di Enrico Macioci
[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il nono di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].
Albeggiava. Il fumo saliva dalla città e s’udivano di lontano le sirene. Nel cortile le persone s’aggiravano inquiete, mordendosi le unghie e sussurrando e scuotendo il capo. Un vento fresco spostava grandi nuvole blu nel cielo color malva e muoveva appena i rami del giardino, portando alle narici un commuovente annuncio di primavera. Un riccio sbucò beccheggiando da un cespuglio, disturbato dalla confusione, ed entrò in un altro cespuglio qualche metro in là.
L’uomo basso, robusto e brizzolato vide l’uomo alto, moro e coi baffi scuri uscire dal portone con una borsa piena di panni gettati alla rinfusa in una mano, e il figlio piccolo nell’altra. L’uomo alto e moro s’avvicinò ai condomini del terzo e del quarto piano e posò la borsa sul muro dell’aiuola. Anche l’uomo basso s’avvicinò, con un sospiro. Cercò con lo sguardo il secondo piano e gli parve impossibile che quelle crepe fossero proprio là, sulla pelle di casa sua. Gli vennero le lacrime agli occhi. Nelle ultimissime ore sembrava che le lacrime fossero sempre in agguato. Poi si voltò in direzione della moglie e delle figlie; piangevano, ferme presso l’auto col portabagagli aperto e carico di valigie riempite fino all’orlo; e represse le lacrime.
«Un disastro» gli disse l’uomo alto coi baffi senza guardarlo, quando lui lo raggiunse soprappensiero. Poi l’uomo alto lasciò andare il figlio nelle braccia della moglie, dieci metri oltre, in piedi vicino a una carriola dal cui bordo sbucava un paio di guanti verdi da giardinaggio. Anche gli altri condomini s’allontanarono, sparpagliandosi in direzioni diverse. L’uomo alto ripeté con ostinazione: «Un disastro.»
«Già» confermò l’uomo basso e tarchiato.
Esitarono, indecisi se darsi la mano o addirittura abbracciarsi, dopo tanto tempo. Ma invece si tirarono un po’ indietro. «Un disastro autentico» rincarò l’uomo basso. Davano l’idea di poter continuare a ripeterlo all’infinito.
«Sì.»
«Come state.»
«Come vuoi che stiamo.»
L’uomo basso sentì una fitta di rancore salirgli lungo le membra infreddolite, come attendesse il momento opportuno per venir fuori, in agguato come le lacrime. Non se l’aspettava così presto. «Ehilà.» Strinse la mano a un condomino che avanzava a fatica, trascinando un trolley bordeaux da cui sbucavano calze e scarpe fuori stagione e un paio di collant rosa carne; era un avvocato d’un certo prestigio, ma l’uomo basso non l’aveva riconosciuto subito. L’avvocato strinse la mano anche all’uomo coi baffi, poi passò oltre ansimando nel suo buffo pigiama arancio e nelle sue pantofole gialle in direzione della compagna. La compagna dell’avvocato faceva l’assicuratrice. L’assicuratrice aveva fra i capelli innumerevoli mollette bianche. Emetteva un lamento acuto e continuo, interrotto da pochi secondi di silenzio che le occorrevano per riprendere fiato. Un rivolo di sangue le scendeva dalla fronte dritto in bocca, verticale, ma ciò non le impediva di sgolarsi.
I due uomini rimasero soli, uno di fronte all’altro. L’uomo basso si sforzò di pensare che in un’occasione del genere non poteva serbare rancori. «E l’appartamento come sta?» domandò, quietato.
«Non ho avuto modo di vederlo bene» ribatté evasivo l’uomo coi baffi, sempre fissando in direzione della catastrofe che a poco a poco s’andava chiarendo con l’alzarsi del giorno. «E tu?»
«Io sto bene, tutt’intero.»
«No, non te, lo vedo. L’appartamento, intendevo.»
«Ah, l’appartamento.» Figlio di puttana pensò l’uomo basso coi capelli brizzolati, suo malgrado. Ti piacerebbe sapere come sta l’appartamento, eh? «Non l’ho visto bene neanch’io. Nella furia, tu capisci» si controllò.
«Capisco.» Continuavano a rimanere soli, come se qualche divinità avesse scagliato in terra quell’inferno soltanto per costringerli a riappacificarsi, a smettere d’indossare un distacco peggiore dell’odio. L’uomo coi baffi considerò la possibilità di porgere la mano. Vi rifletté con concentrazione. Le sirene stridevano a intervalli regolari, i vigili del fuoco sfrecciavano sulla strada, suo figlio era in braccio a sua moglie accanto alla carriola coi guanti verdi da giardinaggio sull’orlo, e tutto ciò che gli restava per rendere la tragedia un po’ più sopportabile era tendere la mano che teneva serrata lungo il fianco destro, ferita da una scheggia staccatasi dalla vetrinetta venuta giù in sala.
«E come sta il portico?» domandò in quel mentre l’uomo basso. Si sforzò di conservare un’espressione neutra. Desiderava si capisse che non v’era alcuna ipocrisia, e che tentava nel migliore dei modi di ristabilire un contatto; di ristabilire un contatto a partire proprio da dove i contatti erano andati persi.
L’uomo coi baffi s’irrigidì. Di nuovo guardò verso la città in frantumi, e sollevò la testa verso un elicottero che passava non molto sopra di loro, sollevando scie di polvere e facendo mulinare le cartacce. Si diede il tempo per decodificare la richiesta dell’uomo basso e tarchiato con quei capelli tenuti su di cui andava ridicolmente fiero, e decise infine di ritenersi offeso. «Il gazebo sta benissimo» rispose secco, impallidendo. Non credeva di poter impallidire ancora dopo quel ch’era accaduto, ma sentì le proprie guance stingersi in un biancore bruciante.
«Benissimo» fece eco l’uomo basso.
«Benissimo» ribadì l’uomo alto.
«No, volevo dire: bene, benissimo che stia benissimo» si disimpegnò l’uomo basso.
«Certamente.»
L’uomo alto non pronunciava più di una parola per frase, ora, e l’uomo basso si rese conto d’averlo urtato. La fitta di rancore tornò a morderlo. Povero stupido d’un mentecatto ebreo. Mentecatto d’un ebreo idiota e azzeccagarbugli figlio di puttana pensò. Fece uno sforzo su di sé per informarsi con calma: «E’ tutto ancora in piedi? Colonna per colonna e tegola per tegola, voglio dire?»
«Colonna per colonna e tegola per tegola.» L’uomo alto non riusciva a smettere d’impallidire, e sul pallore i baffi neri spiccavano come punti esclamativi disegnati in orizzontale da un robusto pennarello.
L’uomo basso si lasciò trascinare dall’istinto. Non sapeva dove stava andando a parare, ma continuò: «Quindi l’hai visto.»
«Cosa.»
«Il portico.»
«E’ un gazebo.»
«Quello che è.»
«E’ un gazebo.»
«L’hai visto.»
«Sì.»
«Sei uscito, per vederlo.»
«Per vederlo, sono dovuto uscire. O no?»
«Sì.»
«Appunto.»
«Nonostante la paura.»
«Ti dispiace?»
«Perché diamine dovrebbe dispiacermi se sei uscito a controllare il tuo portico?»
«Ti dispiace che sia rimasto in piedi, intendevo.»
«Non intendevo questo.»
«Sì invece. Ed è un gazebo, non un portico.»
«No.»
«Ti dispiace. Ti si legge in faccia. Ti si drizzano i capelli.»
«Non è un gazebo.»
L’uomo alto guardò l’uomo basso dall’alto in basso.
«Stavo dicendo che non è affatto un gazebo, ma un portico bell’e buono» disse l’uomo basso.
«Vatti a leggere i tabulati e l’approvazione dell’assemblea condominiale. C’è anche la tua firma.» Si leccò le labbra, inumidendo i baffi. «La tua firma» ripeté in un soffio ostile.
Il rancore fluì più ingombrante nelle vene dell’uomo basso. «Non ho bisogno di leggere i tabulati. Mi basta guardare. So distinguere un portico da un gazebo.»
«Sai distinguere la tua firma?» soffiò l’uomo alto.
«Certamente, come so pur sempre distinguere un ipocrita imbroglione da una persona onesta.»
Il pallore sul volto dell’uomo alto divenne abbagliante. «Cosa vorresti dire?»
«Ciò che non t’ho detto nelle riunioni successive alla riunione cui ti riferivi, dato che non ti sei mai presentato.» L’uomo basso, ch’era già di corporatura robusta, gonfiò il petto sin quasi a esplodere.
Saettarono fuori dal cancello due auto della polizia coi lampeggianti accesi, e un camion della protezione civile produsse un frastuono che creò il panico nella gente, sparsa sul piazzale come un gregge di pecore abbandonato dal pastore. S’udirono urla di bambini e rassicurazioni di madri in pena. Un cane randagio dal pelo sporco tremava accucciato ai piedi delle tuie, la lingua fuori e gli occhi che brillavano.
«Stavo male. O non c’ero» spiegò l’uomo alto.
«Balle. Stavi sotto il tuo nuovo portico abusivo, a preparare una delle tue stupide arrostate oppure a ingozzarti di birra.»
L’uomo alto s’era talmente irrigidito che adesso muoveva solo le labbra. «Stavo male oppure non c’ero, e il gazebo invece c’è e sta benissimo. Devi accettarlo. Devi fartene una ragione. Ha retto. Ha resistito. E’ così.»
«Non credo sia così. Non credo tu abbia avuto il fegato d’uscire a vedere come sta il tuo portico.»
«Se io abbia o non abbia avuto il coraggio di controllare il mio gazebo, tu non lo saprai mai. Rassegnati a questo fatto. Devi accettarlo e rassegnarti.» L’uomo alto s’era tramutato in una statua di marmo. Una statua di marmo coi baffi.
«Bene» replicò l’uomo basso e tarchiato, sentendo che non sarebbe riuscito ancora per molto a trattenere la furia. Ebreo mentecatto pensò. Povero ebreo mentecatto d’un ipocrita. Goditelo adesso, il tuo portico crollato coi tuoi stupidi boccali in fila e gli stupidi vasi di fiori di quella stupida di tua moglie.
«Bene» ripeté l’uomo alto. Adesso, nemmeno per una miniera d’oro avrebbe dato la mano all’uomo basso, col suo patetico taglio a spazzola. Avrebbe preferito che il palazzo intero fosse venuto giù, con tutti loro sepolti nelle macerie, moglie e figlio inclusi, piuttosto che cedere. Con gente del genere, l’indifferenza è la cosa migliore pensò procurandosi un’istantanea soddisfazione, e sperando che il gazebo avesse retto. Darei un terzo dell’appartamento per quel gazebo sano, dannazione ragionò poi, livido. Mi taglierei persino i baffi pur di averlo ancora sano. Mi taglierei un dito. Tutto. Bello. In. Piedi. Si riebbe d’improvviso. «Adesso devo andare» annunciò all’uomo basso, girandosi verso la moglie e il figlio; entrambi l’osservavano cupi, seduti accanto alla borsa che lui aveva poggiato sul muretto; la carriola se ne stava malinconica col paio di guanti verdi da giardinaggio occhieggianti dall’orlo e la ruggine a divorarle la pancia, alcuni metri più giù.
«Anch’io devo andare» rispose l’uomo basso, petto in fuori.
Non si strinsero la mano e, dopo un ultimo indugio, s’allontanarono in direzioni opposte, con l’atteggiamento di chi ha compiuto il proprio dovere a dispetto delle circostanze. Sul piazzale, che tremava ogni pochi minuti, la luce del sole iniziava a cadere, nell’angolo dov’erano piantate le rose.
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