Pulp oggi, quale domani? Il caso italiano (1996)

by

di giuliomozzi

[Questo articolo apparve, nell’agosto del 1996, nel periodico in rete Nautilus. E’ interessante confrontare le discussioni letterarie di dodici anni (e mezzo) fa con quelle di oggi. I prezzi, ad esempio, sono in lire. gm] [Sullo stesso argomento: Istruzioni per scrivere un racconto cannibale]

L’anno del pulp – Gli interventi di Giulio Ferroni e del Gruppo 63 – Un tentativo di definire il pulp – «Il pulp in letteratura», un incontro a Venezia organizzato dall’associazione Walter Tobagi

L’anno del pulp. Per la narrativa italiana il 1996 è stato, così si dice, l’anno del pulp. Durante la primavera e l’estate le cosiddette pagine culturali dei quotidiani e delle riviste illustrate ne hanno parlato a iosa, sostanzialmente dicendo: c’è una nuova anzi nuovissima generazione di narratori; il loro riferimento culturale è il film Pulp Fiction di Quentin Tarantino; raccontano di orrori metropolitani con tanto sangue, liquidi organici vari, superviolenza ovunque e così via; oltre che pulp sono trash e splatter; seppelliscono il passato con uno sputo (catarroso); sono cattivi anzi cattivissimi, nonostante l’aria angelica che si danno nelle fotografie con occhi dolci e gattoni a pelo lungo; la loro morale, se ne hanno una, è il cinismo; sanno di essere, come scrittori, pura merce; e ne godono; e chi più ne ha più ne metta.
I campioni di questa nuova ondata sarebbero: Aldo Nove autore di Woobinda e altre storie senza lieto fine, Castelvecchi; Tiziano Scarpa autore di Occhi sulla Graticola, Einaudi; Nicolò Ammaniti autore di Fango, Mondadori; Giuseppe Caliceti autore di Fonderia Italghisa, Marsilio; e, un po’ meno citata, Isabella Santacroce autrice di Fluo, Castelvecchi.

L’intervento di Giulio Ferroni. La discussione si è riscaldata all’inizio di maggio dopo un pesante intervento anti-pulp da parte di Giulio Ferroni (docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma; autore di una fortunata Storia della letteratura italiana per le scuole [4 voll., Einaudi] e del recente saggio Dopo la fine: sulla condizione postuma della letteratura [Einaudi, pp. 199, L. 34.000]). Nel Corriere della Sera del 30 aprile Ferroni scriveva:

Nel consumo culturale continua ad imperversare, anche se in modo sempre più stanco, il mito della trasgressione: la mentalità diffusa e il chiacchiericcio intellettuale sembrano pretendere che le forme artistiche si pongano come trasgressive, chiedono a chi le esercita di essere trasgressivo o scomodo. Il cinema e la televisione diffondono modi di rappresentazione e di comportamento basati sulla trasgressione, mettendo in primo piano il sesso, la violenza, il desiderio rivolto verso oggetti tradizionalmente protetti e “proibiti”, l’esibizione e la visione di ambiti della vita e dell’esperienza un tempo “riservati”, custoditi da qualche pudore. La trasgressione si collega in realtà dalla velocità della comunicazione contemporanea e a quella ricerca di effetto immediato, di turbamento del destinatario, che costituisce il principio su cui si basano i media e che trova la sua manifestazione esemplare nella pubblicità.
Nella narrativa, giovane e meno giovane, sembrano oggi molto diffusi dei generici modi “trasgressivi”: una letteratura che si sente alle corde rispetto a forme culturali più veloci e più “visibili”, sembra potersi fare strada solo con la provocazione e con l’eccesso, immergendosi in deformazioni, poltiglie, cattiverie di tutti i tipi, manipolando il sesso in tutte le forme e le scomposizioni possibili. Sono cose con cui la letteratura ha sempre commerciato. Ma ora si ha l’impressione che queste trasgressioni si riducano alla conformistica riproduzione di un imperativo posto dai media, a giochi di plastica e polistirolo, trascrizioni da pulp fiction: atti con cui lo scrittore sottoscrive la nullificazione dell’esperienza, ratifica la perdita di ogni significato e di ogni terreno “civile” e condiviso, si piega al dominio dell’effetto pubblicitario. In questo gioco alla trasgressione si consumano qualità eccezionali, intelligenze e talenti che fuggono dal raccogliersi dentro di sé, credendo di affidarsi al vortice della comunicazione, alla scena indiavolata del presente.

Gli interventi del Gruppo 63. Alla posizione di Ferroni, dichiaratamente conservatrice (e che si ritrova espressa più lungamente nel capitolo “Per un’ecologia letteraria”, conclusivo di Dopo la fine), si sono velocemente opposti gli organizzatori dell’annuale incontro “RicercarE” di Reggio Emilia (10-12 maggio), ossia i cosiddetti ex del Gruppo 63 o ex Neoavanguardisti: Nanni Balestrini, Renato Barilli, Guido Guglielmi, Edoardo Sanguineti sono intervenuti a più riprese.

Nanni Balestrini: Ferroni sostiene un’ipotesi critica assurda. Esistono dei nuovi, bravissimi narratori: Brizzi, Ballestra, Culicchia, Scarpa, Ammaniti. Il loro merito è d’inventare un linguaggio, che può anche esprimersi in termini violenti come quello di Ammaniti. Ma questa prosa non nasce negli uffici o tra le quattro pareti di un appartamento, bensì descrive una realtà tremenda, aggressiva proprio come quella in cui viviamo. [La Stampa, 4.5.96]
Edoardo Sanguineti: La rivolta anarchica è il vero valore del secolo. I migliori frutti del Novecento, in tutti i campi, da quello politico a quello letterario-filosofico, hanno origine da una trasgressione rispetto all’esistente. Il nuovo genere letterario “letteratura giovanile”, nato negli ultimi anni, e cioè una letteratura non solo scritta da giovani ma che parla anche dei giovani, del loro mondo del rock, della tv, dei computer, è anch’essa trasgressiva. Per anni ho avuto l’impressione che gli ultimi racconti e romanzi validi li avessero prodotti Manganelli, Moravia, Arbasino, Calvino. Le generazioni successive, Tabucchi o la Tamaro o Del Giudice, non mi sono sembrate degne d’attenzione. Finalmente è apparsa sulla scena letteraria una generazione di tutto rispetto, cioè Brizzi, Ballestra, Campo, Culicchia. Bravissimi Caliceti e Scarpa. [La Stampa, 4.5.96]
Renato Barilli: Il compito di ogni narrativa che si rispetti [è] portarsi al di là del noto, frugare in nuovi terreni di caccia. Beninteso, è possibile farlo in modi freddi, cauti, o invece virulenti, carichi all’eccesso: due vie che non si escludono, non implicano che l’una condanni l’altra. Si pensi ai cosiddetti “nuovi romanzieri” emersi negli anni Ottanta, tesi tra la polarità rappresentata da Andrea de Carlo e da Aldo Busi. Certo, statisticamente oggi prevalgono i trasgressivi “caldi”, virulenti, portati a praticare un qualche manierismo; ma l’intera ricerca artistico letteraria è sempre questione di maniere, di scelte stilistiche; non si può pretendere da essa la medietà, lo specchio docile e conforme. Per questo sulla ribalta internazionale si è recuperato il linguaggio provocatoriamente basso di Céline, rispetto alla prosa composta e linguisticamente ineccepibile di Proust. Che la vita abbia subito un’accelerazione, è sotto gli occhi di tutti, e allora perché gli scrittori giovani dovrebbero “rallentare”? Come pretendere che i nuovi autori rientrino in una grammatica o in un lessico sempre più ossificati e lontani dall’attualità? [Corriere della Sera, 7.5.96]

Il dibattito è poi proseguito a lungo, tutto sommato senza vera discussione, con qualche parola pesante e successivi ribadimenti delle posizioni. Curiosamente, solo buoni ultimi sono intervenuti (o hanno avuto lo spazio per intervenire) i diretti interessati: gli scrittori. Un seminario tra scrittori allestito in tutta fretta da Alessandro Baricco presso la Scuola Holden di Torino (24-26 maggio) ha avuto probabilmente meno risalto di quello che meritava; il confronto tra scrittori è ripartito in luglio con alcuni interventi su Tuttolibri (rilanciato da Mauro Covacich, la cui posizione si trova espressa più avanti).

Una definizione del pulp. Nel frattempo la più precisa e circostanziata definizione del “genere pulp” (ossia dell’oggetto di cui si sta parlando) è arrivata dal critico Fulvio Panzeri (curatore, tra l’altro, di un’antologia di nuovi narratori: I nuovi selvaggi, Guaraldi):

I narratori realmente “pulp” sono due: Aldo Nove (…) e Nicolò Ammaniti (…). Qui l’assenza della realtà diventa orrore, anche perché, soprattutto in Aldo Nove, ogni limite, anche morale, è superato. La degenerazione di un tessuto non è un gioco, ma adombra dietro di sé una tragedia, quella che i personaggi, pubblicamente o televisivamente presenti di Aldo Nove, sembrano nascondere nell’anima rubata dallo schermo televisivo. Che è poi anche una realtà raccontata da Ammaniti, anche se non così lucidamente evidente. I linguaggi qui sono estremamente liberi, ma non gergali: la realtà tragicomica e delirante presenta l’impossibilità ad abbandonare una condizione da “schermo televisivo”. Non si vive più davanti allo schermo, ma la realtà ha assunto la dimensione stessa dello schermo. E queste scritture sono a collage, frammenti di storie, spesso interrotte, immagini frammentate, da cui è assente l’esperienza della “naturalità”. Non c’è cielo, non c’è terra in questi paesaggi o se vengono assunte sono solo nell’ottica di una ripresa cinematografica. Questa cancellazione avviene in quanto il corpo non assume più la reale consistenza, ma diventa parte, nella sua costruzione artificiale e quasi pubblicitariamente definita, di un “non-luogo” imprecisato e chiuso, come identificazione di una carcerazione tra pareti, dove solo lo schermo nella sua freddezza statica origina gli spazi e contemporaneamente li cancella. Non c’è più dimensione morale, ma solo un impulso ad agire, senza condizioni, senza convinzioni. Prospetticamente osservando un vuoto, senza averne coscienza. [Avvenire, 10.5.96]

Il pulp in letteratura: un incontro a Venezia. L’associazione culturale Walter Tobagi ha invitato il 13 agosto a Venezia (Forte Marghera), per discutere su Il pulp in letteratura, alcuni giovani scrittori ufficialmente pulp e altri ufficialmente non-pulp: Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Roberto Ferrucci, Romolo Bugaro, Mauro Covacich e Giulio Mozzi. Questo il sugo degli interventi.
Tiziano Scarpa si è lanciato in un’avventurosa interpretazione di Pulp Fiction. Nel film c’è una scena ricorrente: per tre volte John Travolta va al cesso e legge un libro seduto sulla tazza, e per tre volte quando esce trova che fuori è cambiato tutto: c’è una sparatoria in corso, oppure la ragazza che lui deve accudire si è fatta un’overdose, oppure c’è un killer che l’aspetta (e l’ammazza). In Pulp Fiction quindi il legger libri: a) è un’attività che fa cagare; b) è pericoloso e fa morire. Il pulp uccide la letteratura seria. Il fatto è, ha proseguito Scarpa, che oggi lo scrittore non si confronta solo con il linguaggio puro, ma ha che fare con icone, sagome, “miti”, oggetti che vengono ficcati nella coscienza (e nel linguaggio) di tutti, volenti o nolenti. Quindi, nel cercare una lingua propria, lo scrittore deve fare i conti anche con queste “icone”; non ha senso limitarsi a ignorarle. E difatti, ha concluso Scarpa, in tutti i lavori degli scrittori presenti si può trovare del pulp: Nove a parte, Ferrucci racconta in Terra rossa (Transeuropa) una storia d’amore in parallelo con le vicende (lette su Novella 2000 e Eva Express) di Bjorn Borg e Loredana Berté; Covacich in Colpo di lama (Neri Pozza) offre come co-protagonista un barbone che fa collezione di spazzatura; in alcuni racconti di Indianapolis (Transeuropa) Bugaro presenta un universo di piccoli delinquenti comuni che estraggono i loro modelli dal cinema e dalla tv; Mozzi in La felicità terrena (Einaudi) costruisce un racconto su misura per su un’icona: Paperoga, cugino sfigato di Paperino.
Aldo Nove ha tentato una universalizzazione del pulp, rintracciando elementi pulp nella letteratura di ogni tempo. Achille e Patroclo in fondo cos’erano, se non dei bestioni capaci solo di appetiti elementari e di sfasciare tutto? E da allora ai giorni nostri il pulp impera, ha sostenuto Nove, fino ai due capolavori pulp (o trash, bisognerebbe discuterne) del Novecento: Socialista di Dio di Sergio Zavoli e Visti da vicino: parte prima di Giulio Andreotti (soprattutto il pezzo su “come conobbi Milva”). Ridendo e scherzando, Nove ha svuotato di senso la parola “pulp”, mostrandone l’inconsistenza e l’inutilità come categoria critica. Ci hanno messo addosso l’etichetta di narratori pulp, ha detto Nove, e volentieri ce la siamo presa; tanto, una vale l’altra; non scriviamo certo per l’eternità, oggi abbiamo avuto i nostri quindici minuti di celebrità (come diceva Andy Warhol), tra quindici minuti li avrà qualcun altro. Abbiamo giocato, ci siamo divertiti, è anche bello che possa giocare e divertirsi qualcun altro; lasciamo volentieri il posto.
La messa in scena della violenza nel pulp, ha sostenuto Mauro Covacich, è talmente esagerata e grottesca che fa solo ridere. Non produce cambiamenti nella coscienza del lettore: si ride, e si passa oltre. Se si mette in scena la violenza, allora lo si faccia per smascherarla; la messa in scena della violenza senza smascheramento ma per puro divertimento diventa cattiveria da salotto del tutto priva di contenuto etico. E comunque non è credibile la scrittura di puro divertimento: noi tutti, ha detto Covacich, dedichiamo tempo e concentrazione alla scrittura, ne facciamo la cosa più importante della nostra vita: forse c’è un rischio di deresponsabilizzazione in questa insistita sottovalutazione della scrittura, della letteratura, della durata nel tempo ecc.
Giulio Mozzi ha azzardato una definizione di pulp come trattamento parodistico di generi letterari popolari: lo smascheramento della violenza dovrebbe avvenire proprio attraverso una messa in scena che conservi il distacco ironico. In assenza di ironia (come nel caso di Ammaniti) valgono le osservazioni di Covacich.
Romolo Bugaro ha chiamato in causa l’informazione e la critica letteraria: nobili attività che servono, sono utili, sia al pubblico per essere informato sia agli stessi scrittori. Ora, il pulp è un’invenzione dell’informazione letteraria, assunta poi anche dalla critica: ma è una categoria seria? A render conto della cosa dovrebbero essere chiamati altri, non gli scrittori che al massimo, come appunto hanno fatto Nove e Scarpa, hanno cavalcato la situazione per ottenere un minimo di visibilità. Analoga la posizione di Roberto Ferrucci, che ha sottolineato le diversità tra gli scrittori presenti all’incontro. Una diversità bella e positiva, che dimostra che i giovani scrittori agiscono e pensano, al di là delle etichette appiccicate come soprannomi. Peccato che le occasioni d’incontro e confronto, necessarie per far fruttare queste diversità, siano poche.

Una conclusione provvisoria. Per chi non lo sapesse ancora, la parola pulp (il cui senso letterale è “polpa”) viene dai pulp magazines, riviste che negli Usa venivano stampate su carta a buon mercato, ottenuta mediante un trattamento chimico della polpa del legno, che aveva un odore caratteristico e ingialliva presto. Queste riviste contenevano molta narrativa “popolare”, cioè scadente e seriale: quella narrativa, peraltro, sulla quale si sono formati quasi tutti i maestri della letteratura “di genere” (fantascienza, fantasy, horror, thriller, ecc.). Il corrispondente italiano dei pulp magazines potrebbero essere gli Harmony e Blue Moon (che totalizzano complessivamente venti milioni di copie vendute all’anno). Ma la cosiddetta letteratura pulp italiana è tutt’altro che popolare; si propone invece come operazione ipercolta, iperletteraria ecc., svolta nel segno del gioco sfrenato, e apparentemente poco capace di stare in relazione con la realtà (ma molto capace di stare in relazione con i mezzi di comunicazione). In qualche caso invece la capacità di assorbire nella propria lingua le “icone” e i “miti” di cui parla Scarpa si unisce a una forte capacità di rappresentare il mondo reale (“il cielo e la terra”, come scrive Panzeri). Il risultato più importante, in questa direzione, è senz’altro Fonderia Italghisa di Giuseppe Caliceti (Marsilio, pp. 265, L. 25.000), storia di un gruppo di ragazzi emiliani che dà vita a una discoteca nel capannone di un’ex fonderia (la Fonderia Italghisa esiste veramente, in via Gonzaga 41 a Reggio Emilia; in ogni copia del libro c’è un invito gratuito). Non è un romanzo privo di difetti ma è probabilmente il libro italiano più importante del 1996.

Pubblicità

Tag: , , , , , , , ,

Una Risposta to “Pulp oggi, quale domani? Il caso italiano (1996)”

  1. ludeangeli Says:

    Dopo l’Ulisse e Nostra signora dei turchi nella mia top tre viene di sicuro FLUO. che di sicuro è anche molto più divertente, oltre ad avermi introdotta all’uso improprio dell’etizolam.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: