di Enrico Macioci
[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il quinto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf. I successivi cinque “Racconti del terremoto” usciranno in vibrisse la settimana prossima, da lunedì a venerdì.].
Erano le sette di mattina del terzo giorno di ricerche. La luce primaverile si spandeva serena ma fredda, tracimando dai monti nella vallata verde e umida. Alcuni banchi di nebbia si trattenevano nelle doline e in fondo alle cave. Ovunque, persino accanto ai mandorli in sboccio e alle ginestre, si respirava il cataclisma, e la città somigliava a un grande animale preso in una tagliola.
Il soccorritore vide il vecchio superata l’ultima curva di Viale Duca degli Abruzzi, prima del ponte. Subito affrettò il passo, d’intesa col cuore che accelerava. Ogni volta che s’imbatteva in un sopravvissuto l’invadeva una gioia speciale, ogni volta daccapo, benché ne avessero trovati tanti. Non riusciva ad abituarsi a questa gioia così speciale. Il soccorritore non si riteneva affatto un uomo particolarmente buono o particolarmente generoso. Era il lavoro che faceva a renderlo sensibile alle gioie speciali. Anche se, forse, sarebbe stato disposto ad ammettere che nessuno fa un certo tipo di lavoro per caso.
Il vecchio aveva lunghi capelli bianchi, e se ne stava in piedi a metà ponte coi gomiti poggiati sulla balaustra, un po’ curvo, in contemplazione del panorama. Era immobile. Nemmeno quando il soccorritore arrivò a due metri di distanza si voltò. «Ehi lei, signore» disse il soccorritore con un po’ d’affanno, e allora il vecchio si voltò.
Stava piangendo. Non era molto alto ma robusto; portava una barba folta e bianca a incorniciargli un viso cotto, e una pesante maglia marrone scuro, e pantaloni scuciti, da lavoro, e scarpe grosse e sporche di fango. A giudicare dalla pelle e dalle scarpe doveva trattarsi d’un contadino. Sulla guancia gli correva un taglio fresco, obliquamente, dallo zigomo sinistro verso il labbro superiore, in mezzo alla barba. I suoi occhi erano d’un azzurro carico, simile a tintura appena versata. Piangeva.
«Signore» ripeté il soccorritore. «Si sente bene?»
«Bene» replicò il vecchio a bassa voce, asciugandosi le lacrime con mani enormi. «Vada pure, io sto bene.»
«No. Deve venire via con me. Non può rimanere qua.»
«Perché?» Il vecchio dava idea d’esserselo aspettato.
«Perché è pericoloso.»
«Oh.» Il vecchio tacque.
«Dove abita?» domandò il soccorritore, a disagio. La gioia andava sbiadendo. Quel vecchio gli metteva addosso una tristezza speciale almeno quanto la gioia d’averlo trovato.
«Dove abito» ripeté il vecchio, gli occhi azzurri persi in qualche visione.
«Già.»
«Dove abitavo, vuole dire.»
Il soccorritore arrossì. Non s’impara mai abbastanza a parlare con la gente, in certe circostanze. «Esattamente. Mi scusi.»
Il vecchio indicò con un gesto pacato alla propria destra, sotto il ponte. Il soccorritore guardò e non vide che un mucchio di macerie da cui sbucavano grondaie, panni, scarpe, vasi, coperte, fornelli, ringhiere, un pianoforte, libri, tavoli, sedie, mensole, giocattoli, lampade, stoviglie, piante, televisori, due lavandini, una Fiat Punto rossa, una Opel Vectra beige, un bancone, alcuni sgabelli, l’insegna di un bar e tre lampioni coricati. Ovunque sporgevano fili e sbarre di metallo.
«Capisco» disse il soccorritore. Poi fece la domanda successiva. Stavolta ponderò bene, ma era una domanda che andava fatta. «E i suoi familiari?»
«I miei familiari» ripeté il vecchio, trascinandosi appresso quello sconforto.
Il soccorritore ebbe un moto di stizza. “Vecchiaccio della malora” pensò. “Sono più di due giorni che mando giù panini di cemento e caffé al cianuro e pasticche per restare sveglio. Vecchiaccio del malaugurio.” «I suoi familiari» ribadì a voce alta.
Il vecchio tacque alcuni istanti, poi: «Mia moglie era i miei familiari. L’hanno ritrovata laggiù ieri pomeriggio, alle sei.» Indicò il mucchio di macerie. «C’era il sole, ma tirava vento, tant’è che le si muoveva l’orlo della vestaglia attorno alle braccia. La vestaglia color lilla, con la cinta di spugna e la tasca sul cuore. Le braccia erano sane. Aveva tutt’e due le gambe fracassate dall’armadio della camera da letto, e la fronte sfasciata da un’anta. Aveva sulla fronte uno spacco e dallo spacco usciva una sostanza grigia. L’ho toccata. Era appiccicosa e sembrava colla. Una marea di colla. Ho riflettuto che si trattava della sostanza con cui mia moglie mi ha pensato per tutta la vita, nel bene e nel male. Quando mi pensava, io passavo dentro quella sostanza appiccicosa. Non mi sono lavato la mano.» Il vecchio sollevò e aprì il vasto palmo destro, pieno di macchie e incrostazioni. Poi soggiunse: «Non abbiamo mai avuto figli.» Quindi riabbassò il palmo e ficcò gli occhi in un luogo fiabesco.
«Mi spiace» disse in fretta il soccorritore.
«No, che non le dispiace. E non è colpa sua. Anche lei prima o dopo avrà di che dispiacersi. Si tenga le scorte per quando dovrà dispiacersi davvero.»
«Mi spiace invece» ribadì il soccorritore.
«Non abbiamo avuto figli, e io non ho mai avuto fratelli né sorelle, e mia moglie aveva la fronte aperta, e adesso io non ho più mia moglie che si trova all’obitorio dove spero le abbiano pulito la fronte da quella sostanza grigia. Non ho più nessuno.» Il vecchio allargò le braccia con le mani volte verso l’alto, simili a piatti per le offerte.
«Ci sono io. Venga con me» offrì il soccorritore, sentendosi stupido e patetico e arrabbiato. La sua gioia speciale col vecchio non funzionava, e ciò lo faceva arrabbiare.
«Voglio restare qui» rispose il vecchio con umiliante semplicità, rimettendo i gomiti sulla balaustra e puntando lo sguardo verso la collina di Roio. I suoi capelli lucevano come neve nel mattino. La pineta di Roio in ombra, irta e selvatica, era velluto scuro. Ogni tanto la pineta s’apriva in qualche prato color smeraldo, in qualche radura pizzicata di fiori radi. Esalava odore di resina e non pareva dispiacersi. Su di essa l’antenna parabolica lampeggiava monotona nell’involucro dei primi raggi. Giù, in Via XX Settembre, il traffico dei camion e delle ambulanze cominciava a infittirsi, il clamore ad alzarsi nell’aria pungente.
«Non può restare qui» insisté il soccorritore, sforzandosi di mantenere un tono autoritario.
«Perché?» Non si capiva se il vecchio fosse confuso o se lo facesse apposta.
«Perché è pericoloso.»
«Oh.»
Il soccorritore si decise a interrogare il vecchio, nonostante un’indicibile malinconia l’avesse colto in pieno petto, togliendogli le forze che durante i primi due giorni l’avevano sostenuto in nome della causa comune. Ma gl’interessava davvero la causa comune? O quell’interesse nascondeva soltanto il bisogno primario di portare a casa un po’ di soldi e un altro bisogno, più nascosto ma persino più caparbio, di sentirsi importante, d’adulare la propria vanità? «Non ha intenzione di buttarsi giù dal ponte, vero?» chiese al vecchio.
«I miei familiari erano mia moglie. Non ho fratelli né sorelle. Mia moglie aveva le gambe tutt’e due spezzate dall’armadio della nostra camera da letto, che non c’è più. Non abbiamo mai avuto figli. Ho ottantasette anni. Lei ne aveva ottantacinque. Eravamo felici. Aveva la fronte spaccata come un melone. Dallo spacco usciva una melma grigia e densa. In questa melma grigia e densa c’ero anch’io. Non so se stavo anche da qualche altra parte, e se ci sto ancora. Io ci spero, ma non lo so.»
«Stia a sentire. Mi hanno informato che da questo ponte molta gente, nel corso del tempo, si è uccisa.» Il soccorritore non sapeva come altro esprimersi. Guardò giù. Il ponte era vertiginoso. Gli girava un po’ la testa. «Non lo faccia. Venga con me. Non mi costringa a prenderla con la forza.» Ma le sue parole suonavano false e meschine. E pensava che se il vecchio gli avesse messo quelle mani da strangolatore addosso gli avrebbe fatto parecchio male.
«Lei non è dell’Aquila, vero?» controbatté il vecchio, tranquillissimo.
«No.»
«Si capisce subito. Dall’accento, vede. Ma anche da parecchie altre cose. Un sacco di altre cose.» Fece una pausa, lisciandosi la barba con pollice e indice destri. «E di dov’è?»
«Di Pisa.»
«Di Pisa. Bene. Una volta ci sono stato, a Pisa. Un sacco di tempo fa. Andai sulla torre. Quella che pende, intesi. Con mia moglie. Non c’era il parapetto e la torre pendeva ma avevo più paura io di lei. Mia moglie era coraggiosa, altrochè. La torre pendeva e ridemmo e corremmo ma io avevo più paura di lei.» Pausa. «Se ne torni a Pisa e la smetta di rompermi l’anima. Io non voglio suicidarmi. Voglio starmene un po’ qui da solo in santa pace a guardare Roio e la mia città. La mia povera città.»
Il soccorritore fece un passo avanti. «Su, venga.»
«Crede che non desiderassimo figli? Ma ci siamo voluti bene lo stesso, e la nostra casa stava laggiù, e ci abbiamo vissuto per più di cinquant’anni prima che ci crollasse addosso, travi, mattoni e tutto il resto, e di mia moglie non mi resta che questa chiazza sulla mano, che le è uscita dalla fronte e non pensavo mai che potesse uscirle una cosa del genere dalla fronte. Dei suoi sentimenti non mi resta che questa chiazza, per quel che ne so. Poi ci sono i ricordi, naturalmente. Ma per quelli è presto. Se uno si mette a ricordare adesso, muore. E io non voglio morire. Voglio guardare ciò che avanza della mia città.»
Il soccorritore esitava. Sentiva mancargli le forze. Ricevette dalla radio il segnale d’emergenza. Fu una liberazione. Da Via XX Settembre il tumulto saliva sempre più forte. Urla, fumo, scavatrici. Tentò un’ultima volta: «Andiamo. Venga via con me. Dopo starà meglio. Le ripeto che mi spiace molto per ciò che le è accaduto, ma lei non è l’unico ad avere subìto lutti, ad aver perso casa. Si riunisca ai suoi concittadini e starà meglio.»
«Sa come si chiama questo ponte?» domandò il vecchio, sempre fisso di profilo verso il colle di Roio, gli occhi azzurri impenetrabili e ora quasi trasparenti nella luce tersa, una luce come la carezza di una madre.
«No.»
«Belvedere. Si chiama ponte del Belvedere. Altro che suicidi. Guardi com’è bello. Guardi com’era bella, la mia città.» E ricominciò a piangere con dignità, in silenzio e lentamente, le mani smisurate sulle guance.
«Io devo andare. Manderò su qualcuno, se mi promette che non si butta» concluse il soccorritore in grave imbarazzo. Non pensava più che il lavoro che faceva lo rendesse sensibile all’esistenza altrui. Anzi per la prima volta detestò il proprio lavoro, il che, intuì, poteva essere un modo elegante per nascondere il fatto che detestava il vecchio in lacrime coi capelli e la barba bianchi e gli occhi azzurri.
«Non abbiamo avuto figli, ma lei non ha mai smesso d’amarmi, né io d’amare lei» ricominciò il vecchio. «E adesso di lei non mi resta che una macchia sulla mano, e il ricordo delle sue gambe a pezzi sotto l’armadio dove tenevamo i vestiti e i pochi gioielli di famiglia e i fazzoletti di batista e il panno di nozze con le finiture rosse e i merletti e le nostre cose più care, e poi ancora il ricordo della sua fronte spaccata da cui veniva fuori quella cosa grigia. Allora mi dica: non è comunque bellissima la vista da quassù? Non era bellissima la mia città?»
Il soccorritore proseguì, oltrepassando il vecchio. Percorse il ponte senza mai voltarsi, prese deciso giù per Via Persichetti e non osò distogliere lo sguardo dall’asfalto della strada finché non fu sicuro che il vecchio non fosse più visibile. Non appena il ponte fu coperto da un palazzo il soccorritore si fermò a riprendere fiato, piegato in due con le mani sulle ginocchia. Lo sguardo gli cadde sulla minuscola pantofola azzurra d’un bambino, rovesciata sul lato sinistro, a galla dentro una pozzanghera. Il soccorritore si rialzò e scese fin su Via XX Settembre di buon passo, senza pensare a niente. L’aria fresca gli dava refrigerio e gli sembrava, pur avvicinandosi al fragore, d’essere fuggito da un incubo e di respirare meglio. In Via XX Settembre s’imbatté quasi subito nel capo.
«Tutto a posto? Sei pallido come un cencio» questi l’interpellò brusco.
«C’è un vecchio lassù, sul ponte» ribatté il soccorritore. «Non vuole venire. Non sono riuscito a convincerlo.»
«Perché non l’hai costretto con la forza? Il ponte potrebbe essere pericolante!» Il capo tendeva a perdere subito la pazienza.
«Non ha più casa» spiegò il soccorritore. «Non ha figli né fratelli né sorelle. La moglie l’hanno ritrovata ieri. Aveva tutt’e due le gambe sfasciate e la fronte aperta a metà. Dalla fronte veniva fuori una sostanza grigia. Colpa dell’armadio.»
Il capo squadrò il soccorritore con espressione disgustata. «Vatti a fare un bagno e ficcati a letto per un paio d’ore. E non farti vedere nei dintorni fino a domani.» Poi urlò ad altri tre soccorritori nei pressi: «Ehi voi! Andate in cima al ponte, svelti! C’è un vecchio che non vuole scendere! Fate presto perdinci! Manca solamente che si getti e ci caschi in testa!»
I tre soccorritori scattarono.
Il soccorritore che aveva parlato col vecchio salutò il capo senza ottenere risposta, e se ne andò. Una malinconia fino ad allora ignota l’opprimeva, togliendo senso ai suoi ideali, deformandoli in una nebbia opaca. “Dov’è la mia bontà, se c’è?”, si domandava in questa nebbia. “E dove sono, e chi sono io?”, si domandava. “Chi sono, e perché sono?”
Quando fu abbastanza lontano dal capo scoppiò a piangere.
Tag: Enrico Macioci
31 luglio 2009 alle 07:19
Enrico narri queste storie facendoci vivere in parte anche a noi lettori il disaggio,lo scompiglio che avete duvuto far fronte.Complimenti
1 agosto 2009 alle 07:29
Enrico il modo in cui fai rivivere quei momenti sono reali.