Da un “Perceber” all’altro

by

di Leonardo Colombati

[Questa è la postfazione che Leonardo Colombati ha inserita nell’edizione economica (Fandango 2009) del romanzo Perceber (Sironi 2005). gm]

Colombati nel 2005.

Nel 1991 scrissi un racconto di tre pagine intitolato Il silenzio di Alonso Barrulho, dove descrivevo gli strani usi degli abitanti di Perceber, un paese immaginario che collocai nella regione della Murcia, in Spagna. A Perceber si vive con l’incubo del silenzio, del bianco e dello zero: tutti parlano continuamente, senza riuscire a fare una pausa tra una parola e l’altra; e il bianco e i numeri arabi sono banditi per decreto. Fino a quando qualcuno – Alonso Barrulho, appunto: che un bel giorno ammutolisce – scopre che Perceber, i suoi abitanti, il mondo intero non esistono.
Il racconto restò nel cassetto per cinque anni, finché non mi venne in mente di costruirci sopra un romanzo. Nel 1996, a Londra – dove vivevo – in una notte di febbraio progettai l’intero romanzo buttando giù una scaletta in trenta punti e nei giorni successivi ampliai il racconto originario fino a completare i primi due capitoli. Quando tornai a vivere a Roma, dimenticai ben presto il progetto, e per due anni non scrissi niente.

Nel gennaio 1998 iniziai a scrivere una serie di racconti, fra cui uno in cui un vecchio pazzo porta da mangiare agli animali dello zoo di Roma. In un altro, un ragazzo restava ossessionato dalla foto di copertina di un album degli Smashing Pumpkins, in cui sono ritratte due bambine gemelle. In un terzo racconto (intitolato, con gusto macabro, Racconto d’appendice), riportavo una notizia vera: ad un anziano signore era stata amputata una gamba dopo che era finito sotto un tram; dopo un paio di mesi, il disgraziato ricevette una telefonata dall’obitorio in cui gli si chiedeva di passare a riprendersi l’arto. Ancora non sapevo che i protagonisti di quelle storie così diverse sarebbero divenuti tre dei quattro personaggi principali del mio futuro romanzo.

Un giorno ritrovai una cartellina con su scritto, a pennarello, “GIOVANNI MIGLIORE “. Conteneva del materiale per un romanzo che nel 1990 avevo progettato con il mio amico Bernardino Sassoli. L’unico capitolo che avevo scritto, parlava di questo ragazzo, Giovanni Migliore, ebreo romano, che nel 1970 assiste alla morte di sua madre. Provai allora a ricavarne un racconto. Ricordo che proprio in quei giorni stavo leggendo Underworld di Don DeLillo. Fu una rivelazione: una palla da baseball veniva utilizzata come un filo rosso che univa storie tra loro molto diverse. Perché non provarci con i quattro racconti che avevo scritto? Decisi che la mia “palla da baseball” sarebbe stata la gamba amputata: i tre protagonisti del mio progetto di romanzo – il vecchio pazzo Baldini, il pedofilo Luigi Dodo e il giornalista Giovanni Migliore – avrebbero assistito all’incidente. Bum! Tutto si mise in moto.

Da molto tempo avevo sognato di scrivere un libro che fosse una sorta di Inferno con i quartieri di Roma al posto delle bolge. Mi applicai dunque su una mappa della città (una, enorme della Michelin) ed evidenziai i rioni ed i quartieri con dei pennarelli colorati. Ogni capitolo del romanzo – decisi – si sarebbe svolto in una differente zona: una specie di Gioco dell’Oca. Nel dicembre del 1998 iniziai a scrivere il romanzo (ancora senza titolo). Fu allora che scrissi il dialogo tra le statue parlanti che è ora nel quarto episodio di Perceber. A Natale, poi, comprai L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. Mentre procedevo nella lettura di quelle incredibili novecento pagine, la mia smisurata ambizione continuava a dirmi: “Devi fare una cosa simile”. Di sicuro, L’arcobaleno mi fece capire che il pastiche fra temi ed elementi del tutto distanti fra loro non solo non era impossibile, ma anzi poteva essere una sfida entusiasmante. Fu così che riconsiderai l’idea di recuperare la storia di Perceber. La gettai come una carta nel mazzo, mischiai, ed ebbi, finalmente, tutta la mia storia fra le mani. In due giorni progettai una scaletta in cui suddivisi il romanzo in tre parti, sette capitoli e quarantuno episodi. Non tralasciai l’idea del “Gioco dell’Oca”, ed anzi, sovrapposi a quella griglia topografica, un altro schema, stavolta mutuato dalla cosmologia cabalistica.

Lo studio della Cabala era una mia antica passione, nata quando volevo scrivere il libro con Bernardino. Nella suddivisione dei compiti, a lui spettava (per ragioni che non ricordo) di studiarsi l’ebraico; a me il Sefer Yesirah e i testi di Scholem. L’idea che il romanzo fosse al tempo stesso una città ed una cosmologia (e pure un corpo umano), derivava chiaramente da Joyce.

Tra il 1999 e il 2001 scrissi i primi ventidue episodi (pari ai primi tre capitoli). Procedevo così: scrivevo un episodio, lo correggevo, lo ricorreggevo, riprendevo tutto il malloppo, lo ricorreggevo da cima a fondo. Alcuni episodi di Perceber sono passati attraverso non meno di quaranta revisioni.

Mia figlia Margherita nacque il 7 marzo del 2001. Da gennaio a settembre di quell’anno, praticamente non lavorai al romanzo (chi ha figli potrà capire il perché). Da ottobre a dicembre diedi un’ulteriore sistemata ai primi ventidue episodi. I tre episodi del quarto capitolo (quelli ambientati a Perceber), li scrissi durante l’agosto di quell’anno in Toscana, servendomi delle memorie di Casanova e del libretto del Don Giovanni di Mozart. Tornato a Roma, scrissi tutto il quinto capitolo da ottobre a gennaio. In estate completai tutto il sesto capitolo. Il 12 ottobre 2003 potei battere sulla tastiera la parola FINE. Erano passati dodici anni da quando m’era venuto in mente di scrivere di un paese di cronici chiacchieroni.

* * *

Perceber è un romanzo-carillon il cui intento doveva essere né più né meno che quello di intrattenere il lettore, invitarlo a partecipare all’inganno per cui ogni racconto, all’interno, fosse percepito come nient’altro che un piccolo gioco di prestigio, un artificio, il vetrino colorato di una Lanterna Magica. Nelle mie intenzioni, ci sarebbe dovuti spingere oltre: un po’ come in quel disco dei Beatles la cui copertina rivelava al suo interno dei cartoncini tratteggiati che l’acquirente avrebbe dovuto ritagliare per costruirsi i baffi e le mostrine del Sergente Pepe.

Sono stati bei tempi: notti insonni, pomeriggi sottratti furbescamente al lavoro, nella costruzione di un monstrum cui aggiungere ogni volta nuove rotelle, lunghissime viti a tortiglione, ingranaggi rococò… Il mio modello, in questo senso, era quel Francesco Marucelli, fiorentino, che nel XII secolo attese alla stesura di una bibliografia universale ordinata per argomento; un’opera dal titolo Mare Magnum che il nipote sistemò in centoundici volumi. La mia ambizione era quella di includere in sole cinquecento pagine tutto lo scibile umano. È ovvio che l’obiettivo fosse fuori dalla mia portata, così come per Antonio Baldini risulta impossibile la riuscita di un Piano che preveda la realizzazione di una mappa 1:1 della città di Roma. Il suo Piano fallisce. E con esso il mio romanzo. Può la forma vedere se stessa? Ciò che sfugge allo schema di Baldini è la vita – la sua, quella di Giovanni Migliore e quella di Luigi Dodo. Per cui, quando alla fine capiamo che è Baldini ad aver scritto Perceber e che il libro non è altro che il suo Piano, Perceber vuole essere allo stesso tempo un progetto fallito e riuscito, perché è attraversato da quel tanto di irriproducibile che è l’energia vitale dei suoi personaggi.

Quando scrivevo Perceber, capivo che “costruire” un nuovo Ulisse sarebbe stato del tutto velleitario se all’interno della struttura, all’interno dello stile, non fosse sopravvissuto un nucleo incandescente: quello delle emozioni, della bellezza della tragedia cui avevo destinato i miei tre protagonisti. Potrei anche rovesciare la questione, asserendo che il vero romanzo che volevo scrivere era tutto ricompreso in quel nucleo – patetico e sentimentale – che per vergogna ho voluto rivestire con una corazza quasi impenetrabile.

Quasi.

Ecco, tutto si gioca in questo “quasi”. Se l’armatura ha soffocato il corpo, in Perceber, allora hanno ragione i detrattori del mio libro.

* * *

Quando ho ripreso in mano Perceber per la prima volta dopo diversi anni, per curare questa sua nuova edizione, il primo impulso è stato quello di scriverlo tutto d’accapo: ci sono molte pagine di cui mi vergogno profondamente. Ma il sentimento dominante di questo nuovo incontro è stata l’invidia: per ciò che ero e che adesso non sono più. Non so dire se oggi sono uno scrittore migliore o peggiore; certo è che quell’entusiasmo, quell’ingenuità, quella presunzione non ritorneranno.

Roma, 19 ottobre 2009

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6 Risposte to “Da un “Perceber” all’altro”

  1. Livio Romano Says:

    Non ho letto Perceber, ma questo pezzo è bellissimo. E conosco molto bene quel sentimento di invidia per ciò che si è stati, per le intenzioni che hanno animato le narrazioni che abbiamo fatto anni e anni addietro. Lo stesso Giulio, mi pare, ne ha scritto ricordando i moventi interiori di “Questo è il giardino”.

  2. Enrico Macioci Says:

    Bellissimo pezzo. Adoro quando gli scrittori svelano la gestazione di un romanzo, specie se lungo, e i fatti e le letture e le combinazioni e le apparenti casualità e le difficoltà e il divincolarsi fra queste difficoltà e gl’impicci della quotidianità, insomma tutto ciò che ha dato origine all’opera.

  3. Laura Says:

    molto bella anche la postfazione.
    Con un po’ di malizia, penso che l’invidia derivi a Colombati anche dalle sue ultime opere… come lettrice, spero che ritrovi la follia di Peceber.

  4. mbrt0 Says:

    Mi associo. Affascinante. Per me la lettura di Perceber, quattro cinque anni fa, è stata un’autentica sbornia. Qualcosa come: andare a cena, mangiare tantissimo e benissimo, perder di vista gli amici, finire a una festa caleidoscopica in posti di cui credevi di conoscere per lo meno l’ubicazione e invece ti rendevi conto di non saper niente, continuare a bere, fare probabilmente qualcosa che non va e risvegliarti con il fiatone, la faccia ancora tesa in un sorriso un bel po’ di voragini mnemoniche, dalle quali ti aspetti possa venir fuori di tutto. Superficialmente parlando (al livello proprio più di superficie): avevo letto due o tre cose di Thomas Pynchon in traduzione, e mi rendevo conto di non avere idea – immagino che soltanto chi sia di madre lingua possa – di come potesse suonare il suo pastiche linguistico, di che campi di risonanza – universi di vibrazione, spalancasse. Tutti quei calembour, canzoni, scioglilingua… e poi come dire?, uno strano metallizzato effetto linguistico di iridescenza. Ovvio che non è esattamente la stessa cosa. Ma per me è stata una rivelazione. Come potesse essere. Che dono, Leonardo!

  5. Carlo Capone Says:

    Perceber l’ho letto così. Ogni volta che avevo voglia di leggere [non di leggere Perceber ma di leggere e basta] aprivo il libro a caso e leggevo.
    In questo modo credo di averlo letto tutto, ma non ne sono sicuro.

    Carlo Capone

    PS Those were times anche per me.

  6. Bartolomeo Di Monaco Says:

    Ben trovato, Leonardo. Era il 7 novembre 2007 quando scrivevo su Perceber appena uscito, qui:
    http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?p=619

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