[Questo articolo di Giuseppe Genna apparve in I Miserabili il 9 marzo 2005. Nei prossimi giorni il libro Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, pubblicato nel 2000 da Einaudi, sarà reso gratuitamente prelevabile, in formato pdf, qui in vibrisse. gm]
Compio un’operazione in corpore vili: non il corpo del giudizio critico, diciamo invece sul corpo del giudizio allucinatorio. Non so se questa ulteriore dimostrazione della mobilità del criterio miserabile possa essere utile a comprendere la modalità acritica che guida la stesura dei miei interventi su queste pagine. E’ più probabile che la cosa indigni o si pensi a una gratuita operazione estetica o, peggio, a un’indebita leccata di culo. Nelle mie intenzioni, invece, si tratta di mostrare come un criterio aperto sia l’approccio alla storia e ai testi che, su queste pagine, mi interessa. Trovo che una religione indegna e innaturale sia quella della cristallizzazione del giudizio e dell’attenzione. Non è cristallizzando, e soprattutto non è cristallizzando il criterio che fattosi linguistico, che si può – letterale – godere la storia. Io godo della storia per immersione e movimento, per abbattimenti sequenziali del me, dell’idea che non può essere unica. Un simile movimento cade sotto leggi fisiche molto sottili, la cui grammatica cerco di chiarire nell’area Ultrapsichica.
Veniamo dunque all’enunciazione di un frame del movimento a cui è sottoposto il miserabile criterio: il finto poema a firma Giulio Mozzi Il culto dei morti nell’Italia contemporanea (Einaudi, 2000) è un libro fondamentale per la letteratura italiana.
Il libro in questione mi ha fruttato parecchi attacchi, per una stroncatura (qui leggibile) [e anche in qeusto post, più sotto. gm] che, ai tempi, il 15 giugno 2000, comminai a Mozzi su Società delle Menti, l’area letteraria di Clarence, portale per cui ai tempi lavoravo assunto a tempo indeterminato.
A fronte di quegli insulti che perpetrai ai danni di Mozzi, ora salto fuori a dire che Il culto dei morti è un testo fondamentale? Sono matto? Sono esibizionista? Sono bizzarro? Sono dadaista? Sono leccaculo? Sono stronzo? Sono nazista? Sono comunista? Sono?
E perché sarebbe fondamentale questo libro, allora da me deprecato?
In cinque anni il contesto storico in cui il finto-poema di Mozzi è apparso si è radicalmente mutato.
Faccio un po’ di storia dei sintomi.
Il 15 maggio 2001, recensisco entusiasta (qui) un testo che viene pubblicato nella collana poetica einaudiana: si tratta di Nelle galassie oggi come oggi, improbabilissima raccolta di poesie (in realtà cover da canzoni popolari, cioè pop) scritte da Raul Montanari, Aldo Nove e Tiziano Scarpa. Si tratta di un titolo che – credo – ha stracciato ogni record di vendita nel settore della poesia contemporanea. Perché? E’ semplice: non si trattava di poesia. Si trattava di una cosa strana, che per molti critici e poeti fu non tanto esotica quanto imbarazzante, la quale univa performance, meditazione sul proprio tempo, azione letteraria significativa (da signum facere: segnalava). Non era poesia. Non c’era riflessione sul “poetico”, c’era una ricollocazione radicale del “poetico”, piuttosto. La metrica andava a gambe all’aria: si rispettava la metrica tradizionale in certe parti (il che equivale a mandarla a gambe all’aria), mentre in altre parti si dimostrava una clamorosa insensibilità a quel piano della lingua che è ritmo, batticuore auditivo, scansione di vuoti e pieni. Nelle galassie oggi come oggi non sembra attualmente incluso in una tradizione poetica: non appare nelle antologie, i critici di poesia e gli stessi poeti non ne parlano mai, viene considerato un non memorabile incidente di percorso. Se ciò accade, è perché quella raccolta non ambiva affatto a collocarsi nella tradizione poetica. Realizzava, d’altronde, tutt’altro intento, che si potrebbe definire di apertura. Apertura rispetto a cosa? Rispetto all’illegittimità che sembrava frenare una vasta schiera di scrittori. Una simile illegittimità faceva conto su criteri immobili. Essa illegittimità veniva addossata a scrittori che non avessero ottenuto previamente un consenso rispetto a canoni ortodossi. Scarpa e Nove, molto noti ai tempi per il boom estatico/comunicativo che li aveva lanciati nell’àmbito dell’operazione marketing dei “Cannibali”, apparivano troppo bizzarri, al limite del comico, per rivestire il ruolo di scrittori allineati coi criteri immobili dell’ortodossia critica. Montanari sembrava un loro amico, più che un autore di molti libri e un eccezionale interprete della cultura classica. In quel momento, Moresco doveva ancora ricevere le gratificazioni che si sarebbe conquistato da parte di un presente vasto, il che sarebbe accaduto a partire dall’anno successivo. Pincio era un alieno. I Luther Blissett, poi Wu Ming, erano minacciosi sì, ma anche loro fuori dal raggio dell’ortodossia critica, lavoravano coi generi popolari, e mammamia per l’ortodossia!, i generi popolari puzzavano e puzzano. Evangelisti era un autore di paraletteratura. Insomma, una situazione estremamente ambigua. E il trio Montanari-Nove-Scarpa va a piazzare un ordigno nel sacrario della poesia: la collana bianca Einaudi.
Era un segno del tempo.
E quel tempo lo aveva iniziato Giulio Mozzi.
Non desidero, qui e ora, entrare nel merito del testo Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, che resta a mio avviso antipoetico, bensì dell’operazione e del significato dell’opera di Mozzi. Mi sto muovendo sul piano della sociologia letteraria in coincidenza con quello delle poetiche. A distanza di anni ravvedo un movimento coerente, e quasi profetico, di cui Mozzi è stato il disarmato (e per me disarmante) cominciatore. Posso definire il movimento in questo modo: Mozzi ha intuito che la narrazione italiana non può prescindere dalla poesia e che, se esiste una tradizione della prosa italiana, essa è indisgiungibile da quella poetica. A dirla così, è una constatazione banale. E’ dalla Vita Nova di Dante che lo sappiamo. E’ dalle opere di Campanella e Bruno e Galileo che ci viene ribadito. E’ passando attraverso la cruna dello Zibaldone prima, dei Promessi Sposi poi, quindi di D’Annunzio e Pascoli, e poi di Gadda, giù giù fino al Petrolio di Pasolini, che si enuncia in Italia questa verità: la tradizione prosastica italiana è la medesima tradizione poetica. La struttura del Decameron è una retorica poetica. La struttura del romanzo italiano è poetica. Se c’è un motivo per cui dobbiamo guardare con attenzione alla letteratura italiana contemporanea è che essa si sta facendo poeticamente.
Questo incerto farsi poetico della storia attuale della nostra narrativa credo abbia in Moresco il suo esempio più evidente, grazie soprattutto alla banale discriminazione tra i luoghi dei Canti e gli altri brani di prosa nei Canti del caos, ma anche grazie all’evidente strapazzamento che Moresco impone alla forma romanzo: strapazzamento poetico.
Se si va a cercare l’allegorema, nella narrativa italiana di oggi, si noterà come il trattamento del genere storico, in Evangelisti e Wu Ming, sia ben più profondo della qualificazione stilistica che gli viene concessa. E’ la visio medievale il più opportuno dei riferimenti retorici per intraprendere la lettura di Mater Terribilis o di 54. Sia chiaro che qui l’allegoria viene reinterpretata secondo i canoni di una contemporaneità che si sta facendo. Il che, mi pare, è proprio delle tradizioni: esse si innovano così, divengono e trascorrono autodepositandosi e autostravolgendosi in questo modo.
Uno degli esordi più folgoranti di questi anni è stato per me quello in prosa di Mario Desiati, il quale è anzitutto un ottimo e conosciuto poeta. Christian Raimo scrive una raccolta di racconti intorno a temi di poemi biblici reinterpretati in chiave apparentemente popolare (pop) e autobiografica (un’autobiografia collettiva), e fuori dalla prosa egli è autore di apprezzati versi. Se ho parlato di capolavoro a proposito di Perceber di Leonardo Colombati, è stato proprio per la sensazione di lavoro poetico, sotterraneo ma non sottaciuto, che mi ha comunicato l’esplorazione della struttura del suo enorme romanzo. Del resto, entusiasta già di M., altro esordio italiano, questa volta di Tommaso Pincio, mi ero domandato perché mi pareva di avere incontrato un grande autore italiano, e mi risposi che era per la sapienza di modulazione della lingua e della sottolingua, di carattere eminentemente poetico, e anglosassone soprattutto, assai vicino alla costruzione dell’allegoria in Shakespeare.
Purtroppo, su un piano critico, l’ortodossia italiana appare ancora invelenita dalle categorie con cui la neoavanguardia si è autoimposta. A considerare i testi e le operazioni dei prosatori italiani, che mi paiono a gradi diversi intrisi di poesia, si è caduti spesso in un giudizio superficiale: queste sarebbero (sarebbero state) opere d’avanguardia.
E’ ciò che, precisamente, mi irritava nell’aprire Il culto dei morti nell’Italia contemporanea, ma anche nel leggere le Galassie: sembravano performance, c’erano testi performativi (in Mozzi, in una sezione, addirittura si scriveva una performance recitata con Caliceti; in Montanari Nove e Scarpa direttamente tutti i testi nascevano come performance). La performance è una nozione retorica esplicitamente di neoavanguardia. Che senso aveva stravolgere il farsi della lingua con un recitativo sconnesso? La risposta l’hanno data gli anni seguenti, fino a questo 2005: il senso di quell’operazione era il tempo stesso, il fatto che sarebbe emersa sempre più a conati violenti questa demistificazione della tradizione narrativa italiana.
Il pensare per strutture, esattamente come Pasolini pensa per strutture Petrolio, è lavoro poetico.
Tutto ciò mi è diventato assai chiaro quando, discutendo con Mozzi, ho avuto conferma di quello che avevo iniziato a sospettare. C’è una vulgata, a cui facevo provocatorio riferimento nell’insultante stroncatura su Clarence, che accompagna Mozzi da sempre. Si tratta dell’accusa di minimalismo, sterilità, vocazione alla sagrestia morale della tradizione letteraria cattolica. Il culto ebbe su di me l’effetto bifido di farmi inalberare e di farmi sospettare. Aveva ragione, a mia detta, il sospetto. Avevo il sospetto che dietro l’algida maschera stilistica di Mozzi si nascondesse un narratore rabelaisiano – cioè un narratore/poeta e precisamente un poeta che annulla la distinzione tra lirico ed epico. Diciamo: un narratore/poeta tragico, e comico ovviamente (se uno è tragico, è anche comico). Credo che il sospetto verrà velocemente confermato o smentito.
Ciò che conta è comunque che, nel movimento in divenire della nostra narrativa, Mozzi ha messo ai miei occhi un paletto imprescindibile. La questione allegorica e, via via secondo canoni danteschi in profondo e antipetrarcheschi in superficie, quella della letteratura civile, della religione, della famiglia e della formazione sono stati rappresentati in un libro apparentemente di poesia, scritto da un narratore. Non mi importa che questo testo si depositi o meno nella tradizione: qui mi interessa una sintomatologia che solo in seconda battuta ha a che vedere con la questione del deposito tradizionale, del catalogo. Credo che quello fosse un momento confusivo, per l’autore del Culto (e non soltanto per lui). Credo che quella confusione sia andata chiarificandosi. Però credo anche che, in quella confusione, Mozzi avesse intercettato qualcosa di importante che, nell’immediato futuro, avrebbe preso corpo. Per me, ad altezza 2005, ha preso ben più che corpo.
A questo punto sarebbe bello enunciare un sogno. Ho provato a enunciarlo in privato ad amici, adesso lo enuncio pubblicamente. Mi piacerebbe tantissimo che prosatori e poeti italiani, raccolti sotto un nome collettivo, lavorassero a un enorme poema cosmogonico in poesia e prosa, tutti insieme anonimamente. Mi piacerebbe verificare cosa ne verrebbe fuori. Quest’idea non è mia. E’ una suggestione che lanciò Antonio Riccardi nel 1993. I poeti interpellati, a quei tempi, non diedero seguito alla cosa. Poiché il criterio è liquido soltanto per continuità della sostanza che è liquida, quella suggestione è rimasta intatta, con il suo conturbante fascino, a dodici anni di distanza e di flutti.
Vedremo.
Lo sfascio
di Giuseppe Genna
[Questo articolo di Giuseppe Genna apparve in Società delle menti il 15 giugno 2000]
Perché? Davvero, chiediamocelo tutti con umiltà: perché? Perché in Italia, terra che nel Novecento ha prodotto probabilmente il miglior movimento poetico planetario, viene pubblicato uno pseudopoema a firma Giulio Mozzi? E’ desolante sapere di vivere in un Paese che diffonde via etere Alcatraz e che si fregia di una firma falso-poetica come quella di Giulio Mozzi. L’assurda poemessa, debordante e inutilmente prosastica, si intitola mestamente Il culto dei morti nell’Italia contemporanea. E’ un delirio mozziano, finto pulp, ipocrita e umidiccio come solo certo beghinismo veneto sa essere, represso sessualmente, assente linguisticamente: una vacanza del cervello, del polso e della tastiera del computer (Mozzi usa un Mac o un pc?). Non esiste un verso che sia metricamente un verso, nella poema del Mozzi. Poverino, Egli tenta di emistichiare, ma non gli riesce. Acuto osservatore di quel che fanno gli altri (è amico di Stefano Dal Bianco, uno dei migliori giovani poeti italiani), Mozzi copia male, fa correggere peggio, perché quando si è a questo punto dello sfascio cercare di porre rimedio è deleterio. Inutile tentare l’inanellamento di settenari, quando un verso non sai cos’è. E c’è di peggio.
C’è tutta la moralina biecamente debole e aggressiva del peggior Mozzi, autore – a questo punto – di un unico libro valido (il primo: e solo alcuni racconti). Tra mali naturali, giardini propri e altrui, visioni terrestri mimeticamente inoffensive e intenzionalmente crudeli, da anni Mozzi cullava il sogno di una poemessa. Voleva una nuova occasione per fare sapere che, oltre al suo indirizzo, si può scrivergli anche a un indirizzo di posta elettronica.
Vergogna. Vergogna, Mozzi. Vergogna perché hai sfruttato l’ingiusta fama (unicamente salottiera: il popolo non ti conosce) per pubblicare da Einaudi un libro che non è di poesia e, in effetti, non è nemmeno un libro. Poeti seri li conosci: i Benedetti, i Dal Bianco, i Riccardi sono tuoi amici o ex amici, gente che, soltanto in quanto ciò che scrive è vissuto con passione, meriterebbe un po’ di rispetto. Rispetto che dovrebbe convincerti a non tentare le impervie strade dell’endecasillabo che, disperatamente, cerchi senza trovare…
25 febbraio 2009 alle 10:37
Il giudizio, oggi, rimanendo sul piano della fenomenologia letteraria, si sposterebbe su quello della teoria letteraria e sarebbe nuovamente mutato, intorno al “Culto”. Direi oggi, sinteticamente quanto, forse, cripticamente (nel qual caso mi scuso): Mozzi, con altri, dà storicamente l’avvio, per la mia generazione letteraria, al tentativo di rappresentazione contemporanea del nucleo tragico. Tale nucleo tragico è, a mio avviso, il discrimine che porta, per concordare con certe affermazioni di Pincio e conciliarle con altre categorie mie e di WM1, il discrimine, la faglia tra un romanzo propriamente novecentesco e un romanzo contemporaneo. Finché non si sia riusciti a “fare la tragedia” in termini di scrittura, non è per me possibile parlare di romanzo contemporaneo. Io credo che Giulio Mozzi, a partire proprio dalla riflessione (ripeto: non formale, non stilistica) proposta col “Culto”, sia lo scrittore che maggiormente si avvicina in Italia alla rappresentazione del tragico. Tale rappresentazione è possibile, a mio e solo mio avviso, in una concreazione prosastico-poetica. Chi è il coro? Chi è l’eroe? In cosa consiste, se non in una teologia, la nemesi nel contemporaneo, come in ogni tempo? Ma quale nemesi in un tempo che fa della teologia il nemico oggettivante della metafisica? Il ragionamento attuale sull’epico è incompleto se non si sposta sul tragico. Nemmeno è da fare un ragionamento, credo, sul tragico: è da scrivere l’opera. Lo “Zibaldone” è il tragico, per me. “Petrolio” è il tragico che abolisce se stesso, un tragico anti-trascendentale e tutto psichico. Attualmente la tragedia contemporanea italiana mi sembra prema all’orizzonte. Sono due gli autori che hanno spinto, secondo me, in questa direzione: e sono Mozzi e Pincio. Per quanto mi concerne, QUESTO è il problema del contemporaneo. Se devo prevedere oggi una tragedia letteraria scritta da Mozzi, vedo un movimento: certo esiste un temperamento rabeleisiano di Mozzi, di cui non so se Giulio si accorge e che forse è una mia proiezione su di lui e su quanto ha scritto finora; ma l’approdo è “Body Art” di DeLillo, che per quanto mi riguarda è l’unica tragedia, insieme a “Lunar Park” di Ellis, che la mia contemporaneità abbia prodotto. Come osserva Demetrio Paolin, per questo intreccio DRAMMATICO (dràma) è necessario uscire dall’io. Escono dall’io gli alieni: coloro che paiono alienati e non lo sono, sono slittati verso un incanto che tiene tutto il mondo e trascende l’io.
26 febbraio 2009 alle 00:21
a costo di beccarmi cariolate di ortaggi, trovo un’insopportabile somiglianza (e si che le somiglianze sono effetti del tutto autonomi dal testo) con questo lavoro e Il Paterson, di William Carlos Williams. Entrambi, nel mio immaginario, sposano quel tentativo, riuscitissimo in entrambi i casi, di coniugare la poesia con la prosa. Rendendola un ibrido, d’accordo, ma capace di emozionare come una polaroid ritoccata a pastello.
26 febbraio 2009 alle 14:48
Paterson tocca per me un nucleo epico, rifacendo l’epica a partire da un pensiero sull’epica: straordinario, sia chiaro. Ciò che fa Giulio è invece secondo me qualcosa che va in direzione del nucleo tragico, a partire da uno scarto di qualunque pensiero sul nucleo tragico, ma arrivandoci per esperienza che difficilmente è dicibile: di qui gli azzardi formali, la libertà che si è preso e immagino si prenderà – quella di sbagliare. Per me, uno scrittore in qualunque contemporaneità, se è scrittore, agisce così…
26 febbraio 2009 alle 19:34
Il “Paterson” di William Carlos Williams è un poema bellissimo. Io lo comperai quando avevo credo quindici o sedici anni, nell’edizione Accademia che credo sia l’unica italiana (e che ora, per chi fosse incuriosito, è ristampata negli Oscar Mondadori – testo a fronte).
giulio mozzi
26 febbraio 2009 alle 20:46
ps. è la stessa edizione che possiedo: “un uomo come una città” a cura di Alfredo RIzzardi, Lire 8000 (ri-etichettato). Ricevuto in dono. Mai più gradito.