Tirare nel traffico

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Il numero 8 in palleggio è un giovanissimo Drazen Petrovic (1964-1993), all'epoca diciassettenne, sotto lo sguardo preoccupato di suo fratello Aleksandar.

Il numero 8 in palleggio è un giovanissimo Drazen Petrovic (1964-1993), all'epoca diciassettenne, sotto lo sguardo preoccupato di suo fratello Aleksandar.

di Giorgio Falco

[Questo articolo di Giorgio Falco è apparso in Repubblica ieri 29 luglio 2009].

Immaginate di essere il regista di una squadra di basket. Avete ventiquattro secondi a disposizione e la palla tra le mani. Partite dalla vostra metà campo, palleggiate zigzagando per evitare la pressione del difensore avversario. Usate una parte del gomito, della spalla e dell’anca per proteggere il pallone, mentre palleggiate con l’altra mano. Il palleggio è una danza fluida, discreta, come quella del difensore, che segue i vostri cambi di direzione.

Il pallone rimbomba sul parquet. Tum, tu tum, tu tu tum, tum. C’è un leggero sfasamento nella scansione. Se foste soli nel palazzo dello sport, sarebbe qualcosa di simile al vostro respiro moltiplicato, ingigantito dall’eco di qualcosa che giunge a voi un istante dopo il gesto, come un’aritmia. Le luci cadono bianche dal soffitto, appese lontane, incongrue nella loro lenta scivolata, e al posto di illuminare la scena potrebbero banalizzare la vostra azione, tramutando il palleggio in un espletamento burocratico, o peggio, in un virtuosismo sterile. Ma voi non siete soli nel palazzo dello sport. Ci sono i vostri compagni di squadra, gli avversari e quelli in panchina, che vi scherniscono ironici; le linee delimitano il campo e vi educano a un uso consapevole del terreno; gli arbitri vi fissano accigliati, i fischietti in bocca, pronti a gonfiare le guance; gli spettatori fischiano compatti, un unico suono attraversato dal vostro palleggio sempre più intimo, lo sentite solo voi, il palleggio è un respiro lieve, sfregiato dai rumori continui delle suole, che cercano un assestamento nel terreno. Quanti secondi, ancora?

Chiamate lo schema. Cinque! urlate, e sollevate il braccio in alto, aprite le dita della mano per comunicare il tipo di gioco perché i vostri compagni, assordati dai fischi, potrebbero non sentirvi. L’avete provato centinaia di volte. Cinque! urlavate, sembravate proprio voi durante l’allenamento, la vostra voce abituale, enfatizzata dal vuoto che vi circondava. Cinque! urlavate, soprattutto a voi stessi, eppure i vostri compagni sapevano esattamente cosa fare: si spostavano vicino alla linea del tiro libero o alla linea di fondo e ricevevano la palla che voi passavate puntualmente, con una leggera rotazione delle dita. Come viaggiava bene la palla dello schema numero cinque durante l’allenamento! Un tragitto deciso, che alimentava la fiducia in voi stessi. Finita l’azione, magari con una schiacciata, guardavate le tribune cimiteriali, vi ricordavano che erano le cinque di pomeriggio, un allenamento qualsiasi, irripetibile.

Adesso, durante la partita, tutto è ostile intorno, nonostante i vostri compagni inizino movimenti, blocchi, tagli e finte per smarcarsi o liberare un altro giocatore. I difensori avversari sono veloci, vanificano le azioni senza palla dei vostri compagni di squadra. Mettono le astuzie dei corpi, le ginocchia, i gomiti, allungano le braccia e anticipano la linea immaginaria del vostro passaggio che tarda. Pompate il pallone, il tempo nel cronometro sopra il tabellone, l’unico tempo che sentite in questo istante, racchiude ogni vostra esperienza e annulla l’orizzontalità temporale: il cane investito quando avevate sette anni o quella mattina in cui avete mangiato le ciliegie a cavalcioni dell’albero e vi siete macchiati la maglietta. Quanti secondi, ancora? Abbastanza, un’eternità. Portate il difensore verso l’arco del tiro da tre punti. Vi passate la palla dalla mano destra alla mano sinistra, sinistra destra, destra sinistra. Il difensore ha i piedi paralleli, è molto vicino, vuole evitare il vostro tiro: è il momento propizio. La pena che avete vissuto finora è solo la prima parte della vostra esitazione. Inizia la seconda parte. Gli americani del basket dicono hesitation. Una finta, di testa, di spalle, di gambe, con ogni millimetro del vostro corpo. Simulate di andare nella direzione che non prenderete mai.

Il difensore, ingolosito dalla possibilità di rubarvi il pallone, è troppo vicino, voi ne approfittate, andate verso canestro con un palleggio deciso e vi staccate da terra dopo tre passi, o prima. Per evitare che il tiro sia comodo, un altro difensore, più alto del precedente, disturba la vostra azione. Dovete stare in aria, un movimento rarefatto, un rallentamento accelerato, frammentato, dilatato, che rende meno nitida l’azione, la deforma, la rende differente da ciò che si guarda: una visione. L’hesitation confonde anche l’altro difensore, e sebbene sia più alto di voi, più forte di voi, sebbene vi faccia anche po’ paura (“il metodo di lavoro che sembra funzionare meglio è andare nel paesaggio che ti fa più paura e fotografare fino a che non sei più intimorito”, dice il fotografo Robert Adams) dovete entrare, sollevati da terra, decisi, pronti al contatto fisico, alla caduta, anche a ciò che di solito è considerato un fallimento. Shooting in traffic. Tirare nel traffico, in mezzo all’azione, nel caos del presente.

In fondo, anche il nuovo difensore ha qualche timore, deve bloccarvi, meglio senza fallo. Ha lasciato libero un vostro compagno di squadra per ostacolarvi mentre andate a canestro. Siete in alto, sospesi dalle leggi di gravità che vi vorrebbero inchiodare a terra, le braccia dell’avversario protese verso di voi, le orecchie ovattate da tutti i colori che vi flashano intorno, assieme all’assedio dei suoni. Poco prima di tornare al suolo, passate il pallone al vostro compagno di squadra, ora è libero, e segna. Atterrate un po’ stanchi, avete costruito un’azione, forse potevate finalizzarla voi, prendervi la gloria delle statistiche, delle classifiche, ma nel momento di segnare e alimentare il vostro ego, avete ceduto la palla a un altro. Avete fatto bene. Non serve dimostrare sempre quanto siate bravi, sensibili, intelligenti e colti con il pallone tra le mani. E poi, senza lo schema iniziale di riferimento, il cinque urlato al mondo – non tanto pochi secondi fa – quanto in un grigio pomeriggio, chiusi dentro una palestra anonima; senza l’azione silenziosa, lontana dal pallone, dei vostri compagni; senza la debolezza e il talento dei difensori avversari, non avreste creato niente. Cosa sarebbe la Madonna di un quadro, priva di un cane ai bordi della tela? Una fotografia, scriveva John Szarkowski, comincia sempre dai margini. Non esiste una centralità, la dittatura di una singola storia sul resto. Questa è stata, finora, la mia scrittura. L’unica cosa che sento necessaria è l’armonia, la crescita organica complessiva di tutti gli elementi, di un’azione di basket come di un’opera. In modo che sorprenda anche me stesso, dimostrando ancora una volta l’ambivalenza dell’opera: la nitidezza, “perché l’immagine è più chiara della vita” dice ancora Robert Adams; e l’inesplicabilità, qualcosa di misterioso, anche dopo averla rivista cento volte. Altrimenti stiamo solo passando un po’ di tempo. Oh, va bene, siamo nati anche per questo. Allora perché un libro e non i pomodori dell’orto, le palline da tennis, le paperelle del parco?

La vostra esitazione è solo l’inizio della storia. Il cronometro riparte. Vedete l’azione da un altro punto di vista. Difendete ciò che avete costruito mentre il regista avversario avanza. Avete una vaga idea di ciò che sta per fare. Indietreggiate dando la schiena al vostro canestro, pronti a schivare l’eventuale blocco di un altro attaccante. Avete la consapevolezza del vostro posto nel mondo. Siete forti, e fragili: non vi siete mai sentiti meglio.

Una fotografia di John Szarkowski.

Una fotografia di John Szarkowski.

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10 Risposte to “Tirare nel traffico”

  1. dario Says:

    bello, grazie… ritrovo la passione per il basket già dichiarata a “fahrenheit”… a proposito dei margini dell’inquadratura, mi fa pensare a quanto leggevo poche settimana fa: il desiderio, da parte di Rilke, di identificarsi con l’ombra di un frutto dipinto sul bordo di una madonna di van eyck… (“il testamento”)
    e poi alla soglia di pietra che fa da base a molti ritratti rinascimentali…

  2. Flavio Says:

    Un tocco di classe.

  3. cletus Says:

    mi piace il paragone finale, con la scrittura. A conferma che per ognuno è un distillato di canoni, rielaborati, nutriti da tutte le esperienze che ha fatto e che concorre alla definizione di uno stile. Quello di Falco mi piace.

  4. andrea barbieri Says:

    Uhm.
    “In aria, il giocatore [M. Jordan] ha quella che gli americani chiamano hesitation, esitazione. Esitazione non è incertezza, è un movimento rallentato che, paradossalmente, rende meno nitida l’azione, la deforma, la fa diventare altro, una rigenerazione dello sguardo.” [da: Tutte le strade portano al Fucino, di Giorgio Falco, su Il primo amore]

    Mentre in questo testo:
    “Gli americani del basket dicono hesitation. Una finta, di testa, di spalle, di gambe, con ogni millimetro del vostro corpo. Simulate di andare nella direzione che non prenderete mai.”

    Insomma, una “finta” è fatta di segnali del corpo in contrasto con ciò che si ha intenziona di fare.
    Una “hesitation” è fatta rallentando il tempo del movimento in modo inaspettato per il difensore. Si rallenta il tempo del palleggio, del tiro, il difensore resta spiazzato e questo dà il vantaggio necessario per concludere l’azione. Quindi, secondo me, nel tuo articolo precedente l’hesitation era definita in modo perfetto, mentre qui non si capisce bene qual è la sua peculiarità rispetto a una finta.

    ps1
    Ora mi tornano in mente anche il “gancio cielo” e “l’arcobaleno”, due movimenti calmi, solenni, bellissimi. Lì i giocatori non esitavano, erano proprio padroni del tempo.

    ps2
    Ovvia la commozione nel rivedere la foto dello sfortunato e grandissimo Drazen Petrovic.

  5. Bandini Says:

    Un articolo bellissimo.

  6. Gianmarco Pozzecco Says:

    Bello, ma c’è una piccola contraddizione. “Non serve dimostrare sempre quanto siate bravi, sensibili, intelligenti e colti con il pallone tra le mani”: ma è esattamente con un assist che un “regista” nel basket dimostra tutte queste cose.

  7. Toni La Malfa Says:

    Grande. non posso aggiungere altro

  8. Alberto Says:

    Fantastico… stavo giusto preparando una relazione di estetica sull’argomento!

  9. andrea barbieri Says:

    Ustia, un saluto a Gianmarco Pozzecco.
    Qui brevemente la sua vita:
    http://it.wikipedia.org/wiki/Gianmarco_Pozzecco

  10. vibrisse Says:

    Pozzecco, cosa fai quando vieni scaricato? gm

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