di Enrico Macioci
[Enrico Macioci abita a L’Aquila. Attualmente è ospite di parenti nella Marsica. Questo racconto è il quarto di una serie di dieci. Se vuoi, puoi prelevare il testo in pdf].
La prima visione l’aveva avuta d’estate, al castello cinquecentesco, meglio noto come Forte Spagnolo. Era un bambino di otto, forse dieci anni. Più otto che dieci. Forse nove. Credeva che da grande sarebbe diventato un calciatore, ma ancora, credendolo, non lo credeva sul serio, cioè non lo credeva con le aspettative che stanno dietro al credere adulto.
Era uno di quei pomeriggi estivi infiniti, che quando muoiono ti lasciano dentro un sapore di sconfitta. Ecco perché era così piccolo, e non poteva ancora avere dieci anni. Percepiva un sapore di sconfitta insopportabile quando il sole veniva giù, alla fin fine, e il Corno Grande non era più rosa, e Pizzo Cefalone diventava lilla, e i boschi sotto Pizzo Cefalone turchini, e a valle si spandeva una spuma già mezza notturna d’umidità e penombra e falene a frotte. Quando i lampioni della passeggiata torno torno al castello sbocciavano, orlando d’arancio le ragnatele appese ai fari, e uscivano le falene da qualche parte, a frotte, tutto quel velluto polveroso di falene all’improvviso a solcare l’aria violacea, a frotte con un rumore di lenzuola appena sfiorate, e qualche madre cominciava a richiamarli, «A casa! A cena!» cominciavano a gridare le madri nella sera estiva traditrice, ma non sua madre, lui doveva tornare a casa con Pietro e la madre di Pietro, poiché sua madre rientrava tardi dal lavoro ed era stanca per andarlo a prendere, e a un certo punto Pietro sentiva la voce della propria madre e faceva quel segno con la testa, senza appello, che significava: è ora. Un’altra giornata è finita. Bisogna andare via. Via dal castello e dalle falene a frotte.
Il parco del castello al tramonto era magnifico, libero dalla stretta del giorno era un magnifico parco oscuro. I pini si rizzavano cupi, fondendo in un’unica pozza le ombre via via meno sottili al fluire della calura meridiana. Il tappeto d’aghi si spegneva mormorando, ed era come se gettassero acqua fredda sopra miriadi di braci ancora vive. La fontana versava il solito getto ma faceva più rumore, molto più che di giorno. Le altalene si quietavano, guadagnando qualcosa di macabro, fisse in linee verticali e orizzontali, maligne geometrie che parevano guardarti. La gente iniziava a diradarsi e le coppiette ad aumentare, benché le cose strane che lui qualche volta s’era azzardato a spiare senza capirci niente avvenissero molto più tardi, a notte inoltrata. Gli amici facevano meno confusione, erano meno sudati e con meno tagli e ferite e coi capelli a ciocche oramai rigide, e parevano più saggi. In realtà, erano solamente più tristi. A parte qualche eccezione, come il tipo obeso che abitava a Piazza Sant’Elisabetta e non vedeva l’ora di cenare e di cui adesso (adesso nella visione? Allora nella visione?) non rammentava il nome, erano tutti un po’ tristi che la giornata fosse finita. Ognuno lo manifestava a modo proprio. C’era chi se ne stava muto, come Luigi. Chi sputava, come Giorgio, a ogni piè sospinto. Chi masticava qualche parolaccia, come Marco. Chi si metteva a parlare di fantasmi e mostruose creature, come Giuseppe. Chi impennava con la bicicletta vicino al campo giochi, che il guardiano s’apprestava a chiudere fischiettando, la pelata pallida simile a una goccia di neon nel crepuscolo azzurrato. Le bambine tormentavano le capigliature delle bambole oppure chiacchieravano vicine, fitto fitto, tramutandosi in piccole donne. Tutto diventava più anziano e più severo. Tutto andava perduto un po’ di più.
La visione fu poco prima di ciò, del calar del sole e delle falene e della tristezza e del resto, una sera di luglio, o forse agosto (ma non oltre Ferragosto), davanti al ponte levatoio all’ingresso del Forte Spagnolo. Lui e Pietro stavano sul ponte, appoggiati in piedi alla balaustra di ferro battuto a godersi il meritato riposo, e contemplavano giù nel fosso l’erba arsa dall’estate, e ogni tanto sollevavano lo sguardo su uno dei bastioni ancora spartito da un raggio, con le feritoie nere e la pietra radente al sole in un tocco fugace. E poi lui guardò d’istinto più su, al di sopra del portone e dello stemma imperiale di Carlo V e dell’aquila dalla doppia testa ad ali aperte e vide che la parte sotto il tetto non c’era più, c’era una buca frastagliata e il tetto d’assi in legno e tegole scivolato in avanti e quasi caduto, e sempre d’istinto guardò giù nel fosso e vide ai piedi del castello le macerie, mucchi bianchi di macerie, grandi e dolorosi, e fu invaso dal terrore, e cercò d’alleviare il terrore pensando che doveva trattarsi d’una visione protesa in un futuro molto remoto, fra mille o duemila anni, perché il castello era invincibile; ma in quel momento piombò nella visione la madre di Pietro, e non era venuta semplicemente per richiamarli a cena, non questa volta, ed era in vestaglia, già in vestaglia prima di cena, e urlava, urlava forte, ruggiva pur lamentandosi, e correva col volto fra le mani, in un modo inverosimile, e non si capiva come facesse a non inciampare correndo con le mani sul volto né come facesse a ruggire nei lamenti, a lamentarsi nei ruggiti, e sembrava zoppa dalla gamba destra ma correva lo stesso, e non si capiva come facesse a correre da zoppa, con le mani sul volto e la gamba zoppa correva, e da dietro le mani sul volto usciva un liquido denso, e anche quando li vedeva e loro la vedevano non riusciva a smettere di piangere e ruggire, e urlava a Pietro «Mio Dio! Ahhhggg mio Dio! Eccomi aggghhh eccotiiiiii! Andiamoooo eccoti ahhhggg!», e poi rivolta a lui «Oh non lo so, non lo so come stanno non lo so, ma sono sicura che stanno bene caro vedrai anche se la casa non sta tanto bene, sono sicura che anche se non lo so sono sicura che stanno bene vedrai tesoro caro, andiamooooo, ahhhggg, andiamo a cercarliiiiiii!», e quando toglieva le mani dalle guance e protendeva le mani verso il figlio le guance erano raschiate, erano d’un rosa vivo, come se le avessero tolto uno strato di pelle con la carta vetrata, e in certi punti erano rosso vivo, ed era da lì che proveniva il sangue, da quei punti più rossi che in definitiva erano buche, addirittura fosse nella pelle della madre di Pietro. Qualcuno o qualcosa aveva scavato delle fosse nelle povere guance della madre di Pietro, delle fosse molto prossime all’interno delle guance della madre di Pietro. E non bastava. La vestaglia della madre di Pietro dalla parte della gamba zoppa era bruna e stracciata, e dallo strappo sbucava un lembo rosa e rosso di coscia, con pieghe bianche come neve che davano una curiosa sensazione di cattiveria, d’un infierire a tradimento. Quelle pieghe bianche sul rosso e sul rosa della coscia della madre di Pietro parevano una sottolineatura, vibravano d’una cattiveria bieca, erano peggio, molto peggio d’un pianto; se ne stavano là mute ma erano molto peggio di qualsiasi pianto. E avevano lo stesso identico colore dei mucchi di macerie ai piedi del castello. Un bianco gelido. Però la cosa più terribile della madre di Pietro, nonostante il ruggito e le guance e la coscia e tutto il resto era lo sguardo, benché gli occhi fossero a posto: uno sguardo in cui pareva che l’intero mondo fosse venuto giù, d’un tratto, per sempre.
«Il tempo non ha tempo, mio caro» osservò il dottore con educata benevolenza.
«Chi ha tempo non aspetti tempo.»
«Certo! E così via.»
«E così sia.»
«O via.»
«Esatto.»
«Ma lei, mi creda, ha avuto una semplice precognizione alla rovescia.»
«Alla rovescia.»
«Sì! Un’inversione dei fattori dopo la quale il prodotto cambia, eccome.»
«Non capisco, dottore.»
Il dottore si mise a braccia conserte, sempre benevolo. «Lei ha immaginato, dopo, di vedere prima nella visione quello che sarebbe accaduto molti anni dopo.»
«Insomma dottore, prima o dopo?»
«Dopo! Dopo!»
«Avevo otto, dieci anni. Forse nove.»
«Nella visione?»
«E dove sennò?»
«Sia pure. Ma la visione l’ha avuta dopo l’evento. Ne sono sicuro. Anzi, è sicuro.» Il dottore sorrise, quasi felice.
«E come fa a esserne così sicuro?»
«Perché sono un medico, e credo solo nella scienza.»
«Capisco.»
«Vada avanti.»
«Oh sì, certo. La scienza.»
«Vada avanti.»
«Sì.»
La seconda visione avvenne al tempo del secondo liceo classico. Stavolta era mattina, quasi ora di pranzo. Doveva trattarsi d’un mercoledì, perché di mercoledì uscivano a mezzogiorno, gli pareva. Stavano davanti al vicolo del Rex, quando il Rex e il vicolo e il Corso e via dicendo esistevano ancora. Anche in questa visione figuravano Pietro, Luigi, Marco, Giuseppe, ma cresciuti, e alcune delle bambine che stavano al castello a pettinare le bambole, adesso ragazze in piena fioritura. Il vicolo rappresentava l’osservatorio privilegiato per questo genere di faccende (ovvero le ragazze in piena fioritura), nonché per una sigaretta o qualcosa di più spinto, magari. Il vicolo rappresentava un’opzione anche in caso d’una pisciata urgente, oppure di una scazzottata seria. Una volta, di notte al sabato, nel vicolo trovarono persino uno stronzo umano, scuro e arrotolato come un serpente grasso e senza volto. Ogni tanto nel vicolo ci s’imbatteva in qualche siringa col filino di sangue rappreso attorno, ma era raro. Complessivamente si stava abbastanza bene, al vicolo, se ti facevi i cazzi tuoi. E poi le femmine passavano tutte là davanti, prima o dopo. Lui e i suoi amici ci impiegarono del tempo per capire che queste epifanie miracolose non erano affatto casuali; e quando capirono che non erano affatto casuali, ci impiegarono altro tempo per capire che, benché non casuali, non significavano affatto vittoria, centro, strike. E quando capirono anche questo, ci impiegarono altro tempo per capire che con le femmine c’era ben poco da capire. Quest’aria familiare del vicolo e dei Quattro Cantoni col negozio di Grimaldi sempre pieno e il bar Eden coi tavoli fuori nella bella stagione e il Bar del Corso col bancone affollato sia durante la bella che durante la brutta stagione e i portici di fronte traversati da un fiume ininterrotto di gente che aumentava di portata verso le sette di sera, questa storia molto familiare e da paese, disturbava ma in fondo rassicurava anche. Si stava bene, ci si conosceva, e ciò significava che non potevi fare l’eroe, ma nemmeno una brutta fine. Una rotaia quotidiana poco vertiginosa ma sicura, intinta in una luce quieta, stampata in un’aria di provincia, un’aria restituita più verde e più pura dai boschi e dai monti all’intorno, un’aria al profumo di timo, ginestra e roccia un po’ ottusa ma tosta.
E all’improvviso, alzando lo sguardo verso l’angolo del grande edificio della Camera di Commercio, laddove s’affacciava l’aula in cui lui aveva frequentato il quarto ginnasio tre anni prima del tempo della visione (risalente al secondo liceo), vide l’angolo dell’edificio mezzo sganciato, come una mascella rotta da un violentissimo pugno e uscita di sede; e l’angolo dell’edificio era tenuto su con una complessa imbracatura di metallo, e il Corso era deserto, vuoto come lo spazio cosmico, e uno strato di cenere ricopriva i sampietrini e il pavimento sotto i portici deserti, simile a quello che si deposita dopo una disastrosa eruzione, e Grimaldi era chiuso, le serrande abbassate e fuori di sesto, e anche l’Eden e il Bar del Corso erano chiusi, e i vetri infranti, e le porte via dai cardini, e non passavano fanciulle né nessun altro, e si vedevano ovunque zone cinte sotto i cornicioni tremebondi, e anche il vicolo del Rex era chiuso e colmo di frantumi e cocci e di quella cenere. Quella maledetta cenere che infilava la luce del giorno in un sacco, soffocandola. E intanto l’aula dove per un anno ogni giorno lui aveva studiato e scherzato e tremato e riso e dato e ricevuto pacche e così via pendeva come un dente guasto sui Quattro Cantoni, crepata da una specie di v gigante, ghignante. Ma la visione non finiva qua, perché come accade nelle visioni le cose si sovrapponevano, il tempo non aveva tempo, proprio così, da questo punto di vista il dottore aveva perfettamente ragione, passato e presente e futuro mescolati in un’unica tempera, ed eccoli di nuovo lui e i suoi amici assieme, ma tristi e sconvolti e straniti, senza cicche fra le labbra e senza ragazze nella testa e senza scazzottate, e s’avvicinava sbucando da una specie di nebbia la vecchia professoressa di latino e greco, sbucava dalla nebbia e non aveva la solita aria dignitosa e rigida, ma i capelli in un vortice e il volto incavato e occhi simili a gore di tenebra e la bocca a forma di o, una o enorme che tendeva a diventare un’ellisse, e non riusciva a urlare e si portava le mani alle orecchie, quasi volesse tapparsele per non udire l’urlo che non riusciva a tirar fuori dalla bocca a forma di o deformata, ellittica e che le rimbombava nella testa, e s’avvicinava ancora, nitida adesso, nitidissima, sconvolta oltre ogni immaginazione, e nessuno di loro pensava più che si trattasse della vecchia prof di latino e greco rigida e sempre in ordine ma di una povera donna distrutta, la povera vecchia prof di latino e greco distrutta, e questa donna distrutta aveva un occhio sfondato, non una gora di tenebra quell’occhio ma una voragine, una voragine che affacciava dritto sul cervello della prof, e fili che dalla voragine colavano lungo il naso fin sul labbro superiore, fili vermigli e gialli e grigi impigliati fra loro, un gomitolo di fili, e tre dita della mano sinistra mozze, la prof le agitava in aria ed erano corte come sigarette fumate a metà, e una scheggia di legno le sbucava dalla spalla destra anche se la vecchia prof non pareva accorgersene, una scheggia sembrava esserle cresciuta dalla spalla, e sangue sui denti digrignati, denti color vinaccia digrignati in un rictus inconsapevole, la vecchia prof li digrignava senza accorgersene e ciò rendeva la scena ancora peggiore, e l’andatura della vecchia prof era gobba, e riusciva solo a gridare, la vecchia prof di latino e greco, la povera vecchia prof col gomitolo in faccia e la scheggia fuori dalla spalla: «E’ morto! E’ mortooooo! Morto. Non sono. Non sono riusciti. Non l’hanno. Tirato fuori. In tempo. No. Non l’hanno. In tempo. Non ci sono riuscitiiiiii! Non sono riuscitiiiiii!. Riusciti. Lui era sotto. Sotto. Capite? Là. Sotto. Povera. Povera povera povera. Povera me. Come farò. Pooooovera! Come faròòòòòò!»
«Coincide tutto» osservò il dottore con compiacimento.
«Già.»
«Ogni cosa.»
«Infatti.»
«Questo non la porta a dedurre che il tempo non ha tempo?»
«Ovvero?»
«La mente umana, sa, è capricciosa. Specie poi quando viene sottoposta a situazioni di forte stress.»
«Forte stress.»
«Proprio. E lei, non si può dire che non abbia subito una situazione di forte stress, no?»
«No.»
«Ebbene no, non si può dire. E come si difende la sua mente da questa situazione di forte stress?»
«Come?»
«Tramite le precognizioni alla rovescia. Immaginare d’aver vissuto prima quel che è accaduto dopo. Perché per la mente il tempo non ha tempo. La mente umana è capricciosa, specie quando soffre. E tende a deformare il tempo. E la sua mente soffre.»
«Nella visione ho diciassette anni.»
«Nella. Ma la visione in cui lei ha diciassette anni l’ha avuta dopo. Dopo il trauma.»
«La visione è ambientata prima.»
«Certo. Però l’ha avuta dopo. Dopo la tragedia. La visione. Capisce?»
«Ne è sicuro?»
«Sì. Credo fermamente nelle scienze e soltanto nelle scienze.» Il dottore sfoderò un luminoso sorriso. «Le scienze non fanno capricci, e una vita senza capricci è una vita migliore, non crede?»
«Senza capricci?»
«Sì.»
«Neanche a nove anni? O a diciassette?»
«Non aveva nove anni, o diciassette. L’ha immaginato.»
«Ma li ho avuti, pur sempre. O no?»
«Sì. Ma non torneranno.»
«Nelle visioni sono tornati.»
«Ma noi li cacceremo.»
«Mi fanno compagnia, finché non sbucano le rovine e le persone ferite e tutte quelle cose orribili.»
«Cacceremo via le rovine e le cose orribili.»
«Ma la compagnia? E’ bello che mi facciano compagnia, non crede?»
«Vada avanti.»
«Sarebbe dolce se non fosse, poi, così orribile. Non crede anche lei?»
«Vada avanti.»
«Non lo crede?»
«Vada avanti.»
«Vado avanti.»
Nella terza visione era sposato da un anno, e giocava a pallone sul prato della basilica di Collemaggio alle nove di una splendida mattina estiva. Anche in questa visione comparivano Luigi e Giorgio. Gli altri erano nuovi, ma lui li conosceva bene. Giocavano cinque contro cinque, utilizzando il prato in larghezza, e nemmeno tutta. Si erano dati appuntamento presto per evitare il caldo, e perché a una cert’ora accendevano le pompe e il prato diventava impraticabile. Giocavano sotto un cielo terso, coi grandi alberi ai due lati del prato d’un verde carico, come appena dipinto, e il prato scintillante fino ai piedi della basilica, rosa e bianca e piena di luce mattutina, che veniva voglia di toccarla e baciarla e berla. Qualcuno correva attorno al prato, in pantaloncini e scarpe da jogging. Qualche anziano sedeva su una panchina, col giornale o le parole crociate, in camicia a maniche corte, la carnagione pallida e calva tipica degli anziani. Qualche cane girava in tondo. Qualche freesbee volava. Ogni cosa – i fili d’erba, le minuscole nuvole candide e immobili, il terreno umido, i rami penduli, i cespugli vibranti d’insetti, i fiori tiepidi, la pietra della chiesa, il suono del pallone, il suo fiato e quello dei compagni – gli sembrava limpida e appena nata. Per questo la visione fu ancora più spaventosa, forse. Una violazione crudele dell’illusione della felicità. In un istante seppe che la basilica dietro la facciata non c’era più. Era implosa. Il tetto stramazzato sui banchi e le pareti frante e l’abside un cumulo di sassi. Quella forma divina tornata a caos primigenio, insensato. La facciata c’era ancora, ma avvolta in una specie di sudario di plastica e reti. E questa facciata nel sudario copriva un inganno, un enorme vuoto, un infarto precipite. E anche il prato su cui stavano correndo e giocando non c’era più. C’era qualcos’altro di molto triste, e opprimente, e caldo, anzi afoso. Qualcosa pieno d’odori acri o scaduti, di panche a centinaia e cibo in scatola e sedie da campeggio e piatti di plastica e bicchieri di plastica e stoviglie di plastica dentro buste trasparenti e file di letti a due piazze e schermi opachi che nascondevano il cielo, tantissimi schermi opachi stavolta, invece della cenere. E poi l’afa lasciava il posto al freddo, alla pioggia, al fango, a panni bagnati, a filoni di pane rappresi, a brande puzzolenti e a televisori e radio su sgabelli improbabili e ancora al caldo e al rumore dei condizionatori d’aria oppure a fornelli a gas o a stufe rudimentali o a libri gualciti dall’umidità, gustati male, compresi dimenticandoli sul momento, e a giacigli brulicanti di paura e incubi sul passato e sul presente e sul futuro. La gente stava seduta, col viso tirato e lungo, gli occhi spenti, la noia sulle labbra e dentro le pupille, pupille in perenne attesa d’un altro colpo, un altro colpo mentre cerchi di tirarti su, in perenne attesa dall’iride giù sino all’anima, e i capelli stopposi, i vestiti sciupati, le mani ad artiglio. Mani pronte ad aggrapparsi ad ogni possibilità pur di venire fuori dall’incubo. E c’erano viuzze sul prato che non era più un prato, e rena a mucchi, e luoghi dove s’andava di corpo, e altri dove puzzava di piscio o vomito, e altri dove ci si lavava in qualche modo, e lo sporco fluiva male, restava nei pressi, tornava da dove era stato cacciato, ridendo e godendosela coi topi, i topi che tornavano all’assalto degli uomini come nelle antiche profezie, e ancora lavatrici e stendini e angoli sozzi, e quell’opacità, il cielo proibito, il cielo sparito, e quella sensazione di cappa, di ostruzione della libertà e della felicità. Era questa in fin dei conti la cosa più terribile, più del cielo scomparso: la sensazione che la felicità fosse finita con la fine del cielo e del prato.
«E’ evidente che il tempo non ha tempo, no?» chiese il dottore, retorico.
«E’ evidente?»
«Certo. Quella che lei ha descritto è la tendopoli di Collemaggio.»
«La tendopoli di Collemaggio.»
«Esatto. Ben squallida realtà. Una puzza! Un caldo! Un freddo! Uno schifo!»
«E una tristezza.»
«Oh, lasciamo perdere le sensazioni o, peggio ancora, i sentimenti. Atteniamoci ai fatti.»
«I fatti.»
«Proprio così. Lei nella visione immagina d’aver vissuto anticipatamente quel che è successo, prima del verificarsi effettivo della visione medesima, che risale invece a dopo il fatto. E’ un meccanismo difensivo di notevole ingegno, ancorché non volontario. Lei può dire: ho avuto la visione molto tempo prima dell’evento tragico, dunque era una premonizione. Ma la visione, che la porta illusoriamente a prima, accade dopo, invece. Le difese psicologiche sanno sfoggiare un’intelligenza micidiale. Avrebbe potuto sbronzarsi, o picchiare qualcuno senza motivo, o semplicemente farla finita da un quinto piano. Invece s’è messo a tirar fuori queste cagate, una sopra l’altra. Mi scusi il termine.»
«Da cosa?»
«Che.»
«Da cosa tento di difendermi.»
«Dallo shock. Lei si sta colpevolizzando. Vorrebbe credere che avrebbe potuto fare qualcosa per la sua città, per quei poveracci nella tendopoli che sentono caldo e freddo e non sanno dove andare di corpo. Si sente in colpa. Un delirio d’onnipotenza che cerca di coprire il lutto.»
«Mi sento in colpa.»
«Già. Ma lei non poteva fare un cazzo per la sua città, nessuno ci poteva fare un cazzo di accidenti. Capito?» Il dottore stava diventando aggressivo.
«Ne è sicuro?»
«Assolutamente sì.» Il dottore alzò la voce, scagliando piccoli spruzzi di saliva. «Perché credo nella scienza e soltanto nella scienza. E la scienza dice che certi terribili eventi naturali non sono prevedibili, e che le vittime sopravvissute di tali eventi a volte tendono a sviluppare sensi di colpa, ossessioni, manie, fobie, ansie, nevrosi e addirittura psicosi.» Il dottore tacque e concluse, con voce nuovamente serena: «Il suo è un caso psicotico, di palese distacco dalla realtà. Ma lo cureremo.»
«E’ sicuro, voglio dire, che nessuno poteva impedire la puzza?»
Il dottore rimase un attimo incerto. «Della tendopoli? Certo che no. Le tendopoli puzzano, da che mondo è mondo. E’ un assioma.»
«E la tristezza? Qualcuno poteva impedire la tristezza? Qualcuno può impedire la tristezza?»
Il dottore scuoteva il capo. «Rielaboreremo la sua tristezza, gliela faremo digerire e trasformare in energia positiva, vedrà. La trangugerà come una torta al cioccolato. Il terremoto sarà per lei un’appetitosa occasione di crescita. Deve fidarsi di me e della scienza, e il resto verrà da sé. Lei diventerà un altro uomo. Un uomo nuovo.» Il dottore sorrise, ma il sorriso cominciava a sembrare stufo.
«E le visioni?»
«Passeranno. Il tempo non ha tempo, gliel’ho già detto, quando la mente umana sfarfalla. Lei mescola passato e futuro. Lei è un nostalgico. Ma la faremo guarire.»
«Un nostalgico.»
«Già.» Il dottore si fece sfuggire una piccolissima smorfia di disgusto.
«Il tempo non ha tempo.»
«No.»
«C’era un passato.»
«Sì.»
«In quel passato c’era la mia città.»
«Sì.»
«Adesso non c’è più.»
«No.»
«La mia città o il passato?»
«Entrambi.» La smorfia sul volto del dottore s’accentuò.
«Si può vivere senza la propria città, il proprio passato?»
«Senza il passato no. Senza la città, sì.»
«E come farò, allora?»
«Recupereremo il suo passato, glielo faremo ricordare nella giusta maniera. Razionalmente. Non attraverso le visioni. Lei sarà un altro uomo, gliel’ho detto. Quando avrà capito che il tempo non ha tempo.»
«E la mia città?»
«Quella non spetta a noi. Ma temo dovrà cercarsene un’altra. Il mondo è pieno di città. Città più belle della sua. Garantisco.»
«Un’altra città.»
«Sì.»
«Ma io amavo la mia città. La amo.»
Il dottore ebbe finalmente un chiaro moto di stizza. «E’ per questo che lei è qui da me. Per tali spiacevoli sentimentalismi.» Si ricompose, ma la stizza rimaneva. Il dottore la manifestava sollevando il labbro superiore e scoprendo i denti. I denti fecero mostra d’una lodevole pulizia. «E’ ora. Tempo scaduto. Ci vediamo lunedì.»
«Povera la mia città, chi l’avrebbe mai detto.» L’uomo s’alzò allargando le braccia, negli occhi un’alba brumosa cui non si poteva prevedere se, e quando, sarebbe seguito un nuovo giorno.
Il dottore non muoveva ciglio, i denti scoperti in una chiazza glaciale.
«Chi l’avrebbe mai detto» ripeté l’uomo, andando via.
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