A proposito di un tentativo di descrizione di una tendenza in atto nella narrativa italiana

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di Marco Bellotto

[Marco Bellotto è l’autore di due romanzi: Il diritto di non rispondere, Sironi, e Gli imitatori, Marsilio. Questo suo pezzo risponde a un pezzo di giulio mozzi, pubblicato qui qualche giorno fa e intitolato Tentativo di descrizione di una tendenza in atto nella narrativa italiana (ovvero: come liberarsi dall’inutile categoria dell’autofiction)].

Ho letto il pezzo di giulio, e non sono d’accordo su nulla, o quasi.

1. Mi è capitato di frequentare per un certo periodo alcuni scrittori italiani e posso dire senz’ombra di dubbio che sono in stragrande maggioranza dei memorabili coglioni. Hanno tutti i difetti del piccolo-borghese: ipertrofia dell’ego, carenza assoluta di autoironia (la loro autoironia è sempre fasulla), servilismo ai limiti dell’accattonaggio verso i potenti, boria insensata verso i deboli. Sono ipocriti, permalosi, vendicativi, traditori, meschini. Pur avendone i difetti, non hanno nessuno dei pregi della piccola borghesia, dato che la aborrono: loro sono scrittori! Di conseguenza ho smesso di frequentarli, con l’esclusione di quelli che non sono così, fra cui giulio.

2. L’autobiografia di questi imbecilli potrebbe essere un romanzo interessante, addirittura gustoso, se fosse scritta con autoironia. Macché: in un mondo sovrappopolato di gente che si fa i cazzi degli altri, loro (che sarebbero pagati per quello) ti sfiniscono santificando ogni propria secrezione, corporea o spirituale, il tutto senza uno straccio di trama. Se viene trovato un cadavere con un romanzo italiano fra le mani, credetemi, quel tizio è morto di noia, forse si è suicidato atrocemente.

3. La categoria dell’autofiction, quindi, è utilissima proprio perché inchioda il principale difetto della letteratura italiana “colta” o “d’autore” (o chiamatela come volete) contemporanea. Una buona metà dei romanzi usciti negli ultimi anni in Italia dovrebbe avere lo stesso titolo: Agiografia di una testa di cazzo. Visto che vanno di moda gli acronimi, propongo di sostituire autofiction, che a giulio non piace, con ATC. (Un diverso discorso deve essere fatto sulla letteratura italiana “d’evasione” o “impegnata”, ma non è questo il luogo.) Intendiamoci: non ho dubbio che alcuni di quei libri, comprese le opere citate da giulio, abbia qualcosa di buono – le prime trenta pagine di Troppi paradisi [di Walter Siti] sono magnifiche, poi il libro diventa uno strazio – ma preferisco andare sul sicuro e leggere la narrativa contemporanea di altre nazioni, in particolare quella in lingua inglese e spagnola.

4. Ebbene, anche nelle altre letterature è molto diffusa l’esibizione dell’autore, non necessariamente con nome e cognome, nel testo. (Martin Amis l’ha battezzata alta autobiografia, e sostiene che l’ha inventata Bellow; non sono d’accordo: l’ha inventata Sua Maestà Tolstoj, come tutto il resto). Direi che si tratta forse della principale caratteristica di ciò che viene chiamato – quasi sempre a sproposito – postmoderno; per quel che vale, anch’io ho fatto qualcosa del genere nel mio ultimo romanzo. Ma l’inserimento più o meno esplicito del sé nel corpo del romanzo funziona – e difatti lì funziona – solo se il romanzo ha un corpo. E corpo, da che mondo è mondo, significa carne e sangue, non certo Bene e Male (da quando in qua Bene e Male sono corpo? Casomai sono anima). Per corpo deve intendersi, quindi: una dannatissima trama, dei dannatissimi personaggi, una dannatissima esplorazione del mondo. Insomma il vecchio e caro materiale del romanzo. Se a questo poi si aggiunge una prosa ricca di sapori (la prosa speziata di Marquez, quella amara di Philip Roth, quella aspra di Houellebecq, quella agrodolce di Bolaňo, quella zuccherosa di McEwan, quella tutta curry e limone di Rushdie, ecc.) ne escono dei libri bellissimi, talvolta dei capolavori. Con ogni probabilità molti dei principali scrittori stranieri sono pure loro teste di cazzo (Houellebecq di sicuro). Ma sanno fare il loro lavoro.

5. Se uno scrittore intende fare fiction usando la pura e semplice autobiografia ha solo due possibilità: il racconto (penso a Carver, che si guardava bene dallo scrivere romanzi, o allo stesso giulio) o il monumento (la Recherche, la seconda parte del Mann ohne Eigenschaften, ecc.). Niente vie di mezzo: se la Statua della libertà fosse alta due metri e mezzo farebbe cagare. Quindi, occhio al tuo romanzo, giulio: fallo bello grande.

6. In definitiva: salvare l’autofiction attribuendole il corpo del Bene e del Male è un’operazione inaccettabile. Se un film è una fetta di torta – lo diceva Hitchcock – un romanzo è un polpettone fatto con materiali di scarto: scarti di filosofia, di sociologia, di politica, di storia, di psicologia, scarti di vita dell’autore. Qualunque cosa sia, comunque, non è un’ostia consacrata. Il romanzo non è né morto né moribondo, anzi gode di ottima salute, con buona pace del romanzo italiano che ha avuto un periodo di rumore e furore a cavallo della metà del secolo scorso, e ora non se lo fila più nessuno. E la colpa è anche della fetida autofiction.

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29 Risposte to “A proposito di un tentativo di descrizione di una tendenza in atto nella narrativa italiana”

  1. Giovanni Cocco Says:

    31 agosto ’09
    Caro Marco, ho letto con grande interesse il tuo intervento e condivido pienamente il punto 1. Per una maggiore comprensione del fenomeno ti rimando all’articolo/provocazione di GP Serino apparsa su Satisfiction nei mesi scorsi e relativa ai cosidetti radical flop .(http://satisfiction.menstyle.it/archive.php?eid=89).
    La provocazione di Serino, a mio parere, focalizza in maniera precisa un difetto della narrativa italiana, lo stesso a cui tu fai riferimento nei primi due punti. Non riesce tuttavia a d essere completamente efficace perchè, sempre a parer mio, una volta individuato il problema fornisce nomi “sbagliati”. Mi spiego, l’elenco fatto racchiude anche nomi e autori validissimi. Io in quella lista avrei altri nomi da mettere.
    Relativamente ai punti 3 e 4, invece, mi pare di poter dire che il tuo ragionamento non può essere esteso a TUTTA la narrativa italiana, anzi. Ti faccio solo 5 esempi: “Fiona” di Covacich. “Blackout” di Morozzi. “Un amore dell’altro mondo” di Pincio. “54” di Wu Ming. “Perceber” di Colombati.
    Rimango del parere che la narrativa italiana sia estremamente vitale. Rimane, a mio avviso, un difetto di fondo: i geni rimangono alla porta del successo editoriale. Gli autori medi (e talvolta mediocri) hanno molta più probabilità di successo.
    A presto. Johnny 99

  2. vbinaghi Says:

    Giustamente guascone e divertente il pezzo, ma eccessivo nei giudizi.
    Segnalo un romanzo italiano recente che non ha questi difetti e ho trovato splensidamente “vissuto” e insieme “storico”:
    “L’età dell’oro” di Edoardo Nesi (2005, Bompiani)

  3. Laura Says:

    zuccherosa la prosa di McEwan?

  4. Marco Candida Says:

    Se ci mettiamo tutti a dire che questo è stato un tentativo fallimentare va a finire che lo facciamo diventare un tentativo di successo. Questo forse bisognerebbe evitarlo. Segnalo, comunque, anche Scuola di nudo di Walter Siti (Einaudi; 1994). Ci sono i corpi. C’è la nota finale dove l’autore nega di avere a che fare col protagonista. Poi ci sono altri libri, naturalmente.

  5. federica sgaggio Says:

    Ho poco tempo, dannazione, ma volevo dire che i punti uno e due di Marco li sottoscrivo con feroce godimento e smodatissimo piacere. Mi piace tantissimo «Agiogafia di una testa di cazzo», definizione che applicherei anch’io a cose che ho letto.
    Mi piace un casino la dannatissima trama e mi piacciono un casino i dannatissimi personaggi.

    Non consiglio nessuna lettura. Però io ho presente che da altre parti esistono romanzi che vengono etichettati come «memoir» («Sei qualcuno»? della O’Faolain, o «Le ceneri di Angela» di Frank McCourt, guarda caso due irlandesi) che sono carne e sangue eccome. Che hanno storia, soffio di vita.
    Sono carne, sangue e merda, anche.
    Fanno ridere e piangere.
    Hanno qualcosa da dire.
    Non ho ben capito con chi sono d’accordo dicendo questo e con chi, invece, sono in disaccordo, ma voglio dire a Marco che ho capito il senso di una cosa che mi disse mesi fa a proposito di un mio progetto (grazie), e che mi è piaciuta proprio tanto questa cosa dei «memorabili coglioni».
    Liberatoria.
    (Alcuni misurano la circonferenza del proprio ombelico con enorme e concentrata serietà).

  6. Hector Belial Says:

    Premetto che non sono un grande fan dell’autofiction e che mi sono sempre proposto di scrivere tutt’altro. Detto questo, non credo che ci sia niente di “fetido” nell’autofiction; piuttosto è la mancanza di ambizioni di molti autori a generare autofiction fetida.

    Se “autofiction” è un’etichetta di genere possibile – prima ancora che utile – è ovvio che andrà ad indicare una serie di romanzi che variano, potenzialmente, dal capolavoro alla carta straccia. Affermare che i romanzi di autofiction sono noiosi, che mancano d’ironia o di esplorazione del mondo è come dire: i noir sono violenti, i romanzi per bambini sono idioti, i film di guerra sono retorici. Si tratta di generalizzazioni e banalizzazioni. E’ poi possibile che una buona parte dei romanzi italiani di autofiction siano noiosi, che molti noir siano violenti, e che una preoccupante maggioranza dei romanzi per bambini siano idioti. Questo però non significa che i difetti dei singoli libri siano ascrivibili ai relativi generi d’appartenenza.

    Casomai, un genere può favorire determinati vizi. E’ più facile cadere – più o meno involontariamente – nella retorica quando si gira un film di guerra che quando si scrive un romanzo d’amore. E’ altrettanto semplice inserire una scena di violenza del tutto gratuita in noir. Ed è altrettanto semplice – presumo – scrivere un romanzo di autofiction con tutte le caratteristiche negative indicate da Bellotto. Perché?

    Se un autore manca completamente di inventiva, ambizione ed autocritica, di che cosa scriverà, se non di se stesso e della propria vita? Se non è capace di creare personaggi e ambientazioni decenti, perché non ricalcare quelle che ha sotto gli occhi? Questo non toglie che uno scrittori dotati di talento possano scrivere eccellenti romanzi d’autofiction. Ma spiega, a mio avviso, le tante “Agiografie di una Testa di Cazzo”.

    Tornando all’ambizione, Calvino, nelle Lezioni Americane, ha sottolineato quant’era indispensabile nella scrittura di un grande romanzo. Ecco, mi chiedo quali possano essere le ambizioni di uno scrittore che parla per centinaia di pagine della ragazza che l’ha lasciato, delle sue giornate di lavoro in ufficio, delle sue vacanze al mare… Ancora, non metto in dubbio che siano stati scritti e si scriveranno ancora struggenti capolavori sulla propria ex, sul proprio ufficio e sulla propria villeggiatura. E tuttavia non mi sorprende affatto che se un romanzo nasce da presupposti simili possa finire, e con estrema facilità, nella categoria della carta da culo.

  7. demetrio Says:

    mi viene da dire che Giulio nel suo articolo voleva proprio dire: nel calderone dell’autofiction ci sono anche cose buone che sarebbe meglio levare dalla generalizzazione del termine autofiction.

    mi sembra che qui si continui a parlare di autofiction, c’è qualcosa che non va.

    mi viene da dire che io ho scritto un libro, tra i tant citati da Giulio, il protagonista porta il mio stesso nome, ma nessuna delle recensioni, alcune autorevoli (penso a Voltolini su TTl), ha parlato di autofiction. ovvero esiste la possibilità di giocare sull’ambiguità autore-narratore-protagonista (non ci aveva già giocato Dante nella Commedia come ci racconta benissimo Contini’) senza cadere nella autofiction.

  8. Lucio Angelini Says:

    “Sono ipocriti, permalosi, vendicativi, traditori, meschini. Pur avendone i difetti, non hanno nessuno dei pregi della piccola borghesia, dato che la aborrono: loro sono scrittori! Di conseguenza ho smesso di frequentarli, con l’esclusione di quelli che non sono così, fra cui giulio”.

    Detto da un autore Sironi che salva, guarda caso, un editor Sironi, fa subito capire cosa intenda per “servilismo ai limiti dell’accattonaggio”*-°

  9. demetrio Says:

    ad esempio a me piacerebbe sapere da chi è intervenuto questo. Mozzi cita alcuni libri, cosa ne pensa chi interviene di quei libri?, ci sta il ragionamento di Mozzi a proposito di quei libri?. Ci sono altri libri che potrebbero starci meglio rispetto al ragionamento di Mozzi?

    questo potrebbe dare chiarezza al ragionamento o no?

  10. catalin Says:

    Resti fra noi, Danny, il carattere italiano viene fuori per intero in questo problema del traffico. Sono egoisti, cafoni, vani e stupidi. Per quello che mi riguarda questa è un’ analisi onesta di tutta la nazione. E per dare un tocco finale, sono farabutti, ladri, malversatori, bugiardi e truffatori. Mi danno la nausea. […] Per quanto riguarda me, vorrei essere un Ubangi con un osso nel naso.”
    JOHN FANTE

    per fortuna tra un pò emergeremo noi scrittori italostranieri…

  11. Enrico Macioci Says:

    Ma Giulio vuole togliere importanza alla categoria dell’autofiction, non dargliene. Egli afferma in sostanza che la suddetta categoria è restrittiva e mortificante, è un’etichetta appiccicosa nella quale sono accomunate opere di diverso valore e di diversa filosofia, e rischia di creare confusione e di omogeneizzare prodotti eterogenei.
    Ciò premesso, la denuncia di Bellotto è sostanzialmente condivisibile. Questo inseguire la cronaca da parte di parecchi scrittori nostrani indica, attraverso la modalità spesso pedissequa con cui lo fanno, una carenza immaginativa. Per dire: Dostoevskij ha scritto I DEMONI e DELITTO E CASTIGO partendo da fatti di cronaca, ma poi li ha innervati di tematiche d’universale valore e li ha calati in una narrazione vivida e avvolgente.
    Mi pare, in definitiva, che Bellotto e Mozzi non affermino cose poi così diverse. La pietra dello scandalo sta nell’interpretazione del Bene e del Male in letteratura, che per Giulio è una categoria della carne, e per Bellotto invece dello spirito. E se carne e spirito fossero tutt’uno? Cito Flannery O’Connor, fervente cattolica, secondo cui l’arte del raccontare è un’incarnazione nella materia (carne e sangue)del mistero ovvero spirito (Bene e Male).

  12. mauro baldrati Says:

    Concordo con Binaghi, divertente e giusto, anche se un po’ eccessivo, ma l’eccessività, in fondo, è parte dello stile di questo intervento. Peraltro concordo con l’esigenza sacrosanta di una trama, di un racconto insomma (e parlo come lettore).

  13. Giovanni Cocco Says:

    Il tema che il narratore di casa nostra (o la maggior parte di essi) abbia come orizzonte quello del proprio ombelico è già stata trattato negli anni scorsi. Idem quello dell’ipertrofia dell’ego. Quand’ero un giovanissimo aspirante scrittore di 25 anni mi innamoravo di quegli scrittori di cui parla Marco Bellotto: col passare del tempo ci si accorge, al contrario, che gli scrittori che lasciano il segno sono forse quelli più silenziosi, che fanno parlare i libri e non la biografia. Rimane tuttavia una strana dicotomia nel panorama italiano, al di là delle categorie interpretative dei primi due interventi di Giulio e Marco: da una parte i costruttori di trame, di plot, gli inventori di storie: Genna, Lucarelli, Pincio, Avoledo solo per fare alcuni nomi. Costoro, a ben vedere, dimostrerebbero l’insussistenza delle tesi di Marco. Dall’altra parte coloro che, nella scrittura, sono costantemente alla ricerca di una sperimentazione linguistica: Nori, Trevisan, il primo Nove, Krauspenhaar.
    Bene, ecco il punto: la sintesi di queste due interpretazioni dovrebbe essere la miscela del narratore perfetto. Io la trovo in alcuni autori che trovo straordinari: Covacich, Desiati su tutti.
    Ultima riflessione (so che non so esattamente seguendo un filo logico ma tant’è, perdonatemi): nella produzione letteraria degli ultimi 15 anni, diciamo da “Gioventù Cannibale” in poi, la costante della narrativa italiana è stata la seguente: personaggi più o meno sfigati, ambientazioni sfrontatamente microcentriche, ricerca della trasgressione, finali “negativi”, spruzzate di Noir qua e là, vicende ombelicocentriche o, all’opposto, trame fantapolitiche. Ed ancora: posizioni sinsitrorse autocompiacenti, sfoggio di cultura Pop o all’opposto, Metafisica dell’Infradito; scorribande sessuali, anticattolicesimo della lippa e antiberlusconismo della salamella. Violenza fine a se stessa. L’impegno civile, quando è dichiarato, non riesce MAI ad essere distante dal paradigma Guelfi/Ghibellini dell’Italia post Conflitto Mondiale o da quella degli anni di Piombo. Mai e dico mai, troviamo personaggi positivi, ricerca della VERITà, amori coniugali felici. Mi rendo conto che tutte queste cose, dette da uno che ha passato la vita a fare manifestazioni contro la Lega Nord e ad essere sempre e comunque “CONTRO”, possano apparire bizzarre. In realtà è tempo che sento l’esigenza di un romanzo controcorrente: cattolico (che non vuol dire solo parlare di preti), borghese, padano. E di personaggi positivi, felici, onesti e vincenti (non nel senso di “Forbes”). L’AZIONE e la riflessione non più concepiti manicheicamente l’uno come GENERE, l’altro come PALLOSITà. Il tutto inserito in una cornice che guardi al Tempo e allo Spazio in maniera completamente opposta rispetto a quanto fatto fin qui negli ultimi anni. L’universalità del romanzo: ecco questo è il punto, come dice Enrico Macioci.

  14. Luca Tassinari Says:

    Giovanni, il romanzo che vorresti fu scritto qualche tempo fa e si intitola Guerra e Pace. Scherzi a parte, credo che negli ultimi anni in Italia si sia vista una certa varietà di stili narrativi.

    Ombelicalismo e intimismo, certo, ma anche tentativi di opera mondo (Colombati), avventure metaletterarie (Candida), sentimentalismo enciclopedico (Mari), incroci pericolosi fra autobiografia e Storia (Cenciarelli), memoria storica (Garlini, Comotti), e chi più ne ha più ne metta.

    Manca piuttosto, almeno a me, una critica capace di individuare e trasmettere al pubblico questa “biodiversità” di scritture. Una critica, dico, che invece di sognare una letteratura “come dovrebbe essere”, si prenda la briga di leggere e analizzare quella che c’è.

    Mi sembra che il tentativo di Giulio di individuare almeno una tendenza *in atto* nella narrativa degli ultimi anni vada in questa direzione.

  15. Giovanni Cocco Says:

    Luca, Tolstoj con la polenta, il missoltino e il libriccino giallo dell’Ora Media mi mancava…
    Condivido in pieno la tua analisi sui paraocchi della critica, spesso intenta a lodare la narrativa straniera senza prendere in considerazione quella di casa nostra che, puntualizzo, mi entusiasma. Semplicemente, non si prendono nemmeno la briga di leggerla, la narrativa italiana. Non ha appeal, non è “trendy” come può esserlo il romanzo di un autore anglosassone, quello di un bell’autore sudamericano marqueziggiante oppure, se proprio italiano, il romanzo di un Magistrato o cmq uno stramaledettissimo giallo.
    Quelli tirati fuori sopra sono solo i vizi capitali, la degenerazione della nostra narrativa. Come se, e scusa se utilizzo ancora come spartiacque ancora “Giovantù Cannibale”, dal ’96 in poi si sia continuato a scrivere e riscrivere lo stesso romanzo.
    Io individuo nella narrativa contemporanea degli ultimi 30 anni due punti di svolta: quello a cavallo tra fine anni ’70 e inizio ’80 segnato da “Altri Libertini” di Tondelli, “Treno di Panna” di De Carlo e “Boccalone” di Palandri; e quello del ’96 con “Gioventù Cannibale” appunto.
    Sembra che, magicamente, ogni 15 ani circa debba accadere qualcosa nella narrativa italiana: attendo con fiducia questa nuova Epifania.

  16. Sul Romanzo Says:

    Quanto mi sento di concordare con le parole di Giovanni Cocco del secondo suo intervento! Davvero. Anche sui nomi citati, nelle rispettive “categorie”.
    Io ho provato a riflettere sulle parole di Bellotto, mi hanno confermato che i veri coglioni sono forse i lettori ahimè:
    http://sulromanzo.blogspot.com/2009/09/frammento-otto-coglione-lo-scrittore-o.html

  17. vbinaghi Says:

    @Cocco
    “Io individuo nella narrativa contemporanea degli ultimi 30 anni due punti di svolta: quello a cavallo tra fine anni ‘70 e inizio ‘80 segnato da “Altri Libertini” di Tondelli, “Treno di Panna” di De Carlo e “Boccalone” di Palandri; e quello del ‘96 con “Gioventù Cannibale” appunto.”

    Il mondo è bello perchè è vario. Io individuo esattamente in questi libri e tendenze (cui aggiungerei “Woobinda” di Aldo Nove, Culicchia e Ballestra) esattamente il contrario: una svolta in senso deteriore, la rinuncia alla scrittura in funzione del chiacchiericcio massmediatico, la nascita dello scrittore “giovane” che resta giovane per tutta la vita semplicemente perchè ha eretto i balbettamenti dell’adolescente e gli scimmiottamenti televisivi a scuola di stile e di pensiero.
    Negli stessi anni scriveva gente come Pomilio, Coccioli, Pontiggia, Lodoli, Del Giudice. Che facevano altro dal rifare il verso al moccioso o al buzzurro. Se queste sono le rivoluzioni in letteratura preferisco i Simpson.

  18. Giovanni Cocco Says:

    Per vbinaghi
    Stavo cercando di individuare una tendenza, amico.
    Io penso, al contrario di quanto hai appena scritto, che:
    Aldo Nove in “Woobinda” e “Puerto Plata Market”;
    Paolo Nori nella saga di Learco Ferrari (cfr. “Bassotuba non c’è”, “Spinoza” e “Gli scarti”);
    Caliceti nella saga dei”Suini” e delle “Vagine” (cfr. “Battito animale” e “Fonderia Italghisa”);
    Trevisan (“I centomila passi”, “Un mondo meraviglioso”);
    Ammaniti con “Fango” e “Ti prendo e ti porto via”;
    Galiazzo in “Cargo” e “Il mondo è posteggiato in discesa”;
    e altri ancora come Matteo Curtoni, Franz Krauspenhaar, Giuseppe Culicchia, Tiziano Scarpa.
    abbiano contribuito, con la loro spermentazione linguistica, a creare qualcosa di nuovo e a “svecchiare” la narrativa italiana. Ho volutamente citato autori che hanno età, provenienza, radici e tradizioni diversissime tra loro.
    E’ probabile che, col passare del tempo, questa “rivoluzione” abbia degenerato.
    Dall’altro lato della barricata per tornare alle due categorie del mio precedente intervento hanno vissuto i “creatori di storie”, i maghi del plot, gli scrittori del “CONTENUTO” e non della “FORMA” per dirla con un linguaggio scolastico:
    Giuseppe Genna, Raul Montanari, Carlo Lucarelli, Tullio Avoledo solo per citare alcuni nomi.
    Oggi si appresta a dominare la scena della narrativa italiana e a determinare una nuova stagione di cambiamento una generazione di scrittori che ha vissuto la stagione dei “cannibali” e della deriva Pop e si appresta a superarla. La lezione è stata metabolizzata. Questi scrittori, a mio parere, hanno una marcia in più. Hanno sintetizzato forma e contenuto,tirando fuori una miscela esplosiva.
    E sono Covacich, Colombati, Desiati, Falco, Paolin, Morozzi. Signorini, Pincio, Raimo, Vasta, Bajani, Mancassola, Piperno, Pallavicini, Wu Ming, Nesi e molti altri. Anche qui l’elenco è composito e gli autori citati vanno dai 20 ai 45 anni: alcuni hanno appena pubblicato, altri sono sulla breccia da un decennio. Molti di essi sono già autori affermati, altri lo diventeranno presto.
    Ci sono poi i GENI, gli evergreen, i classici, gli scrittori di genere e i cani sciolti.
    Ma questo, appunto, non è il luogo adatto per quest’altra discussione: come dicevamo all’inizio era ed è un ragionamento sulla ricerca di una o più “tendenze” nella narrativa italiana.
    Giulio a questo punto sarà disperato perché, al solito, sono uscito di tema e abbiamo spostato la discussione originaria verso altri lidi.
    Chiedo scusa, infinitamente.

  19. vbinaghi Says:

    Dico solo che “tendenze” è un termine sociologico, così come sperimentazione è riferibile solo alla sintassi.
    L’opera d’arte è il fatto più singolo che esista, dopo il soggetto umano, e sarebbe ora che la critica letteraria tornasse a sviluppare l’analisi della singola opera, piuttosto che perdersi nella divinazione intorno a lettori, pubblico, generazioni e classi sociali.
    Il valore di un opera non è nè commensurabile quantitativamente, nè di conseguenza classificabile in graduatorie, meno che mai se riferite ad un anticonformismo presunto (ancora categoria sociologica)
    Infatti nell’elenco che hai stilato ci sono (autori di) opere di valore e autentiche patacche.

  20. vbinaghi Says:

    Esempio di patacca:

    Mattia Signorini – Sinfonia del tempo breve – Salani 2009, 14 euro
    (Recensione di Valter Binaghi per “Letture”, maggio 2009)

    L’autore quasi trentenne è reduce dal fortunato esordio di Lontano da ogni cosa, un romanzo generazionale il cui successo ha probabilmente imposto all’editore di pubblicare quest’altro libro. Il fatto è che spesso i romanzi generazionali producono per lo più mezzi scrittori e cattivi lettori (che cercano il rispecchiamento narcisistico più che la trascendenza dell’arte), e infatti questo secondo lavoro è imbarazzante: scialbo nella lingua, noioso nella narrazione e nullo nel potenziale evocativo, in una parola, inutile. Un tizio nato da un ex combattente e da un’infermiera trascorre la giovinezza come custode di una magica foresta, ammansisce una belva terribile che si rivela un cagnone obeso, parte per cercare avventure in mare e poi nel commercio, combatte nella seconda guerra mondiale, fa un viaggio in mongolfiera e sposa la figlia di un re del petrolio: morirà in una clinica, dopo aver commosso il medico curante con la storia della sua vita. Scritto col piglio di una favola che vorrebbe essere surreale e sentimentale, esibisce una pretesa di saggezza in filigrana che ammicca a Saint Exupery e all’allegorismo Kafkiano, ma i risultati sono quelli di certa letteratura per l’infanzia di fattura modestamente artigianale, se non fosse per la fellatio di pag. 96 con cui il Signorini si ricorda che il lettore che ne ha decretato il successo precedente è un tardo adolescente, indubbiamente post-pubere. Passare dal diario sentimentale di un ventenne al simbolismo in letteratura è come tentare un trekking sulle Ande dopo aver passeggiato nel giardino di casa. Ci vogliono mezzi espressivi, profondità di pensiero e urgenza morale. Niente di tutto questo, qui.

  21. Lucio Angelini Says:

    Povero Mattia, l’avevo già strapazzato a sufficienza ai tempi di “Away from it all”… *-°

    1) qui

    2) qui

    3) qui

  22. Lucio Angelini Says:

    Eh no!!! In attesa di moderazione pure qui…

    La Lipperinite sta diventando pandemìa.

  23. vibrisse Says:

    Lucio: poiché una caratteristica dello spam è quella di contenere liste di link, quando viene inserito un commento con più di due link il sistema
    – se il commentatore è ignoto, mette automaticamente il commento nello spam;
    – se il commentatore è noto, mette automaticamente il commento in lista d’attesa.
    Qualche giorno fa, ad esempio, è finito in lista d’attesa un commento di Valter Binaghi: per la stessa ragione.

    Ora sistemo il tuo commento perché i link risultino cliccabili con più comodo.

    g.

  24. Lucio Angelini Says:

    Ah be’. Chiedo venia.

  25. Giovanni Cocco Says:

    Lucio, Valter io penso che il difetto più grande di Signorini sia il fatto di essere giovane, bello e di successo. Mi sbaglio? 😉
    Mi ero scordato di Marco Candida nell’intervento precedente anche se, per lui, forse, ci vorrebbe una categoria a parte: i GENI.

  26. Lucio Angelini Says:

    Giovanni Cocco: sorry, siamo agli antipodi. Dissento su tutta la linea dal cocco-pensiero:-/

  27. vbinaghi Says:

    @Cocco
    Il tuo intervento è in perfetta armonia com le tue disquisizioni letterarie.
    Chiacchiere dal parrucchiere di ragazzi che scambiano figurine Panini.
    Se il successo di vendite e la giovinezza garantissero la qualità, Melissa P. sarebbe il nec plus ultra. Ma forse avevi dimenticato di citarla tra gli “autori “generazionali” che ti mandano in brodo di giuggiole…
    Pensa che quando è uscito “Boccalone” io avevo la stessa età dell’autore, e la prima cosa che ho pensato è stata che al posto della mia adolescenza forsennata e nutrita di letture esaltanti mi stavano rimandando indietro quella sgrammaticata e melensa delle lettere a Lotta Continua (cazzo cioè compagni). Una caricatura insomma. Poi ho visto che la cosa è continuata: ogni dieci anni esce almeno un brutto clone di Salinger per insegnare ai giovani come si fa il giovane: Jack Frusciante e compagnia cantante. Questo perchè la pigrizia intellettuale nella società di massa diventa virtù, e anzichè la trascendenza del linguaggio e dell’esperienza si cerca una letteratura che rispecchi la sciatteria del proprio quotidiano.
    Per il narciso di massa l’importante non è conoscere, ma riconoscersi.

  28. Paolo Zardi Says:

    Post che ho letto con sommo piacere.

    Dopo cento pagine di “Prima di sparire”, che pure considero un buon romanzo per la forza della sua disperazione, mi sono chiesto: ok, ma l’autoironia, dov’é? Nel sito che aveva una volta Covacich, e che ora non ha più – addirittura il dominio è libero – c’era la sezione “I libri che avrei voluto scrivere”. C’erano “Pastorale Americana” e “Infinite Jest”. E con questi due, “Prima di sparire” ha diverse cose da spartire: tante, ma di sicuro non la capacità di staccare lo sguardo da se stessi, per guardarsi da fuori. Lui piange ogni volta che vede o pensa Anna; Anna è un monumento alla moglie cornuta e bastonata; Susanna l’emblema dell’amante che scrive sms piene di K e acronimi. Per andare fino in fondo, sarebbe stato necessario riuscire a trovare la risata – quella alla Nabokov: “Il riso, in effetti, mi salvo’. Dopo aver sperimentato tutti i gradi dell’odio e della disperazione, io salii a quell’altezza dalla quale lo sguardo spazia sul ridicolo.” Invece lo sguardo rimane basso, dentro agli occhi di Covacich.

    Dopo duecento pagine, c’era anche il dubbio sull’agiografia. A che gioco stai giocando, Covacich? Ti sei comportato come una merda: dobbiamo dirti bravo per il fatto che lo dici senza scomporti?

    Marco, poiché hai scritto un post che condivido sotto molti aspetti (e che prima di tutto apprezzo per lo stile), e poiché, in un post così breve, hai inserito Philip Roth e soprattutto Martin Amis, meriti il premio di essere letto. Domani compro “Gli imitatori” – ma bada, se trovo tracce di agiografia, o mancanza di autoironia, ritiro tutto quello che ho scritto qui! 😉

  29. Giorgio Di Costanzo (Ischia) Says:

    (“la Repubblica”, 21 agosto 2009, pag. 27)

    «Riporterei i sette volumi
    della Recherche di Proust.
    Basta, non è il mio mondo.
    Farò indignare i puristi
    ma li restituisco volentieri».

    Giancarlo De Cataldo,

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