Il dito puntato (1967), primo

by

di Libero Bigiaretti

[Da: Libero Bigiaretti, Il dito puntato. Lettera all’Editore con una risposta del medesimo, Bompiani 1967, collana “I libelli”. Invito a leggere il testo (lo pubblicherò a puntate) tenendo sempre a mente che è di quarantadue anni fa. gm]

Libero Bigiaretti

Libero Bigiaretti

Caro Valentino [*], questa mattina mi hai chiamato al telefono di buon’ora, insolitamente. Segno che avevi qualche cosa di importante da comunicarmi. Difatti volevi scusarti di essere stato “un po’ violento” ieri sera, mentre discutevamo, in una trattoria, presenti le nostre mogli. La tua educazione e la tua prudenza hanno giudicato violenta una discussione appena vivace. E in ogni modo, indipendentemente dal tono, di risultato talmente stimolante da costringermi al tavolino per rispondere. Per rispondere a te, ma anche a me stesso, ma anche ai miei e ai tuoi colleghi.

Devo confessare che dopo aver ripensato nei lunghi dormiveglia della notte scorsa ai tuoi argomenti e alle mie giustificazioni, adesso già non ricordo più tanto bene le tue parole. Mi è rimasto nell’orecchio un romzio, quasi l’accenno di un motivo musicale, ma su questo ronzio, su questa generica modulazione, o cadenza, ancora percepisco lo scoppio di un’affermazione. Essa, sì, mi ha veramente colpito. Parlavamo, mi pare, dei miei progetti di lavoro: da amico a amico, e anche da autore a editore. Ti annunciavo: ti consegnerò presto i racconti, spero poi di terminare il romanzo… Insomma, erano promesse da marinaio, ma di quella specie che facciamo a noi stessi ad alta voce per renderle impegnative e che sembrano dirette ad altri. Promettevo altri libri miei; senza passione: con quella vanità sfiduciata, con quel senso di inutilità da cui sono preso quando recito la parte dell’autore. La recito per tenermi su, quindi la recito per me stesso; al solo scopo di dare un’apparenz di praticità a un lavoro quasi inutile (se lo considero in senso assoluto), poco redditizio e tiepidamente apprezzato. Continuo a farlo, perchè sembra che sia necessario fare qualche cosa, in ogni caso. In certi momenti ne dubito: anzi per spirito polemico spesso mi dedico all’elogio dell’ozio totale, assoluto. Almeno in ciò mi sento stranamente solidale con quei gruppi di giovani d’America e d’Europa i quali dichiarano coraggiosamente di non voler fare niente, di non voler dare a una società di cui non intendono dichiararsi corresponsabili o complici il contributo del loro operare.

Torno in argomento, ma prima devo avvertirti che le cose che dovrò dire, le dirò nel modo più semplice e meno preordinato, scartando gli schemi del sggio e quelli del racconto, allontanando i facili allettamenti della scrittura saggistica, specialistica, tecnologica. Questa lettera non è un espediente letterario. E’ una lettera e basta. E’ uno sfogo che non aspira a diventare un esame di coscienza, e tuttavia può diventarlo. Adesso non lo so.

Improvvisamente, con un moto di impazienza, (di cui stamani volevi far risalire la responsabilità all’ottimo vino rosso che avevamo bevuto) tu mi hai detto la cosa vera: “Va bene, tu mi darai altri libri tuoi, io li pubblicherò, saranno ottimi libri, se ne parlerà bene, si venderanno bene. E poi? Tu, il tuo libro vero, non vuoi scriverlo. Prendi tempo, prendi mille scuse. Preferisci continuare a impegnare soltanto la tua abilità, la tua capacità. Tu continui a dare il 50, o al massimo il 60% di te stesso, delle tue possibilità. Tu e anche altri…”. E hai nominato altri autori; quelli, credo, che ti stanno a cuore.

Ciò che abbiamo detto dopo, tu per rivolgermi un’accusa in cui volevi esprimere anche una fiducia, io per giustificarmi, non ha importanza. Tutt’al più, non posso non rammentare che tu hai continuato per un po’ a tenere il dito puntato contro di me (che in quel momento simboleggiavo, o rappresentavo un certo tipo di scrittore) affermando che spetta agli scrittori di fornire una nuova etica, una nuova spiritualità o, almeno, nuove norme di comportamento a un pubblico che aspetta da tempo qualche cosa: la parola di un nuovo Maestro (visto che i vecchi Maestri sono tutti morti o dimenticati), un messaggio, lo scandalo di una verità, l’esempio di una sofferenza autentica, e cose del genere. Tra cui anche il reperimento dei valori pertinenti alla nostra epoca, alla nostra società. Insomma, ciò che un tempo i grandi scrittori davano generosamente.

Calma, calma, Valentino, ragioniamo un po’ a mente fredda, mettiamo le carte in tavola: le tue, le mie, quelle degli altri che fanno lo stesso nostro lavoro.

***

Dunque la nostra è una epoca senza Maestri, volendo dare questo titolo con la generosità e anche con le garanzie che si usavano un tempo. In compenso è una epoca di professori e di professorini sapientissimi. Maestri si nasce oppure si diventa? Anch’io credo che per prima cosa occorra aver voglia (cioè ambizione) di essere Maestro: avere voglia di fare grande, avere voglia di dedicarsi alla letteratura in modo esclusivo, sacerdotale, eroico. La letteratura, secondo Giorgio Manganelli, è attività immorale: “Non v’è letteratura senza diserzione, disubbidienza, indifferenza, rifiuto dell’anima”. Poco tempo fa Tommaso Landolfi mi rimproverava affettuosamente e ironicamente di prendere troppo sul serio la letteratura. Un personaggio che non piace più a nessuno, oggi, neppure a noi scrittori, è proprio l’eroe della penna, l’homme è plume. La vita pretende sempre di più, non accetta che la letteratura la spinga ai margini. Se Pirandello ripetesse oggi il suo dilemma: la vita o la si vive o la si scrive, gli riderebbero in faccia, rideremmo, anzi, anche noi, che da ragazzi ci entusiasmammo per quella affermazione. Nessuno si ritira più a Croisset per sette anni allo scopo di scrivere Madame Bovary. Sì, anche noi ci ritiriamo in campagna, ogni tanto, ma per poco tempo, e con quelle perplessità che un poeta contemporaneo, ancora giovane, Giovanni Giudici, ha saputo rendere così bene in una poesia intitolata per l’appunto Se sia opportuno trasferirsi in campagna [**]. In ogni caso noi ci portiamo dietro, impacchettate insieme con le nostre inquietudini, le nostre macchine: automobile, telefono, radio, televisione magari, e provvediamo affinché ogni mattina non ci manchino i giornali, perché non sappiamo più vivere nel silenzio e nell’isolamento; siamo avidi di una vita fittizia e tutta in superficie; siamo avidi di informazioni e di comunicazioni, di “massacri sui manifesti dei giornali”, come diceva Vittorini. Siamo, in sostanza, perfettamente armonici e sintonizzati con i gusti, le abitudini, i comportamenti di tutti gli altri, di tutti quelli che non scrivono. E non parlo solo dei giovani. I difetti de giovani sono diventati anche i nostri, sono imitati o invidiati da noi. E non è fenomeno di oggi, degli anni sessanta, come si usa dire, ma anche degli anni cinquanta.

Quando vado in campagna, io abito, tu lo sai, la casa che fu di Corrado Alvaro. Uno scrittore molto serio e importante, e poco ricordato oggi. Egli però nella nascosta, selvatica campagna di vallerano non resisteva più di quindici giorni. Voglio dire che anche Alvaro, avendo, come si dice, i numeri buoni, non volle essere un Maestro, non volle o non seppe essere soltanto Scrittore, chiudersi in una stanza imbottita, scrivere quindici ore al giorno come pare facessero i Balzac, gli Zola, i Proust e, con ragionevoli pause, lo stesso D’Annunzio.

Pochi giorni fa discorrevo con Moravia di cose della nostra professione (di chiamarla Arte mi vergogno perfino). Moravia ancora una volta lodava il suo metodo di lavoro: scrivere soltanto la mattina; il pomeriggio e la sera fare altre cose: gli spettacoli, gli amici eccetera. Soprattutto Moravia si vantava di non pensare mai, durante il giorno, a ciò che avrebbe scritto l’indomani mattina. “Io penso mentre scrivo, sono scrittore soltanto mentre scrivo. Lo scrivere è azione. Io faccio dell’action writing“.

Non dico che la regola di Moravia sia valida per tutti o possa essere adottata da tutti. Per esempio io, che ho la natura del dilettante, penso molto a ciò che vorrei fare e faccio poco. Una volta si credeva che l’artista fosse un monomane, un posseduto, un obsédé. Anche i pochi lettori, però, erano dei fanatici. Vivevano intensamente la vita degli “eroi da romanzo”, si esaltavano, si scaricavano in loro. Nel maggior silenzio di allora, nel maggior vuoto o spazio disponibile, nella mancanza o scarsità di informazioni, la lettura (la volupté nouvelle vantata da Thibaudet, il vice impuni lodato da Valéry Larbaud) si incideva in modo memorabile nella immaginazione. Mia nonna, al paese, chiusa in casa tutto l’anno, viveva la sua vita stenta rallegrata dalla sua unica festa (olre la Messa), cioè l’uscita settimanale della puntata di un romanzo su La Domenica del Corriere. Quella lettura le bastava per fantasticarci su, per ragionarci tutta la settimana. I personaggi di Maurice Leblanc, o della Baronessa Orkzy, suppongo, le stavano sempre accanto.

Adesso i lettori, tutti noi, abbiamo a disposizione mezzi più efficienti per scaricarci: cinema, televisione, viaggi, guida dell’automobile e tante altre cose, tra cui, magari, qualche seduta dallo psicanalista. Siamo molto occupati a esaminare, a coccolare, le nostre nevrosi. Ne abbiamo coscienza dotta e precisa e, se siamo scrittori, le utilizziamo senza risparmio, a orecchio o scientificamente. Le nevrosi, magari in misura minore, ci sono sempre state, ma un tempo non si nominavano, cioè, non avendo nome, non esistevano. Neppure il sesso è stato inventato negli ultimi decenni, però anch’esso non era nominato. Entrava nella letteratura non, come oggi, con il suo nome e cognome, ma dietro uno pseudonimo, con una perifrasi di accenno discreto. Si cercava ipocritamente di esorcizzarlo con il rifiuto di parlarne; mentre oggi lo si vanifica a furia di parlarne, mostrarlo, illustrarlo.

[continua]

————

La fotografia di Libero Bigiaretti viene da qui.

[*] Valentino Bompiani, editore.

[**] Se sia opportuno trasferirsi in campagna, di Giovanni Giudici

Gli scherzi, le meraviglie della natura,
i nani, i nidi, le uova con due tuorli,
scoprirli come ti piace – piú sicura
ti fanno che un miracolo é possibile,

non qui ma altrove, dove attraversano
la strada tra bosco e bosco gli scoiattoli,
la vita è vicina, il tiranno invisibile,
e gli uomini, senza fretta, conversano.

Se sia opportuno trasferirsi in campagna
spesso pensiamo: qui ci tiene il lavoro
che non manca, il civico decoro
di cui partecipiamo, la cuccagna

delle vetrine addobbate, dei cinema aperti,
dello stadio, dei dancing, dell’ippodromo,
di ciò che vuoi pronto a tutte le ore
della voglia improvvisa. Ti diverti

anche tu nella festa cittadina,
ma se una sera d’estate troppo calda
l’afa della pianura ti stagna in cuore,
t’affanna il respiro, ti fa meschina,

per noi è facile andare in Brianza,
una mezzora di macchina se è sgombra
la via da chi ritorna, se la danza
dei fari non é cominciata. E l’ombra

è chiara, il giorno ancora non si perde,
la strada sale appena e piú lontana
la cittá piú veri si fanno i paesi:
Desio, Seregno e la musica verde

dei cipressi che avvolgono Inverigo:
bianche, grige, celesti ville, austere
o d’una grazia semplice, un intrigo
settecentesco invitano o severe

meditazioni nel cortile interno:
il sabato una visita in cittá
e a primavere una festa in giardino
per chi le abiterò nel lungo inverno.

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5 Risposte to “Il dito puntato (1967), primo”

  1. Felice Muolo Says:

    Il tempo non esiste, ho scritto qualche giorno fa a Marino Magliani.

  2. macondo Says:

    Profondo, questo inizio di riflessione di Bigiaretti, che fa i conti, da letterato, con il proprio tempo e con la letteratura del proprio tempo.
    Ma aveva ragione Bompiani, però: Bigiaretti non ci ha dato il Romanzo.
    Queste mie due affermazioni stanno tra loro in rapporto di contraddizione, lo so.

  3. Bartolomeo Di Monaco Says:

    Alcuni maestri del Novecento, li trovate e continuerete a trovarli qui, a mano a mano che procederò nelle ricerche del mio archivio:

    http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?cat=34

  4. seia Says:

    Sto ancora aspettando il resto… 🙂

  5. remo bassini Says:

    io li pubblicherò, saranno ottimi libri, se ne parlerà bene, si venderanno bene. E poi? Tu, il tuo libro vero, non vuoi scriverlo. Prendi tempo, prendi mille scuse. Preferisci continuare a impegnare soltanto la tua abilità, la tua capacità. Tu continui a dare il 50, o al massimo il 60% di te stesso, delle tue possibilità. Tu e anche altri…”.

    me lo dico spesso, quindi spesso getto via quel che scrivo.

    o si vive o si scrive. giusto.
    il computer però permette di vivere un po’ di più, ché velocizza la scrittura

    a parte questo: davvero interessante.

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