[Questo articolo di Marco Mancassola è apparso nel mensile Vogue, aprile 2010].
Una è filosofa, è nata a Roma ma vive e lavora a Parigi. L’altra è psicanalista e vive a Londra sulla collina di Hampstead. Michela Marzano. Susie Orbach. I nomi di queste donne potrebbero esservi noti grazie a due rispettivi aneddoti. Della prima, la cosa che tutti citano ogni volta è il suo inserimento, da parte della rivista Le Nouvel Observateur, nella lista dei cinquanta pensatori più influenti di Francia. Era il 2008. Lei neppure quarantenne, la cosa suscitò un certo clamore. Anche Susie Orbach è ricordata puntualmente per un determinato fatto: il suo essere stata l’analista di Lady Diana Spencer. Niente meno. Era la metà degli anni Novanta, i tempi in cui la principessa soffriva di disturbi alimentari e bulimia, e appena i giornali scoprirono la faccenda la Orbach diventò la strizzacervelli più famosa della Gran Bretagna.
14 aprile 2010 alle 23:44
E’ una questione centrale rispetto alle molte altre che la vita corrente sembra porre all’uomo di oggi. Voglio dire che c’è tutta una serie di fenomeni, dai disturbi alimentari all’ossessione della chirurgia estetica, dalla sessualità prostituita all’esposizione mediatica fino alla “vetrinizzazione dell’esistenza” (l’espressione si deve a Vanni Codeluppi), che in realtà ruotano intorno a quella che secondo la Orbach, citata da Mancassola, “non corrisponde a una ricerca di felicità, corrisponde letteralmente alla ricerca di un corpo. Molta gente è alla ricerca di un proprio corpo”.
Parafrasando Benjamin, si potrebbe far risalire questa tendenza al momento in cui si è ottenuta la “riproducibilità tecnica” dell’immagine corporea, cioè alla nascita della fotografia. Da quel momento, è come se il corpo proprio avesse perduto la sua “aura”, cioè la sua unicità, e nello stesso momento la mente, cui viene elargita l’ambigua opportunità dell’ubiquità grazie ai media elettronici, vivesse questa alienazione oscillando dall’euforia dell’emancipazione all’angoscia dello spaesamento. Perduta l’innocenza del corpo originario, come il frammento gnostico caduto dal Pleroma va cercando la propria reintegrazione nell’unico modo che il mondo oggi sembra consentire, quello della fabbricazione tecnica. Naturalment6e, quella che ci si ostina a vedere come una curiosità sociologica e si riconduce a un fenomeno imitativo, ha radici ben più profonde e andrebbe capita in termini spirituali.
Temo che i fenomeni descritti dall’articolo siano solo le punte emergenti di un iceberg molto più esteso, e che in termini di patologie diffuse già la cosa presenti i caratteri di una pandemia. La cosa che l’articolo non dice è che a Milano ci sono madri che regalano “una taglia in più” alle figlie, per il diciottesimo compleanno.
15 aprile 2010 alle 08:36
io trovo che la ricerca di un corpo sia una forma di arte. e in effetti l’arte è legata al gusto – intendo: prediligere determinate forme e preferirle ad altre ad una determinata altezza della storia – ; da questo punto di vista ha molto poco a che fare con il patologico, se non corime forma d’arte, appunto. Personalmente trovo che se si voltano a guardarmi – mica sempre, però ogni tanto capita- sia per tutta questa serie di ragioni sopra esposte. Di fatto essere magri è immorale.