di giuliomozzi
Non è stato corretto il grossolano e ridicolo errore che segnalavo ieri (qui: e ho anche scritto al direttore Vittorio Feltri) nell’articolo di Daniela Santanchè (qui) apparso nel quotidiano Il Giornale. E’ stato però cambiato il titolo: non più “Rai, perché pagare per Santoro? Firmate con noi per abolire il canone”, bensì: “Al via la raccolta di firme per restituire la Rai alla gente”.
Devo dire ovvietà, ma le dico:
1. è ovviamente ambiguo che il quotidiano “di famiglia” dei Berlusconi promuova una campagna per indebolire economicamente il principale concorrente, sul mercato pubblicitario, della principale azienda “di famiglia” dei Berlusconi, ossia Mediaset. Si potrebbe obiettare: “No: togliendo alla Rai la risorsa del canone, e imponendo quindi alla Rai di trarre tutte le sue risorse economiche dal mercato pubblicitario, si spingerebbe inevitabilmente la Rai a stare nel mercato pubblicitario con molta più aggressività, e a fare quindi, finalmente, una vera concorrenza a Mediaset”. Ho il sospetto che l’obiezione possa avere una sua credibilità nel lungo periodo; mentre nel breve periodo l’abolizione del canone si risolverebbe unicamente, credo, in un serio problema economico per la Rai. La Rai ne uscirebbe viva? Esisterebbe per la Rai un lungo periodo? A un Silvio Berlusconi che domani compie settantatré anni, importa di più del breve o del lungo periodo?
2. è noto a tutti che si paga il canone perché la Rai è un “servizio pubblico”, come gli autobus, gli ospedali e le biblioteche. Se io non pago il canone oggi perché ritengo che oggi la Rai non faccia un “servizio pubblico”, allora compio un’azione di “disobbedienza civile” (espressione usata da Santanchè): azione che si interromperà, ovviamente, nel momento in cui la Rai ricominciassa a fare servizio pubblico. Ma se contestualmente raccolgo firme per “abolire il canone” (come diceva il primitivo titolo dell’articolo; come non dice esplicitamente l’articolo della signora Santanchè; ma come dice chiaramente il direttore del Giornale, Vittorio Feltri, nell’articolo con il quale “sposa” la campagna della signora Santanchè, qui: “Già l’idea in sé di un abbonamento imposto ai telespettatori è assurda in un mercato basato sulla concorrenza”), allora sto facendo qualcosa di diverso: non sto criticando il modo in cui la Rai interpreta oggi il suo essere “servizio pubblico”, ma sto sostenendo una visione del mondo nel quale non trova posto un “servizio pubblico televisivo”.
3. in tutto questo, mi pare del tutto assente una riflessione su che cosa sia il “servizio pubblico” che la Rai dovrebbe offrire. Feltri dice, in sostanza: non voglio contribuire con i miei soldi a finanziare programmi i cui contenuti non condivido: ma questo non è discutere su che cosa sia il servizio pubblico: è combatterlo.
4. è curioso, a questo punto, che la “abolizione del canone” venga proposta come modo per “restituire la Rai alla gente”: il che dovrebbe significare, mi pare, assegnarle un “servizio pubblico”. Peraltro mi domando in che modo una Rai privata del canone sarebbe più “della gente” rispetto alla Rai attuale. Mi domando se le televisioni Mediaset, che si sostentano unicamente con la raccolta pubblicitaria, siano più “della gente” rispetto alla Rai (perché a me, così a occhio, pare che siano proprio della famiglia che le possiede). Mi domando che cosa sia mai “la gente”, o almeno di chi parli la signora Santanchè quando dice “la gente”. Si potrebbe obiettare che “la gente” è quella che compra e vende nel mercato – quindi anche nel mercato pubblicitario – e che una televisione che si sostenti unicamente con la raccolta pubblicitaria è “della gente” nello stesso senso in cui, nei corsi di formazione per i dipendenti dell’Auchan, si insegna ai futuri commessi e cassieri che “il tuo padrone è il cliente”. A me, peraltro, quando entro nel supermercato, non sembra di essere il “padrone”. Né mi sembra che il supermercato del mio quartiere sia gestito come un “servizio pubblico”.
5. il mio sospetto è che parole come “la gente” servano solo a creare un vuoto. “La gente” è palesemente ovunque, eppure non si può toccare, non si può parlarle – si parla sempre solo a singoli individui, a piccoli gruppi -, non si può sapere di preciso che cosa voglia, eccetera. Dire che si vuole “restituire la Rai alla gente” è un po’ come dire che si vuole “fare la volontà di Dio”: e poiché “la gente” mai effettivamente gestirà la Rai, così come la “volontà di Dio” è resterà sempre imperscrutabile, mi pare evidente che con queste frasi si crea un “vuoto di potere”, vuoto che sarà poi riempito da qualcuno: non certo dalla “gente”, e non certo da “Dio”. Un qualcuno che però potrà sostenere di agire in nome della “gente” e/o seguendo la “volontà di Dio”.
6. domando: una Rai che si sostentasse unicamente con le risorse del mercato pubblicitario, ad esempio, farebbe a meno di un programma come Annozero, visto e considerato il numeroso pubblico – e quindi gli ingenti investimenti pubblicitari – che esso attira? (Vedi qui). Io credo di no. “Restituire la Rai alla gente” significherebbe dunque restituirla, ad esempio, anche al pubblico che negli anni Santoro, e in particolare il programma Annozero, hanno mostrato di saper interessare. Ma mi pare che non sia intenzione della signora Santanchè fare questo.
7. perché il punto è, mi pare, alla fin fine, che per la signora Santanchè c’è gente che è “la gente” e gente che non lo è. Chi apprezza Santoro non è “la gente”. Saranno anche cinque milioni e mezzo per ogni puntata del progamma, ma non è “la gente”.
8. lo stratagemma retorico è quello classico del razzismo. Il razzismo consiste, dal punto di vista retorico, nel distinguere con mezzi qualitativi ciò che dovrebbe essere distinto con mezzi quantitativi. Quando sento dire che i libri di Federico Moccia “non sono letteratura”, ad esempio, o che quella di Giovanni Allevi “non è musica”, vedo applicato questo stratagemma. Quando si sostiene che non basta che un vivente sia mammifero, bipede, implume, dotato di pollice opponibile e parlante perché gli siano riconosciuti tutti i diritti e i doveri spettanti a un essere umano, viene applicato questo stratagemma. E in effetti la signora Santanchè fa capire che, tra i cittadini italiani, ci sono quelli che sono “la gente” – ai quali va “restituita la Rai” – e quelli che non sono “la gente” – ai quali la Rai va sottratta: la distinzione tra questi e quelli non è una distinzione quantitativa (come quella, ad esempio, secondo la quale i maggiori di una certa età possono votare, e i minori no) ma squisitamente qualitativa.
Nota finale. La signora Santanchè, nello stesso articolo, scrive anche: “La critica, anche la più aspra, e la controinformazione sono un bene per la democrazia ma non possono essere l’alibi di comodo per perseguire uno scopo apertamente politico attraverso la manipolazione e la falsificazione sistematica dei fatti”. Qui il trucco retorico consiste nel pretendere di “sommare con le lire / quattro mucche e un contadino” (come Provolino). E’ inammissibile “perseguire uno scopo apertamente politico” o “manipolare e falsificare sistematicamente i fatti”? O entrambe le cose? Le due cose, in effetti, nella frase della signora Santanchè, sembrano una cosa sola: ma a me pare ben chiaro che non lo sono. Evidentemente la signora Santanché punta, esprimendosi in questo modo confuso, a raccogliere il consenso di chi trova inammissibile “manipolare e falsificare sistematicamente i fatti” (cioè il consenso di tutti, no? O c’è qualcuno che desidera fermamente un’informazione “manipolata e falsificata”?), riversando poi tale consenso sull’inammissibilità del “perseguimento di uno scopo apertamente politico”.
Tag: Annozero, Daniela Santanchè, Rai, Vittorio Feltri
28 settembre 2009 alle 12:51
Io resto dell’idea (dai tempi della legge Mammì) che le risorse del canone RAI non dovrebbero arrivare dalle tasche degli utenti imponendo una tassa sul televisore, ma bensì da chi fa televisione per professione attraverso le tasse di concessione per le trasmissioni (opportunamente tarate). Così facendo si garantirebbe che il volume d’affari del mercato pubblicitario seppur indirettamente,andasse in parte a garantire la possibilità di avere un servizio pubblico televisivo. Se poi la Rai in questo momento con le sue produzioni garantisca o meno un servizio pubblico, questo è un altro discorso che esula dal principio impositivo.
28 settembre 2009 alle 13:45
In accordo col post di Mimmno, dico che é facile imporre a chi accetta senza ribellarsi. E non ci si ribella se non c’é un condottiero con due palle cosí.
Il pastore si dimenticó di chiudere il cancello. I cani pastori si stavano scopando le cane pastore. Le pecore guardavano il cancella spalancato ma, siccome fuori l’erba era ricoperta dalla neve, decisero di rimanere nell’ovile “armeno stamo ar callo e l’erba sotto le nostre zampe nun é gelata e se magna”.
Servizi di Stato e intime (pecorali) virtú.
28 settembre 2009 alle 17:50
Purtroppo, come Giulio fa notare con la consueta acutezza, oggi la lingua è utilizzata male (artatamente o no), e attraverso la lingua vengono perpetuati inganni vergognosi. Anche i decreti per la ricostruzione in Abruzzo (io sono aquilano), ad es., si distinguono per la loro stupefacente nebulosità. Ripeto: non so se è fatto apposta o se si tratti d’effettiva incapacità ad organizzarsi e/o a riferire le decisioni prese (probabilmente un misto d’entrambe le cose), ma c’è uno iato, che parte proprio dalla lingua e nella lingua s’invischia, fra chi comanda (i politici insomma, le Santanché di turno eccetera) e “la gente.” La quale “gente”, come dice Giulio, si tramuta in un concetto astratto da usare a proprio piacimento a seconda di dove tira il vento.
28 settembre 2009 alle 22:39
che pazienza Giulio, a ritirare fuori i fili dagli intrecci,
a cavare dai pugni chiusi a cazzotto
le ragioni nascoste -che non si possono dire,
e ritornare a pensare che
-ma quale scuola ho fatto?-
nell’antico gens significava la famiglia
e tutto l’intreccio di famigliagioni e figliamenti
e matrimoniandoli e schiavi e semiliberi,
una matassa di sangui e fratellanze,
oggi dispersa e richiamata per dire nulla
-un nulla che però fa il filo nuovo ai coltelli
e nuovi sangui.
“L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio
dei nostri padri che abbiamo nel sangue: idee senza parole”
(Spengler citato da Furio Iesi, in Cultura di destra)
28 settembre 2009 alle 22:40
ah già, colonna sonora apotropaica, Lady Bug,
Bumblebee Unlimited.
29 settembre 2009 alle 06:54
Siete sicuri che serva una televisione servizio pubblico? allora perché non rendere il pane servizio pubblico, visto che mangiare è prioritario rispetto ad essere informati. Con la pluralità di informazione a livello mondiale una TV pubblica ( a meno che non si tratti della BBC….- ma la guardate la BBC..??” ) non la capisco. I programmi RAI che hanno scatenato questa levata di scudi contro il canone RAI sono faziosi e invisi a una grande parte del pubblico, ma soprattutto dividono gli Italiani e creano animosità e scontri ideologici, perpetuando questa situazione di battaglia costante tra di noi. E poi un’altra domanda, sareste contenti di dover pagare una canone alla mediaset sapendo che serve a pagare Emilio Fede?? Io e molti altri la pensiamo così per la Rai.
29 settembre 2009 alle 08:54
Le questioni, Giovanni, sono due:
1. se “serva” una “televisione servizio pubblico”;
2. se l’attuale “televisione servizio pubblico” funzioni bene oggi, ossia se sia effettivamente un “servizio pubblico”.
Il guaio è che le due questioni vengono spesso mescolate nei discorsi e nelle discussioni: mentre dovrebbero essere tenute distinte.
Scrivi: “I programmi RAI che hanno scatenato questa levata di scudi contro il canone RAI sono faziosi e invisi a una grande parte del pubblico”. Vero. Ma sono anche, indubbiamente, graditi a una grande parte del pubblico (ci sono i dati d’ascolto eccetera). Quindi?
Scrivi che questi programmi “soprattutto dividono gli Italiani e creano animosità e scontri ideologici, perpetuando questa situazione di battaglia costante tra di noi”. Sono d’accordo. Tuttavia a me pare che la “battaglia costante” sia iniziata nel 1994, e non per iniziativa di questi programmi televisivi.
Esisteva una sorta di “patto di non belligeranza estrema” tra le forze politiche. Nel 1994 questo “patto” (rigorosamente “non scritto”) è saltato. io credo che ci sia un solo luogo dove un analogo patto possa essere ricostruito: e cioè nel Parlamento. Luogo che serve, come dice il nome, a “parlarsi”.
Il punto da cui cominciare è insomma, mi pare, non l’abolizione di questo o quel programma televisivo fazioso, non la rimozione di questo o quel giornalista intermperante; bensì una serie di gesti, sostanziali e anche simbolici, che restituiscano al Parlamento quella “centralità” che la Costituzione gli assegna.
Campagne come quelle di “La Repubblica” (prima le “dieci domande”, adesso la “libertà d’informazione”) o de “Il Giornale” (questa novità di disdire l’abbonamento alla Rai) sono campagne che trovano spazio perché dello spazio è stato lasciato vuoto. Se la Rai debba essere o non essere proprietà pubblica, se la Rai debba essere o non essere “servizio pubblico”, mi pare materia sulla quale il Parlamento potrebbe discutere e decidere. La regolamentazione generale del comparto dell’informazione mi pare materia sulla quale il Parlamento potrebbe discutere e decidere. L’effetto sull’immagine dell’Italia dei comportamenti libertini dell’attuale presidente del consiglio, è materia sulla quale il Parlamento potrebbe, mi pare, spendere cinque minuti di riflessione (non per investigare nella vita privata di alcune persone, ma per tutelare la vita della Cosa Pubblica).
Così come mi piacerebbe se il Parlamento discutesse a lungo (e i giornali riferissero!) l’attuale situazione delle istituzioni scolastiche, la politica economica da seguire in questo tempo di crisi (ma anche nei tempi ordinari…), la politica generale da seguire a fronte dell’aumento della popolazione non di origine italiana, eccetera.
Su alcune di queste materie sono state approvate delle leggi. Alcune di queste leggi sono state approvate praticamente senza discussione, con i sistemi dei “maxiemendamenti” e del voto di fiducia. I giornali sono stati carentissimi nell’informazione (e non mi pare che i telegiornali, Rai o Mediaset, siano stati più adeguati). Ogni due per tre c’è un qualche ministro che insulta pubblicamente gli apparati dello Stato. La sensazione che io ho, e credo di non essere solo, è quella di un “casino totale”.
E non credo che la cosa si risolva abolendo il canone Rai. Perlomeno, non mi pare che questa sia l’urgenza.
giulio mozzi
1 ottobre 2009 alle 17:54
Senza il canone la Rai imploderebbe, a vantaggio di chi? Non di Europa7, (o come si chiama). Credo che il canone venga usato per tenere in piedi una “pachidermica” e clientelare struttura, ma i programmi, quelli si, si mantengono già con la pubblicità, altrimenti non si capirebbe perchè alcune trasmissioni vengano “segate” in assenza di sufficienti ascolti. Forse servirebbe un canone un po più caro, (e pagato da tutti) per avere una televisione ancora più pluralista, ma non se ne viene fuori se non si limita “zapateramente” l’influenza dei partiti. Auguri a tutti.