sottolineo che che, oltre all’hamburger, mi sembra ci siano anche delle strisce di bacon.
1 Maggio 2010 alle 10:56
altro PS: peraltro, se non ci spicciamo ad apprendere la lingua dell’impero, c’è rischio che tra poco non serva più manco quella, e ci si debba rimettere svelti svelti a studiare il cinese.
lì sì che sono cavoli, il cinese è difficile davvero, neh.
1 Maggio 2010 alle 16:57
Matteo, specifico che io “non provo rabbia” se negli States c’e’ la scrittura creativa e qui da noi no. Questa e’ un’inferenza tua. A me sembra utile mostrare che qui la scrittura creativa c’e’ e che c’e’ chi ci campa davvero (con stipendi reali e un lavoro reale: non e’ fiction) e che quindi non si vede perche’ ostinarsi a considerare la scrittura creativa come una disciplina che non si puo’ trasmettere e insegnare anche in Europa.
Marta, qui non c’e’ da studiare ne’ il cinese ne’ il francese. Sono i cinesi che devono studiare l’italiano se vengono a vivere in Italia. Non capisco perche’ dobbiamo essere noi a adeguarci a loro. Nella nostra cultura in estinzione, poi, ci sono ancora degli elementi oggettivamente positivi che possono contribuire a migliorare la vita di tutti. Questi “elementi” noi abbiamo il dovere di difenderli e magari anche di insegnarli, di tramandarli, di raccontarli.
1 Maggio 2010 alle 18:48
Marco, che ti devo dire, l’intento è nobile, i risultati si vedono, cioè non si vedono (da qui partiva il discorso di matteo, no? almeno se l’ho inteso bene).
poi, per quelli che vengono a vivere qui, il discorso è diverso, ovvio.
1 Maggio 2010 alle 20:08
Marta, spesso dove non ci sono i risultati non c’e’ nemmeno un vero intento. Ossia un intento consapevole, motivato, granitico e non di gesso.
1 Maggio 2010 alle 21:50
Caro Marco,
scusami, ma credo che tu non abbia afferrato il senso del mio intervento (ne’, tutto sommato, di quello di Marta).
Nessuno deve adeguarsi, ne’ ai cinesi ne’ agli americani, non so da cosa questa frase sia uscita fuori.
Sulla scrittura creativa, poi, in America e’ nata e c’e’ da piu’ di trenta/quaranta anni. Noi (anche quella) l’abbiamo importata. E neppure benissimo.
Sono sicuro che Giulio potra’ confermare questa affermazione, muovendosi nell’ambiente da molto piu’ che chiunque altro.
La scrittura creativa in America e nel mondo anglosassone si insegna fin dalle Universita’ (e alle volte addirittura dalle superiori). Chi come me ha studiato Lettere tutta una vita non ha mai visto nulla del genere. Non in Italia perlomeno. So di che colore era la pipi’ di Manzoni e so quante volte si genufletteva sull’altarino di casa, so addirittura alcune cose (pochissime, e tutte a titolo personale) sulle Lezioni Americane di Calvino, ma dopo cinque anni d’ Universita’ (Letteratura, sia chiaro, non Giurisprudenza) non so nulla sulle reali modalita’ di costruzione di una storia. E’ chiaro?
Perche’? Varie le ragioni, una fra tante (conseguenza piu’ che causa) e’ che se apri un corso di scrittura creativa all’Universita’ di Lettere di Firenze il giorno dopo di ritrovi una classe di 600 studenti che neppure sai dove metterli. E purtroppo neppure li trovi veramente interessati a quello che fai.
E’ tutto qui, a ben vedere, il problema.
Una mentalita’, un’attitudine, una predisposizione, una capacita’ di giudizio e d’apprendimento, e, in ultimo, DI SCELTA si creano a valle.
La valle e’ l’ humus di un paese. Nei discorsi, nelle aspettative, nel passato e, in ultimo, nella capacita’ di immaginarsi un futuro.
E poi nelle scelte di tutti i giorni ovviamente. Eccoci qui: sul divano di casa, dove alcuni vedono se stessi e altri no.
Confrontarsi con una lingua e’ cominciare a studiarla. Studiare una lingua e’ cominciare a conoscere una cultura. Avere a che fare con una cultura e’ riconoscerne il linguaggio.
E’ questa l’unica discriminante tra chi e’ colonizzato e chi no.
C-o-s-c-i-e-n-z-a di cio’ che ci sta di fronte. Stasera. Su Italia Uno o su Rai due.
E conseguentemente: operare una scelta.
Che a scalare le montagne senza attrezzi e senza direzioni si finisce per affidarsi solo alle guide.
In inglese, naturalmente.
E qui, in inglese, non posso che concludere.
Take care and good luck.
2 Maggio 2010 alle 00:09
Matteo, forse possiamo concludere che la scrittura creativa e’ un lusso che l’Italia non puo’ permettersi. Possiamo permetterci Lettere Moderne, Filosofia e Scienze delle Comunicazioni, ma non la Scrittura Creativa. Ma la Scrittura Creativa e’ anche un approccio diverso allo studio della Letteratura. Invece c’e’ una visione un po’ troppo isterica su questo argomento. Non e’ una scuola per diventare famosi. E’ solo un corso di studi – e se fatto alla maniera europea, arrichendola con cenni alla retorica antica, ad esempio, e quant’altro – puo’ non essere un corso di studi banale e tanto stupido. Guarda, piu’ ci penso e piu’ mi dico che e’ semplicemente molto strano l’atteggiamento che si adotta in Europa quando si affronta questo argomento.
4 Maggio 2010 alle 13:19
1.Marco Dice:
29 aprile 2010 alle 17:50
… e forse sarebbe ora 1) di conoscerla per davvero questa america; 2) di imparare la lingua americana per davvero.
Marco Dice:
1 maggio 2010 alle 16:57
Marta, qui non c’e’ da studiare ne’ il cinese ne’ il francese. Sono i cinesi che devono studiare l’italiano se vengono a vivere in Italia. Non capisco perche’ dobbiamo essere noi a adeguarci a loro. Nella nostra cultura in estinzione, poi, ci sono ancora degli elementi oggettivamente positivi che possono contribuire a migliorare la vita di tutti. Questi “elementi” noi abbiamo il dovere di difenderli e magari anche di insegnarli, di tramandarli, di raccontarli.
5 Maggio 2010 alle 08:26
Filippo, scusa, io non voglio difendermi ad oltranza. Le cose che ho scritto non le ho meditate al massimo (ad esempio quella cosa che noi facciamo fiction sempre… bah, e’ piu’ una battuta che altro). Pero’, mi chiedo, e ti chiedo, come fai a non capire che un conto e’ studiare una lingua che si parla gia’ da un piu’ di mezzo secolo nel mondo e noi siamo indietro rispetto ad altri paesi etc. e un conto e’ dire che poiche’ i cinesi stanno arrivando dobbiamo adeguarci a studiare la lingua? Ma quante lingue dobbiamo sudiare? Ma siamo per forza noi che dobbiamo studiare le lingue?
Un conto e’ dire “conosciamo l’america” di cui parliamo tanto e in realta’ la conosciamo per riverberi. Un conto e’ dire studiamo il cinese perche’ sara’ l’impero del futuro. Nel primo caso c’e’ solo voglia di conoscere chi siamo, perche’ la radice americana e’ assai presente nella nostra cultura e concorre a formare la nostra identita’ (conoscere per annullare conoscere per prevenire, quel che ti pare, ma prima di tutto conoscere). Un altro conto invece e’ studiare il cinese, da italiani che vivono in italia. Un conto che potrebbe essere assai salato.
5 Maggio 2010 alle 08:29
Filippo, spero di essere stato oscuro, cosi’ magari mi capisci.
5 Maggio 2010 alle 09:03
Momento, specifico bene: Ho scritto “Le cose che ho scritto non le ho meditate al massimo” e mi riferisco con queste parole alle cose che ho scritto nei commenti al pezzo.