[Tra gli autori che abbiamo avuto l’onore di pubblicare negli otto anni del mio lavoro presso Sironi ci sono due “grandi vecchi”: Luisito Bianchi, sacerdote, e Renzo Tomatis, oncologo. Di Renzo Tomatis mi parlò, una sera a Torino, Delia Frigessi. Io non ne sapevo nulla. Delia mi fece avere il dattiloscritto del romanzo Il fuoriuscito. Io andai in cerca dei libri precedenti di Renzo Tomatis: da Il laboratorio, pubblicato nel 1965 presso Einaudi da Italo Calvino, su sullecitazione di Giovanni Arpino, a Visto dall’interno (Garzanti 1976), la Storia naturale del ricercatore (Grazanti 1992), La rielezione (Sellerio 1996). E mi resi conto che Tomatis aveva composto, libro dopo libro, un unico grande romanzo autobiografico, tutto centrato sulla vita e sui dilemmi morali del ricercatore. Il fuoriuscito fu accolto tutto sommato bene. Il libro successivo, L’ombra del dubbio, uscì pochi mesi dopo la morte di Tomatis. Nel sito della società di Epidemiologia e prevenzione ci sono molte pagine dedicate al lavoro scientifico di Tomatis. L’articolo di Emanuele Trevi che riporto qui sotto apparve in Alias, supplemento del quotidiano il manifesto, il 18 febbraio 2006. gm].
Bisogna urgentemente allargare il nostro concetto di “novità letteraria” fino a comprendere almeno i libri usciti da un annetto, per combattere l’imperante usa-e-getta dell’ informazione culturale, che coinvolge indifferentemente nel suo squallido tritacarne il bello ilbrutto e il medio. Non ha senso, per esempio, relegare già al dimenticatoio un libro originale e coinvolgente come Il fuoriuscito di Renzo Tomatis, uscito la priumavera dell’anno scorso nella collana “indicativo presente” diretta da Giulio Mozzi per Sironi, una delle pochissime iniziative editoriali italiane seriamente interessate alla sperimentazione e alla ibridazione. Non si tratta però di una scoperta di Mozzi. Tomatis, come ben si può arguire dal cognome, viene da torino, e il suo primo padrino letterario fu Calvino, che fece pubblicare da Einaudi Il laboratorio nel 1965 (per chi fosse curioso, c’è in giro una ristampa Sellerio). Ma più che a Calvino, è a un altro grande campione torinese dello “stile semplice” (soggetto, predicato, complemento) cioè a Primo Levi, che la prosa di Tomatis fa subito pensare.
Oncologo di fama mondiale d’alto livello dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tomatis guarda alla medicina con la stessa gratitudine, con la stessa appassionata fedeltà che Levi ha riservato alla chimica in libri stupendi come Il sistema periodico e La chiave a stella. Detto questo, bisogna segnalare però una differenza abissale. La chimica consente a Primo Levi di rappresentare un rapporto tra l’individuo e il suo lavoro totalmente euforico. Ci potranno essere delle piccole amarezze e delle delusioni anche cocenti (come l’incidente di laboratorio raccontato nella Chiave a stella), ma quello tra lo scrittore e la chimica ha tutto l’aspetto di un buon matrimonio. In Tomatis prevale invece la tipica ambivalenza del medico. Per proseguire il paragone, la medicina non gli si concede che in qualità di amante. Ciò si deve sia al temperamento personale dello scrittore, rigoroso fino alla crudeltà nell’indagare i suoi moventi e quelli dei colleghi, sia alla natura stessa della medicina, campo nel quale si scatenano i «fattori umani» più inconciliabili e a volte ingovernabili.
Nel Fuoriuscito questa materia così ricca di significati possibili ci si offre nella maniera più adeguata, che è quella del memoir, del resoconto biografico il più accurato e veritiero possibile. Ma quella di Tomatis è tutt’altro che un’autobiografia in senso «totale». A parte qualche dettaglio marginale, ciò che leggiamo è il resoconto del rapporto tra un individuo e il suo lavoro. È questa rigorosa selezione del materiale offerto dalla memoria a fornire al libro sia il suo interesse narrativo sia la sua forza poetica, se è possibile distinguere le due qualità. La narrazione del Fuoriuscito inizia infatti nel luogo e nel momento in cui il protagonista, un ragazzo di diciotto anni, decide di iscriversi alla facoltà di medicina. È un giorno torrido di luglio, siamo a Torino nell’enorme e deserta piazza Vittorio, e questo ragazzo compie il primo passo di un cammino che lo assorbirà senza riserve per tutta la vita. Tutto ciò che seguirà è contenuto in questo primo momento come il seme contiene la pianta (volevo in realtà scrivere «come l’embrione contiene l’organismo», ma i preti e i politici ipocriti ci hanno tolto anche il gusto di questa innocente comparazione). La scommessa estetica di Tomatis è quella di non contaminare mai con materiale d’altra provenienza questa coerenza tematica decisa una volta per tutte. Dal punto di vista psicologico dell’autobiografia «totale», questa scelta è poco meno che una follia, visto che nei primi diciotto anni d’età è contenuto tutto il destino di un uomo, e le esperienze più importanti, si può dire, sono state tutte compiute.
Eppure, è proprio nella totalità che si annida un limite estetico gravissimo, dal quale un libro come quello di Tomatis è invece del tutto al riparo. Non a caso, il grande inventore dell’autobiografia come opera d’arte, sant’Agostino, ha «specializzato» al massimo le Confessioni, facendone un racconto esclusivo del rapporto con Dio. A questo punto, diventa molto interessante ragionare sulla definizione «Romanzo» che campeggia sotto il titolo sulla copertina del Fuoriuscito. In che senso, romanzo? Raccontandoci la sua carriera di medico e ricercatore, Tomatis in effetti ha tutta l’aria di riferirci dei fatti veri così come sono accaduti. Certo, potrebbe mentire qua e là, modificare un fatto, tacerne un altro. Ma non avendo noi la possibilità di fare delle verifiche, questa semplice possibilità di mentire non è decisiva per farci parlare di romanzo. Così come non basta, ovviamente, il fatto che spesso Tomatis cita un nome senza cognome.
Eppure, d’istinto si è portati a non contestare la definizione di romanzo stabilita dall’editore (immagino con il consenso dell’autore) per quest’opera. Privo di soprassalti stilistici, ordinato nell’esposizione dei fatti, aderente ad un palese criterio di verità, Il fuoriuscito è un romanzo nella misura in cui ci mette di fronte a una visione estetica, e non referenziale, della realtà. Quanto più l’autore resta stretto al suo argomento, tanto più il lettore, che non è necessariamente medico o interessato alla medicina, ne riceve un’emozione intensa e non limitata al contenuto specifico. Perché Tomatis parla di cosa significa avere una vocazione, e della durezza del lavoro che necessariamente ne consegue. Il lavoro in fondo non è altro, in questo libro, che la vocazione sottoposta al tempo. L’aggettivo che più si adatta a questo tipo di lavoro, che impegna così a fondo l’individuo da assorbirne letteralmente la linfa vitale, è rognoso. Mentre la sua pretesa di sostituirsi alla totalità della vita rasenta quasi un carattere allucinatorio, ben evidenziato dal nitore e dalla precisione dello stile di Tomatis. Mi piacerebbe dare almeno un esempio di questo aspetto della sua scrittura, ma è la stessa tessitura del Fuoriuscito ad impedirmelo. Qui a valere e ad avere efficacia sono il flusso, la durata uniforme del discorso, e non il giro di frase e il concetto memorabili. Ed è un’arte difficilissima, perché il rischio di far cadere il discorso nell’opacità è sempre in agguato, e non a caso quando se ne parla si fanno sempre gli stessi nomi e inevitabilmente si casca su Primo Levi.
A mio parere, per come questo libro è suonato al mio orecchio, Tomatis non solo può inserirsi a pieno titolo tra i pochi maestri dello «stile semplice», che gli antichi chiamavano «attico», ma regge il confronto con Levi, e questo è davvero raro. Quello che è certo è che la prosa del Fuoriuscito ha una lieve ma persistente qualità ipnotica, ed è difficile mollare la lettura una volta catturati. Arrivati all’ultima pagina, ci rendiamo conto che il narratore, nel frattempo, non ha sciolto nessuna delle ambivalenze iniziali. Evidentemente, non erano nelle sue intenzioni né un elogio, né un’abiura della medicina e del lavoro. Ma questa, appunto, è la legge di ogni rappresentazione estetica, quando è genuina: non essere mai, o essere solo in subordine, un’opinione sul mondo, ma impegnarsi unicamente nel dargli una forma, scommettere sulla sua visibilità. E se attraverso questo esercizio di ascesi e concentrazione il medico è riuscito a curare se stesso, una volta tanto se lo è meritato.
Il romanzo italiano orfano della scienza
Conversazione tra Claudio Magris e Renzo Tomatis, apparsa nel quotidiano Corriere della sera il 4 luglio 2005.
Il fuoriuscito: dalla scienza o dalla realtà? Le origini non conoscono quella divisione o contrapposizione tra le “due culture”, scientifica e umanistica, teorizzata in un celebre saggio di Snow; i grandiosi frammenti dei presocratici sulla Natura sono insieme poesia, filosofia e scienza. Col progredire – nei secoli e, vertiginosamente, negli ultimi anni, delle conoscenze sempre più specialistiche, quel divario si è accentuato. Oggi, paradossalmente, l’uomo di media cultura e lo scrittore, se non hanno una preparazione altamente specifica, non sono in grado di capire veramente com è fatto il mondo – che pure lo scrittore cerca di ritrarre – perché, a quanto pare, le leggi secondo le quali esso è costruito sono irriducibili a quelle con cui la mente umana lo percepisce e se lo rappresenta. La letteratura più avveduta, sempre chiamata a narrare il rapporto fra Dio e il mondo, cerca di raccogliere questa difficile sfida: si pensi alla notevolissima, innovatrice narrativa di Daniele Del Giudice, che fonde poesia ed esattezza, per fare un esempio. Uno scrittore che si è nutrito di questa problematica, vivendola nella propria esperienza di scienziato e imprimendole una forte carica morale è Renzo Tomatis, oncologo di fama internazionale e autore di romanzi nei quali il rigore scientifico e l integrità etica si fondono in una vigorosa freschezza narrativa, in una forte e asciutta capacità di raccontare gli uomini e la realtà, soprattutto le ambivalenze della ricerca scientifica. A molti suoi libri – quali Il laboratorio, La ricerca illimitata, Storia naturale del ricercatore, Visto dall interno, La rielezione – si aggiunge ora Il fuoriuscito (ed. Sironi). Gli chiedo, incontrandolo a Trieste, se questo romanzo sia nato da una simbiosi delle “due culture”, fuse nel suo vissuto, oppure se nella sua genesi sia prevalsa una delle due o la protesta etica contro il cattivo uso della scienza.
Tomatis – Non avrei scritto Il fuoriuscito se lo scrivere non fosse stato un abito acquisito quando ero molto giovane, molto prima di aver mai pensato di poter fare il medico o di dedicarmi alla ricerca scientifica. Da un certo verso potrei usare la definizione che C. P. Snow dava di sé, e cioè di professionie scienziato e di vocazione scrittore. Credo di aver amato appassionatamente sia la letteratura sia la ricerca scientifica e mi sono servito, se così si può dire, della letteratura per esprimere quanto non si riesce a dire nel linguaggio scientifico e per trasmettere una convinzione con la forza di un racconto.
Penso che vi sia una diversità notevole tra scrittori che, prima e oltre a descrivere gli eventi con i quali si confrontano, li analizzano con metodo scientifico e mirabile precisione, come Musil, e scrittori come Cechov, per i quali l esperienza scientifica costituisce un arricchimento delle conoscenze, ma non condiziona la loro visione e interpretazione degli eventi. In uno dei suoi ultimi e più bei racconti, Un caso di pratica medica, Cechov riesce a far capire – con un intensità e una partecipazione che un approccio scientifico non saprebbe comunicare – sia lo sfruttamento operaio e l ingiustizia sociale che gli è connessa sia il turbamento psichico di chi percepisce la necessità di un cambiamento senza peraltro riuscire a intravedere la via per arrivarvi.
Magris – La letteratura italiana, nonostante alcuni grandi esempi – basti pensare a Galileo – è nel complesso digiuna di esperienza scientifica, mentre altre (come quella austriaca all epica di Musil, che hai citato) si sono nutrite di conoscenza scientifica, che è divenuta la prospettiva, lo sguardo poetico sul mondo. Il fuoriuscito, come altri tuoi romanzi, riesce benissimo a trasformare l esperienza scientifica, l ethos della ricerca o la sua violazione, in struttura narrativa, in racconto della vita, delle sue passioni, dei suoi compromessi, dei suoi tradimenti. E un esempio raro nella letteratura contemporanea, che pure ha avuto e ha Gadda, Del Giudice, Sinisgalli, ora i racconti e i romanzi di Giuseppe O. Longo, altro esempio notevole. Del resto è significativo che ci sia stato in Italia chi ha inteso il titolo del tuo libro quasi indicasse uno che si vede costretto a lasciare il proprio Paese, come i fuoriusciti antifascisti.
Tomatis – Il titolo si presta a interpretazioni diverse, ma significa principalmente l’uscir fuori da un establishment scientifico dominato da interessi economici e una volontà di potere di impronta baconiana, secondo la quale il fine ultimo di scienza e tecnica è quello di accrescere il potere dell’uomo sulla natura, finendo poi per accrescere anche il potere dell’uomo sull’uomo. Il protagonista de Il fuoriuscito percorre il suo itinerario di apprendistato optando per la ricerca scientifica intesa come strumento per migliorare la capacità di esercitare la funzione preventiva e assistenziale della medicina, nella convinzione che una maggiore conoscenza non potrà significare che una migliore prevenzione e una migliore assistenza. Lo stimolo intellettuale, il fascino del nuovo e l’innocenza febbrile della ricerca inevitabilmente lo attraggono e lo seducono, ma l’establishment scientifico si rivela dimentico dell’assioma morale che è alla base della medicina, per cui egli gradualmente se ne distacca. Giunge così sino al rifiuto di una scienza inquinata da un utilitarismo aggressivo al servizio di spietati interessi economici; dove il malato, invece di esspre protetto e rassicurato come individuo sofferente, viene “affrontato” come depositario di informazioni molecolari che in nome di un riduzionismo spietato possono essere modificate e manipolate.
Magris – Una volta mi hai ricordato una frase di Snow, secondo il quale lo scienziato, a differenza del letterato, “ha il futuro nel sangue”. Un giudizio a doppio taglio. Da un lato sottolinea le capacità di mutare il mondo e anche la grande funzione morale di migliorarlo, di lenire le sofferenze, combattere la morte, la fame, creare più umane condizioni di vita. D’altro lato tuttavia indica l’astratta violenza latente in chi pensa al futuro, alla vita che non c’è e agli uomini che non ci sono, senza curarsi del presente, dell’unica vita che concretamente ogni uomo ha, e degli uomini che vivono in quel momento e che una visione troppo rivolta al futuro può cinicamente sacrificare, come Stalin che voleva creare il mondo comunista del futuro a spese dei milioni che vivevano alla sua epoca. Scienza è sinonimo di progresso e quest’ultimo, specialmente, con l’attuale sviluppo tecnologico, desta entusiasmi e paure, promette di migliorare e minaccia di distruggere il mondo in cui si vive, destando giustificate ma più spesso irrazionali e aberranti geremiadi contro la scienza, cui peraltro troppi scienziati rispondono con supponenza, anziché chiarire i veri problemi posti in quei modi regressivi e sbagliati. Sono stati grandi scienziati – Einstein, Oppenheimer, Rasetti, per citare solo alcuni – a mettere in discussione la deriva pericolosa di grandi scoperte scientifiche. Come vivi la contraddizione fra la necessaria libertà della ricerca e i limiti che, per ragioni etiche, sembra talora necessario porle?
Tomatis – La caratteristica di base della medicina e della ricerca biomedica è quella di essere insieme, e indissolubilmente, scienza e assistenza. In quanto scienza, come ogni scienza ha come fine quello di espandere le conoscenze, mentre la medicina come assistenza ha quale fine primario il benessere dell individuo, cioò che implica la scelta etica di attribuire un valore assoluto alla persona umana. Tale scelta è un assioma fondamentale della medicina, senza il quale non saremmo in grado di definire i concetti di salute e malattia, che potrebbero sfuggire a una definizione basata puramente su criteri obiettivi. L’interazione fra un batterio o un virus e il nostro sistema immunitario o fra il Dna delle nostre celluce e un composto chimico sono, come la malattia che ne può derivare, eventi biologici che di per sé non sono né bene né male. E’ una nostra scelta quella di considerare la malattia e gli eventi che la precedono un male e di volerli combattere. Il fatto di avere una scelta etica come suo fondamento fa quindi della medicina una scienza atipica e tale essa dovrebbe rimanere, resistendo alla tentazione di seguire una strada che rischia di portare al suo totale asservimento ai valori di mercato. Il perché si fa ricerca dovrebbe contare almeno altrettanto del come la si fa. Non è al progresso delle conoscenze che si deve mettere un freno o un limite, ma al modo di giungere alla conoscenza, il che non impedirà certo che uno scienziato o un ricercatore, partendo da un progetto inizialmente ben definito, abbia e segua intuizioni che lo spingono verso altre direzioni, poi arrivi a conclusioni ben diverse da quelle prevedibili, come ci racconta la storia di molte importanti scoperte. La ricerca scientifica potrebbe avere un orientamento più responsabile se gli scienziati tenessero presente che la capacità di predire le conseguenze del nostro agire, come ammoniva Jonas, è di molto inferiore al sapere tecnico che conferisce potere al nostro agire.
Magris – In un suo articolo, Fabio Pagan ha fatto un gustoso elenco di previsioni sballate di grandi scienziati e tecnici, da Einstein che nel 1932 negava si potesse ottenere energia dall’atomo a lord Kelvin, grande fisico che all inizio del Novecento negava la possibilità di “macchine volanti più pesanti dell aria”, a Olsen, presidente della Digital Equipment, che nel 1977 sosteneva che in tutto il mondo c era un mercato al massimo per cinque computer… In questo senso Il fuoriuscito narra la storia di una resistenza allo scientismo rapace e spietato e a una ricerca opportunista e approda a una scomoda, forse anacronistica fedeltà a un principio morale. Forse al momento perdente, è comunque un resistente, non uno sconfitto.
4 giugno 2009 alle 12:54
Per lavoro arrivarono a una collega lettere carbonizzanti da Renzo Tomatis. Non lo conosceva, allora feci un discorso sul “Laboratorio”. Credo sia servito per mettere le lettere carbonizzanti sotto un’altra luce.
Comunque, mazzabubbola, Tomatis era davvero tostissimo! 🙂