Commiato cerimonioso dal proprio ufficio

by

di Demetrio Paolin

Quindi dopo otto anni vado.

Oggi cammino per l’ultima volta da piazzetta Albarello fino al palazzo, salgo le scale e percorro il corridoio. Entro per l’ultima volta nell’ufficio. Ci sono stato per otto anni e in parte felicemente. Mi mancherà. Io non ero abituato ad avere un ufficio. Prima lavorarvo nei giornali e in redazione c’erano le scrivanie, altrimenti dette desk. Qui ho avuto una stanza piccola come una cella monacale, ma ho potuto appendere le immagini. Ho davanti a me la stampa del San Girolamo di Caravaggio, un quadro che amo moltissimo, subito sotto una foto del Cristo Velato che ho visto a Napoli e accanto una piantina di Torino con le vie. Vicino la dedica di un libro che io ho staccata e appesa, me l’ha scritta Toni Capuozzo e recita: “A Demetrio in attesa di traguardo”.
E’ una frase bellissima e ben augurante.
Soprattutto ora che tutto finisce.

Si chiude l’ufficio e si chiude il lavoro. Vivrò in una sorta di limbo nella nuova sede (non avrò un ufficio mio) da dove credo che me ne andrò presto. Qui, ora sono al mio pc e scrivo, c’è aria di sfacelo. Le stanze sono vuote e c’è solo immondizia e cose da buttare.
Io sono l’ultimo ad andare via. In questi giorni ho visto poco per volta gli operai del trasloco smontare pezzo per pezzo otto anni di vita. Con i loro avvita/svita automatici, cacciaviti e martelli hanno disfatto tutto. Ora c’è polvere, terriccio e io.
Il traslocatore con cui ho stretto amicizia, una amicizia forzosa e coatta ovviamente, è un omone di 100 kg, che da solo alza un armadio, è, però, un animo gentile. Mi ha visto in difficoltà nel preparare i miei scatoloni, perché non sapevo cosa mettere e cosa lasciare, perché era un abbandonare definitivo. Così si è offerto di farlo lui. A me è toccato solo racimolare i libri (2666, Lo strano caso del Dottor Jekill, La strada, Fiasco) e i quadri.

Cosa ha messo nei cartoni il rumeno?
Quando sono arrivato in questo ufficio otto anni fa non avevo praticamente scritto una riga. Avevo smesso e di scrivere e di pensare a scrivere. Mi ero autoimposto una chiusura. Qui, in questo ufficio, ho immaginato e in parte scritto i miei libri, qui ho ricevuto alcune notizie belle.
Ricordo ancora il giorno (era ottobre) in cui avevo appena scoperto, che sarei diventato padre. Arrivato in ufficio, mi sono seduto alla scrivania e sono stato un’ora a guardare fuori da una piccola finestra che dà su via Barbaroux, mentre il sole disegnava strane rifrazioni sui vetri altrui.
Quando un anno dopo mia figlia è venuta qua con sua madre. In quel momento è nato in me il desiderio di fermare il tempo. Credo che il rumeno l’abbia inscatolato anche questo attimo.
Ora che tutto è stato portato via rimane lo sfascio.
Ora chiuso e messo a riparo ciò che amo, rimane la delusione, l’amarezza, la fine.

Sto seduto nella mia scrivania e intorno ho sacchi neri e grigi, bianchi e gialli, dove sono state messe con coscienza civica e premura sociale la plastica, la carta, il vetro e il legno. Così quando questa sera verranno a portarsi via tutto, ci sarà un ordine certo e il minimo spreco.

Di questi otto anni di lavoro cosa ho salvato?
Ho qui sotto mano un piccolo libretto, stampato in proprio, impaginato con un XPress d’annata e pinzato come si poteva. E’ un libretto d’istruzioni che io ho compilato, redatto e corretto su come si legge una busta paga. Mi sono divertito a farlo, e mi è parsa una cosa utile. Uno dei problemi dei lavoratori è il non saper leggere: un tempo, negli anni ’70, era un problema di istruzione, ora nel nostro attuale decennio è quello di non saper leggere il documento che attesta quanto, come e in che modo vengono pagati.
La semplice ignoranza di questi dati li fa più poveri e impotenti. Io ho pensato che fosse importante dare loro in piccolo strumento che gli permettesse di leggere e di capire che cosa ne “fosse” del loro lavoro.
Ho pensato che tale semplice conoscenza fosse sovversiva, che rappresentasse un’azione di sapere, una azione minima di cultura. Quel libro mi piace, è forse il libro di cui vado più fiero, perché è legato al fare. E’ legato al lavoro.
E’ un lavoro ben fatto. Io sono venuto su, sono stato cresciuto, con l’idea che l’unica cosa che possiamo fare è fare un buon lavoro. Un lavoro ben fatto è l’argine a qualsiasi tipo di male, sociale o metafisico. Spero che il libretto sia stato utile a quanti l’hanno ricevuto. Immagino abbiano potuto capire che un lavoro ben fatto è anche un lavoro giustamente retribuito e pagato.

Mi porto a casa, quindi, una consapevolezza: non sarò mai un uomo di potere, non sarò mai un uomo sedotto dal potere e neppure al suo servizio. Tale convinzione, nel mio futuro, mi darà qualche problema, perché io so che ogni lavoro è anche un rapporto con il potere.
Nel mio campo poi, la scrittura e la comunicazione, è solo rapporto con il potere.
Io ho un problema con il potere. Penso che il potere usi parole, stilemi, modi di entrare in relazione con la gente, che non corrispondono ai miei. Il potere mi ha sempre chiesto di imbonire, di convincere cercando di vendere. Io ho sempre pensato che la schiettezza fosse il modo migliore per fare il mio mestiere.

Io mi considero un tecnico. Un tecnico, pur nella serietà del suo lavoro e nella considerazione sempre alta di quello che compie, possiede un dote distintiva: l’ironia. Ora il potere, anche quello che in questi anni io ho servito, il quale non sembra potere ma è potere in tutto, odia l’ironia perché smaschera, perché mostra i meccanismi, perché rivela.

Io sono tecnico della comunicazione e quindi non posso fare a meno di usare l’ironia. Al potere tale attitudine non è piaciuta, perché rendeva la mia comunicazione non istituzionale. Il non essere istituzionale è una pecca per il potere, perché l’istituzionalità è per il potere una maschera utile per continuare a esercitare la sua funzione specifica ovvero mantenere il potere.

Io ora so questo meccanismo, che un tempo semplicemente intuivo, e con questa conoscenza prendo commiato dal mio ufficio, mentre l’amico rumeno smonta anche l’ultimo armadio.
Mi accommiato consapevole che ho fatto un buon lavoro e che oggi c’è il sole e un caldo buono, e sarebbe un peccato sprecarli.
Il potere, però, questo non lo capisce: e qui sta la sua debolezza.

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5 Risposte to “Commiato cerimonioso dal proprio ufficio”

  1. andrea branco Says:

    (-: ciao dem.

  2. patrizia patelli Says:

    io ti conosco per averti letto e perché in te c’è torino, la mia citta, dove non vivo più. penso che anche stavolta hai scritto una pagina molto bella e ti auguro tante altre giornate calde di sole. sperò però che il traguardo non arrivi mai, è più dura ma è più piena e più bella la corsa. ciao. patrizia

  3. Francesca Ontini Says:

    Letto.
    Molto bello.
    E adesso vado affanculo come mi hai appena invitato a fare.

  4. silvia Says:

    capisco…ti auguro nuovi benvenuti, dopo questo congedo.

  5. Bartolomeo Di Monaco Says:

    “Vivrò in una sorta di limbo nella nuova sede (non avrò un ufficio mio) da dove credo che me ne andrò presto.”

    Ti faccio tanti auguri, Demetrio.

    Bart

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