[Pubblico qui la copia di un articolo di Massimo Adinolfi uscito prima nel quotidiano Il Mattino di Napoli e poi nel blog di Adinolfi, Azione parallela. gm]

M. Adinolfi
Non c’è scampo, tracce della nostra esistenza sono ormai ovunque. Si può esser sicuri che esiste già, da qualche parte, un pezzettino di noi digitalizzato e illimitatamente riproducibile: una voce, un immagine, una notizia che gli onnivori motori di ricerca sono pronti a mettere a disposizione di chiunque. E come le popolazioni indigene, a contatto con gli esploratori europei, rifiutavano di farsi fotografare perché temevano che la fotografia strappasse loro l’anima, così noi oggi temiamo il furto di identità on line, con la complicazione che ben difficilmente possiamo sottrarci ad esso. Quando poi qualche potere pubblico, per il rispetto di qualunque diritto sia stato nel frattempo violato, vorrà provare a cancellare questo enorme archivio di segni, sarà come svuotare il mare col secchiello: e in ogni caso tutto quello che nel frattempo sarà stato scaricato nelle private memorie dei personal computer si sarà sottratto facilmente ai controlli.
Che ora il governo italiano, per bocca del ministro Alfano, stia pensando a come mettere ordine nel mare magno della rete è cosa del tutto comprensibile, se non altro perché spazio virtuale non è sinonimo di zona franca, e il rispetto delle regole deve valere tanto per le strade della città quanto lungo le autostrade telematiche. Ma, come diceva Musil, non si può fare il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: è bene quindi lasciar perdere l’idea che le maglie della rete vadano serrate con lo strumento della legge penale, anche perché non risulta affatto dimostrato che un incremento significativo di reati sia direttamente proporzionale alla libertà di accesso alla rete.
Resta il fatto, si dirà, che in rete si trova di tutto. Il che è vero, come è vero però che di tutto si trova anche nel mondo. L’importante, piuttosto, è sapere dove ci si trova: mettere non divieti, ma se mai un po’ di segnaletica. Dopo di che, è dai tempi di Platone che si tengono in gran dispetto copie, duplicati e riproduzioni: siccome però non c’è modo di evitarle, perché tutto nell’ambito del sapere e della cultura in generale si basa sull’educazione, cioè sulla trasmissione, quindi sulla riproduzione, l’accigliato filosofo cercò in ogni modo di distinguere le copie buone da quelle cattive, quelle che a suo dire rispettavano l’idea (oggi diremmo: i valori) da quelle che invece la sfiguravano. Fatta la distinzione (e non è semplice), avrebbe voluto ritirare dalla circolazione tutte le copie cattive, tutti i racconti bugiardi, tutte le immagini immorali e licenziose. La cosa però non poteva riuscirgli: troppo vasto era il programma. E soprattutto presentava un difetto non da poco: eliminando via via le copie cattive, eliminava anche la possibilità che ciascuno si eserciti nel compiere per sé la distinzione. Ora, che cos’è questa possibilità se non ciò che per secoli abbiamo chiamato anima? Partito col proposito di proteggerla, per eccesso di zelo, avrebbe finito in realtà con l’impedirne la fioritura, che si realizza solo nell’esercizio individuale. Fuor di metafora, e adattando ai tempi: il decoro generale si paga a prezzo del grigiore generale.
Il punto non è dunque se non si debbano limitare gli eccessi, ma come limitarli. Se qualcuno li elimina per tutti, nessuno salvo uno avrà più una cultura del limite. E quell’uno, peraltro, la perderà facilmente, non essendovi nessun altro che potrà limitarlo. Certo, della rete fa spavento anzitutto la dimensione. Possiamo con un clic accedere a miliardi di documenti, file, siti: chi potrà mai scrutinare, ispezionare, controllare questa spropositata mole di dati? Preoccupiamoci allora di regolare il traffico generale, ma soprattutto di affinare il controllo di qualità all’ingresso della nostra anima. Dopotutto, almeno la sua capienza non è aumentata né diminuita di molto.
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